16 Marzo 2024

“Era terrorizzato dai rapporti umani; credeva nell’istante, nell’adorare”. Piccola gita su un romanzo a forma di felino

“Emendare Dio” – così aveva detto – quel giorno, era il 1937, era marzo a dire degli alberi iridescenti come novizi – per sette mesi era scomparso – cominciò a disegnare pantere.

Raccontò di un monaco – a volte diceva di averlo conosciuto in Irlanda, altre a Domodossola, in Italia, vicino al Lago Maggiore – che leggeva la Bibbia cancellando le parti che gli parevano ingiuste, eccessive. Finita la lettura, prendeva un’altra Bibbia, ricominciava. Usava una penna nera, “non occorre aggiungere parole perché nella Bibbia c’è tutto, non puoi cambiarla perché Dio è l’esattezza – devi togliere, emendare”. Sembrava che quel monaco fosse nato per redimere Dio – “cicatrice” chiamava il suo lavoro. Nella cella c’erano decine di Bibbie fitte di abrasioni e di cancellature. “Non puoi tagliare le dita al Crocefisso” disse di aver detto, Edward. “Cavo i chiodi e suturo gli squarci”, disse il monaco. “Senza ferite Dio è disumano”. Gli mostrò il corpo, pieno di tagli – colpendo la Bibbia cancellava se stesso.

“Non c’è opera che non faccia male”. Forse intendeva dire “il male”. I gemelli, insieme, lavoravano nel contrasto: uno disegnava la morte dell’altro. Senza Charles, Edward era privo di qualcuno da sconfiggere o a cui resistere, soggiogato.

Ricominciò a disegnare, sigillandosi in diversi nomi. Samuel Dyn, Sylvester O., Nathan Jones, Jeremiah, Salvator Rosa. Disegnava pantere, ciascuna in uno stile diverso. Voleva emendare se stesso, moltiplicandosi, finché tutte quelle identità non lo avessero soffocato.

Tra le carte del fratello, Sarah trovò una lettera di James Joyce: “Ha capito che bisogna spirare nell’opera, che bisogna sparire – l’identità è dottrina di idioti, ogni bisbiglio è colpevole”. Gli chiedeva “una delle sue fulminanti pantere” per una nuova edizione dei Dubliners. Nessuno sapeva dove abitasse Edward Detmold – la lettera arrivò a Sarah tramite Forster. Era intestata Parigi, 17 maggio 1937. Edward disegnò qualcosa firmandosi Charles Detmold – stette male per qualche giorno. Era convinto che la nostalgia di Charles avesse ucciso Edward – si riconobbe in una scia di mosche.

Sarah aveva deciso di fare il trasloco prima del funerale – il giorno dopo sarebbero giunti quelli dell’impresa. Le serviva pochissimo, come sempre – pensò di fare a meno anche di quello. Passava per le stanze della casa come dentro a grandi vasche, vuote, che per lunghi anni abbiano ospitato murene e pescecani. Abbaiava – pensò che senza parlare ad alcuno presto avrebbe disimparato l’alfabeto. Questo pensiero la rinvigoriva. In giardino bruciò i disegni di Edward, insieme a molti dei suoi, dei loro, vestiti. Il fuoco divampò facilmente, dentro un anello di pietra; conservò per sé i vestiti da ragazza. Le fiamme si spezzavano in miriadi di volpi che morivano e risorgevano, una dopo l’altra, a decine.

**

Molto prima delle pantere, a centinaia, Sarah aveva scoperto le lettere. Una donna aveva scritto per undici anni, ogni giorno, una lettera a Edward. Lui non le aveva mai risposto, lei era più giovane di vent’anni: “Ho bisogno che mi scrivano per non rispondere”, le aveva detto. Voleva essere adorato per negare l’adorazione, voleva che ogni uomo gli consegnasse il suo segreto per segregarlo nel disprezzo. “Penso che abbia dei figli”, aveva detto, accennando alla donna.

La maggior parte delle lettere non erano state aperte, Sarah trovò quella crudeltà schifosa, era il 1924, probabilmente, prese un tagliacarte e colpì una mano di Edward. “Scrivile tu”, disse lui, la mano si era ritratta, come un insetto. “Non ti basto? Io non voglio conquistare, lambisco, tocco il punto di fuga di ciascuna donna, quello che, colonizzato, fa fare ogni cosa, ammette tutte le follie”. In bagno, mentre si curava la mano, “noi non apparteniamo al tempo, siamo legati dalle origini, ci ritroveremo altrove”. Edward credeva che soltanto i legami tra fratelli fossero autentici perché l’unico patto valido è il sangue, la sola promessa la carne. Era un concetto orribile, “i fratelli si uniscono o si ammazzano”, disse più tardi, “per noi il problema è dividerci”.

Sarah ricordava quella sera, alcuni corvi stavano scorticando una volpe, morta, in giardino. Gli uccelli sembravano evocati dall’immaginazione della volpe, sembravano monaci neri che con ardore impietoso procedano a illustrare l’Apocalisse, con esigenza di mostri. La donna urlò, i corvi si alzarono, infastiditi, per poi ripiombare sulla preda, più tardi, senza turbamento – Edward prese un foglio per disegnare la scena.

Con molte donne – sceglieva sempre lo stesso tipo: magre, d’indole nervosa, particolarmente belle – si era appena avventurato. Le aveva viste una volta, si era scritto per un po’, si era unito a loro con miserevole fame. “Lo sai che Kipling è impotente?”, le diceva, per l’ennesima volta. “Quell’uomo è incredibile: non copula, mangia”. Quando diceva cattiverie casuali e gratuite, Edward mostrava i denti, che scintillavano come occhi. A volte Sarah glieli toccava, “questi denti sembrano pensare”. “Un artista guarda con le mascelle, masticando”, rispondeva lui.

Era certo che il marito di una di quelle donne che continuavano a scrivergli lo avrebbe ucciso, un giorno. “Morirò per difendere l’onestà di una donna di cui non ricordo il nome, con cui non sono mai stato, che ho distrattamente sedotto”, diceva, serio. A tutte quelle donne aveva fatto il ritratto – spesso erano nude, con il viso assente, muto, mutilato. “Domandati, piuttosto: perché sprecarsi dietro a uno che non le riconoscerà mai?”. Perché una donna ha mille identità e almeno una vuole disintegrarla, pensava Sarah.

Era stato con delle minorenni – non certo per sentirsi giovane. Non si sottraeva alle attenzioni, era diabolicamente disponibile. A differenza di Charles, che sorrideva, da un pudore remoto.

Fece una lista delle corrispondenze – ricavò gli indirizzi di ventiquattro donne. Non credeva al genio delle cifre, per Edward tutto era una combinazione priva di schemi o contorni. Scrisse a tutte, firmandosi come il fratello, che aveva deciso di uccidersi, le avrebbe portate con sé nelle dimore eterne.

Edward sarebbe stato felice: la sua anima, o quell’ultimo rigore di tenerezza, era rannicchiata sull’albero, ora. Era solito scrivere, benché di rado, la stessa lettera alle sue svariate ammiratrici per studiare con scientifica curiosità le loro reazioni.

**

“Quando un luogo è stato sancito dalla scrittura è impossibile farvi ritorno, che cosa c’è da ritrovare? Bisogna rassegnarsi al fatto che i luoghi non corrispondono – per eccesso, per difetto, per esclamazione – alla nostra voce. La scrittura è un seme velenoso, soffoca l’autentico, fino alle radici, alla preistoria”. Karen Blixen era stata l’estrema scoperta, gli scriveva dalla Bretagna, “le lanterne, in giardino, forgiano un mondo di ombre che compete con questo, ne esamina l’esilio”. Gli chiedeva – ordinava, è più corretto: quella donna era dotata di una determinazione equatoriale – disegni di bestie, di leoni, per lo più, “perché torni a me l’Africa che ho perduto”.

Gli aveva inviato una fotografia: aveva un telo sulla testa, il fucile, era di profilo – era il 1928 e Karen Blixen sembrava una divinità, carnivora, a caccia di umani. Aveva il viso dell’ibis, l’uccello sacro agli egizi, che scandaglia le debolezze, indifferente. Probabilmente, Karen Blixen era disposta ad accettare le copie, che sono, in sé, diaboliche. Nel 1914, rigettata da chi amava, ripiegò sul fratello, gemello, Bror von Blixen-Finecle, che le rovinò la vita. La Blixen non si era sposata per amore, ma per vendetta – come chi spacca uno specchio credendo di trovare l’ingresso a una grotta, ma ogni motivazione non fa che esaltare il sacrilegio. La copia, il tradimento dell’originale, come sapeva bene Edward, porta chi la venera alla rovina. Per questo la Blixen evitava di ritornare in Africa – i ricordi l’avevano desertificata. “Se si ha bisogno di un disegno o di una fotografia per rinfocolare la memoria significa che ciò che si è vissuto era un falso”, le rispose Edward. Lo eccitava che qualcuno gli avesse consegnato un segreto tardivo, una estrema fragilità; gli piaceva rifiutare una richiesta così pura.

Karen Blixen (1885-1962)

La Blixen aveva perso tutto: il padre, da bambina – si era ucciso, estenuato dai tradimenti: per due anni, nei boschi americani, aveva vissuto da cacciatore, la lista dei figli nati fuori dal matrimonio dilagava nel biblico. Non appena ammetteva di amare qualcosa, la perdeva: il suo amante inglese era morto in un incidente aereo, in Africa; aveva perso proprietà, marito, amici. La famiglia Blixen la trattava come una morgana, una donna schiavizzata dalle inquietudini. Si era convinta di uccidere tutto ciò che toccava. Credeva che ciò che si narra, scompare. Infine, senza la fattoria, aveva perduto l’Africa. Gli indigeni la reclamavano quando occorreva abbattere un leone, preso nella sua proprietà; Karen Blixen era fredda, feroce, accettava ogni morte – sembrava poter vivere senza bere, senza respirare. Da scrittrice preferì abolire il nome: si firmava Isak Dinesen e con almeno altri cinque pseudonimi, che dimenticava spesso.  

Edward non aveva mai conosciuto una donna con una tale capacità di indignarsi – era a caccia di se stessa, della sua giovinezza ricordava pianure e cuspidi, barometri e cattedrali, crescendo rimpiccioliva. Di un cilindro passato nel solvente non resta che l’anima, un urlo di luce: lei era quello, una cosa che scava soltanto a guardarla, un orfano in ferro.

Edward era terrorizzato dalla corruzione dei rapporti umani, volubili, diafana evidenza del caso; credeva nell’istante, nelle realtà uniche e univoche, nell’adorare, eppure rispondeva alla sua paura dandosi a tutti e a nessuno, poco più di un opaco episodio nelle vite altrui. Per essere indimenticabile, fuggiva – restando tra le memorie provvisorie, parziali, patetiche. Ancora, aveva bisogno degli altri per esistere. Così, si negò la possibilità di conoscere la baronessa Blixen, era cattivo – senza giustificazioni – con chi lo amava, voleva farsi odiare. Riteneva sacra la prostituzione: darsi a uno sconosciuto per dargli piacere era un ufficio sacerdotale – avrebbe voluto offrirsi, sotto lo spettro di vasti nomi.

*In copertina: un’opera di Edward Detmold, “Tiger Tiger Burning Bright”, 1924

*Si pubblica una porzione del romanzo di Davide Brullo, “La pantera”, Industria & Letteratura, 2024

Gruppo MAGOG