Recentemente, sul “Corriere della Sera”, ragionando sulle Scrittrici “cattive” rimaste nell’ombra, Paolo Di Stefano ha scritto di Lalla Romano. Morta nel 2001, a Milano, plurionorata – nel 1969, con Le parole tra noi leggere, ottiene lo Stregabattendo una vasta batteria di maschi che contava, tra gli altri, Cesare Garboli, Fulvio Tomizza, Piero Chiara, Tonino Guerra –, non si può dire che i libri di Lalla Romano siano scomparsi dalle nostre librerie. La si pubblica, però, come si accendono le candele, in grazia al caro andato, in corso di estinzione. Il doppio ‘Meridiano’ Mondadori che ne raccoglie le Opere, curato da Cesare Segre trent’anni fa è quasi introvabile; alcuni testi sono scomparsi dal ménage editoriale, a tratti riproposti da Lindau. Insomma, Lalla Romano è figura ormai evanescente, un classico pieno di effimere, chi ne discute più?
“Se fosse francese godrebbe della stessa popolarità delle due, eccelse, Marguerite: Yourcenar e Duras”, scriveva, appunto, poco fa, Di Stefano. In parte ha ragione: la scrittura della Romano, memorialistica, screziata, introspettiva, che sconfina nella spietatezza è assai ‘francese’. Tra i francesi, per altro, preferiva Flaubert, di cui, per Einaudi, aveva tradotto Tre racconti e L’educazione sentimentale; la traduzione del Diario di Delacroix riferisce invece, in diagonale, del suo amore per la pittura, praticata con talento – dal 1928 frequenta la scuola di Felice Casorati –; in effetti, la Romano scrive con il pennello in mano, non di rado usando la spatola, o spingendo le dita nella pasta colorata. Non ha paura di ‘sporcare’, di definire un ritratto tra torsioni. Quanto al resto, la Romano non possiede la peculiarità romanzesca della Yourcenar né la rapidità erotica della Duras: nata a Demonte nel 1906, resta piemontese nel profondo, selvaggia e rude, rigorosa e pagana, anacronistica e iconoclasta; scrive, insomma, come sul tavolo di un tribunale, in piedi, con il magistero di chi spartisce le colpe. Nell’opera, la schiavitù del particolare si fonde con il perentorio registro delle anime perse: da tale razzia non sfugge certo la scrittrice, che nessuno salva, salvo il favore della memoria, il furore della vita in vitro.
Scrisse per Ardengo Soffici, si scoprì poetessa, grazie a Eugenio Montale e a Gianfranco Contini, e nel 1941 pubblicò Fiore. Durante la Seconda guerra fu resistente, aderì al Partito d’Azione, diventò amica di Pavese. Faceva l’insegnante. Esordì come scrittrice con Le metamorfosi, nella leggendaria collana ‘I gettoni’, curata da Elio Vittorini: era il 1951 e con lei pubblicavano Franco Lucentini, Italo Calvino, Beppe Fenoglio e – il caso… – Marguerite Duras. Nel ’76 viene eletta nel Consiglio comunale di Milano, dove si era trasferita, trent’anni prima, seguendo il marito, Innocenzo Monti, che diventerà presidente della Banca Commerciale Italiana. Gareggiava come indipendente del Pci, “si dimetterà l’anno dopo”; dopo aver collaborato con il “Corriere della Sera”, dal 1988 scrive su “il Giornale”. Il marito era morto poco prima, nel 1984: per lui, a mo’ di epitaffio, di soffio lirico, scrive uno dei suoi libri più belli, Nei mari estremi. La copertina della prima edizione, Mondadori ’87, raffigura una barca assediata dagli iceberg, in un qualche artico; per l’edizione definitiva – Einaudi, ’96 – viene scelto un quadro memorabile di Caspar David Friedrich, Monaco sulla spiaggia: il mare sembra una sbarra di ferro, l’uomo è insignificante, sottoposto a un regno di nebbie; su tutto domina il deserto, da ultimo giorno.
“Nei mari estremi… ci fa pensare ad una croce appena piantata sul campo di battaglia ancora insanguinato, fra lacere bandiere e uniformi immerse nel fango. Siamo vicini a un personalissimo punto zero”, scriveva Eraldo Affinati, recensendo il libro su “Paese Sera”. “Quando eravamo appena sposati, tradusse per me I morti di Joyce. Cade la neve, in quella novella? (O forse la leggevamo mentre nevicava). Ho sempre collegato le due cose”, scrive lei, chissà, forse sbriciolando gli auspici e gli aruspici. Nella Premessa all’edizione del 2000, la Romano spiega che il titolo del romanzo è tratto da una novella di Andersen, che a sua volta si riferisce a “un versetto biblico, il versetto 9 del salmo 138” (il 139 secondo il testo ebraico). “Se prendo le ali dell’aurora/ per abitare all’estremità del mare,// anche là mi guida la tua mano/ e mi afferra la tua destra”. Guido Ceronetti rende così: “Piglio le ali dell’aurora/ Mi poso là dove confina il mare// Anche laggiù mi tiene la tua mano/ È la tua destra che mi racchiude”. Quel salmo è riassunto in un verso di micidiale potenza, “Per te la notte splende come il giorno”, segno, scrive Ceronetti, “di rivincita della Luce, di opposizione metafisica radicale al potere schiacciante dell’Oscurità”. È un canto che permette di accedere ad altri mondi e forse di far risorgere un amore.
Nell’edizione del ’96, in appendice, la Romano pubblica dei fogli ritrovati e affini al libro, Minima mortalia, da cui abbiamo prelevato alcune scaglie, aforismi in un roveto. Portava ampi cappelli, dicono fosse antipatica: semplicemente, era lei; un’estremista, spesso sfuggente.
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Minima mortalia
(17 aprile ’84) nello stesso momento che le cose acquistano un grande valore, perdono il loro valore (la vita e la minaccia per C.)
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Rita (Levi-M.) a Torino molti anni fa, mostrandomi una serie di radiografie di una tubercolosi, disse: Come la nona. L’avevo considerata una battuta estetizzante (e il ridicolo notato da Longanesi di quelli che dicono “la nona”). Adesso so: la progressione, il crescendo di un processo naturale ha una maestà, una potenza analoga allo sviluppo di un tema musicale.
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la difficoltà con Gesù non è che fosse Dio, ma un uomo.
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Vorrei rifiutare le gioie infinite della giornata: le margherite, il mughetto nel vaso inglese ecc.: per non amare troppo la vita (il terrore delle sofferenze future di C.).
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Mi piace pensare a Gesù come a un uomo: anche lui ha sperato, ha disperato.
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non si può sfuggire al simbolico. Riccardo B. (grande scrittore anche nel senso di chi ha scritto molto) e gran mangiatore, ridotto a cibarsi di pappe (non sopporta la protesi) ringrazia – ha una grande gentilezza – ma aggiunge: Adesso vorrei una bistecca. Mi ricorda il Carducci: Dicono che bevo troppo; ma ho ancora sete!
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Una donna avventurosa, ormai anziana, chiama “il mio primo amore” il suo ultimo amante.
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C. dorme raggomitolato, semiscoperto, come in un rifugio, in una fuga.
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non capisco come ci possa essere gente annoiata e gente spensierata. Sono gli stessi, forse.
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a chi ha sonno sembra capriccioso l’insonne; all’insonne sembra ottuso il dormiente.
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sempre più penso che Gesù si è inventato “dio padre”.
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sì, l’umiliazione. Ma perché l’umiliazione di quel bambino che l’uomo era? (è stato).
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quando abbiamo imparato a vivere, moriamo.
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da giovane avevo detto a un filosofo: Come si può accettare l’Inferno? E lui: E il Paradiso?
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chi è protettore, lo è stato sempre, anche da bambino (Innocenzo). Chi è destinato a essere protetto, non lo è solo da bambino (come quasi tutti), ma anche da adulto.
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solo i miracoli sono reali, solo le favole sono vere.
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Spesso, mentire è carità.
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nevai. Un uccellaccio che cerca di arrampicarsi sinuosamente come una lucertola, un altro con un corno sul becco, figure mantellate a braccia distese…
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ho paura di dargli noia con la mia vivacità e interesse per le cose; ma sarebbe meglio essere taciturna e tetra?
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davanti a uno che muore, la parola vivere suona oscena.
Da una ruvida mano siamo spinti
riluttanti animali
scacciati dal calore di una tana
sulle strade ventose.