24 Maggio 2020

“Tuo figlio ha lo sguardo di fuoco e il viso come l’alba”. Il romanzo del giovane Gengis Khan

Decoravano i fianchi dei cavalli con figure di lupi, di aquile, di serpi – nella corsa, i cavalli possono assumere ogni natura e ogni essere imita il proprio opposto. Uno aveva disegnato delle nuvole, per imporre alla bestia una anatomia ancora più instabile – un altro aveva scritto sul suo cavallo il racconto della creazione, dalle froge agli zoccoli delle zampe posteriori, così che l’animale, al galoppo, fosse un canto. Ma Temüǰin, che di ogni cavallo sapeva l’insospettabile cuore e che anche nel vento vedeva un volto, non sapeva cavalcare e la madre, Höelün-üǰin, temeva per il suo futuro, perché l’anima di un bambino del clan Bordžigin è legata al suo cavallo, senza il cavallo non vivi in questo mondo e non vai negli altri mondi. Come fiotti di miele nero le mosche vagavano a mezz’aria per la pianura, accerchiavano le yurte – Temüǰin si faceva imboccare dalla madre, e la madre, che era stata educata come cristiana da un nestoriano, toccando i denti del figlio diceva, tu saprai mordere la faccia di Dio. I figli di Höelün-üǰin erano a cavallo, ne sentiva le urla, che rimbombavano sul pelo della yurta, e il giorno li consumava. La madre, Höelün-üǰin, la bella, pensava che giocando con il figlio, Temüǰin, come si gioca con uno sposo, lo avrebbe salvato dalla vecchiaia e dalla necessità di agire – le yurte, in effetti, sembrano campane e chi vi si ripara è immune alla luce come alla corruzione, entra nel ghiaccio. Il giorno – pochi giorni dopo – in cui Temüǰin tornò alla yurta sul dorso di un cavallo, in piedi, con le braccia sui fianchi, senza alcun cenno di rivalsa, e il sauro era del tutto simile a un lupo, ci fu chi disse, ora il figlio di Yesügai-Bagatur è pronto a diventare il sole – nessuno sapeva, tranne la madre e lo sciamano, che lui, Temüǰin, stava sveglio, di notte, per arginare l’avidità dei morti.

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“Vado a richiedere una fidanzata per questo mio figlio ai suoi zii materni”, disse Yesügai-Bagatur; Dei-Sečen disse allora: “Tuo figlio ha lo sguardo di fuoco e il viso come l’alba”

I falchi, roteando, fortificano la luce, che ora è dura come una parete mentre Yesügai-Bagatur solleva il figlio, Temüǰin: lo solleva e il figlio sembra una fiamma. Temüǰin ha nove anni, il padre ha deciso di trovare per lui una moglie ed è verso i parenti di Höelün-üǰin che si dirige. Temüǰin sa che non vedrà più la madre, che sarà legato a un altro clan, ma non piange perché di notte il suo corpo diventa stretto come una vipera e può penetrare i sogni di chiunque. A terra il bambino vede una conchiglia, che affiora, la estrae, con un gioco d’equilibrio, scendendo in corsa dal cavallo, che si chiama Indifferenza, a causa della sua ferocia – lo si è visto, l’anno prima, frugare con il muso dentro il corpo morto di una capra, mentre elaborava, forse, mordendo, una analogia tra la carne e il tempo. La conchiglia che ha estratto Temüǰin è lì da qualche millennio e ha visto creature marine ormai scomparse scomporsi e saltare su quella pianura, ricoperta di acque – ha la forma di una bocca e chi avrà avuto l’onore di una visita privata con il Khan, vent’anni più tardi, l’avrebbe notata al suo collo, mentre il re ricamava la solita frase atta a intimidire gli ambasciatori, “questa conchiglia c’è da più tempo del vostro impero e resisterà alla vostra morte”.

Dalla luce esce un uomo, all’improvviso, come di ritorno da un viaggio nel tempo, Yesügai-Bagatur afferra il pugnale, pronto, ma l’uomo dice il suo nome, Dei-Sečen, e quello dell’altro, e i due nomi coincidono con gli stessi ricordi, la parentela, il clan. I ricordi, per saldarsi, hanno bisogno della fiamma: Temüǰin prepara le pietre, incocca il fuoco e non guarda gli adulti, mentre parlano. I denti di Yesügai-Bagatur e di Dei-Sečen brillano, come dadi di cristallo, mentre dal passato, assolta la somma dei padri, si sporgono sul futuro: mentre mordono carne secca, definiscono non solo il destino di Temüǰin ma il legame dei clan, nodo per nodo. “Tuo figlio ha lo sguardo del fuoco, il viso inesauribile dell’alba”, dice Dei-Sečen. Dei-Sečen valuta il ragazzo per ciò che è in questa vita e ciò che sarà nella prossima, perché esistono clan anche tra i morti e i patti vanno valutati oltre le conseguenze contingenti. Dice di avere una figlia di nome Börte, “ha lo sguardo come il fuoco, il viso inesauribile dell’alba”, dice, Dei-Sečen, e convince Yesügai-Bagatur a seguirlo nel suo villaggio.

Il fuoco si spacca in centinaia di farfalle in fiamme, Yesügai-Bagatur, la mattina dopo, legge i segni lasciati dal fuoco sulla legna. Dei-Sečen dice: Ho sognato il sole e la luna e un falco che li stringeva tra i suoi artigli. Temüǰin cavalca con il padre per l’ultima volta, gli chiede di sedere dietro di lui, mentre il cavallo, che gli è fratello, lo segue. Abbracciando il padre, Temüǰin gli morde la spalla, fino al cristallo del sangue.  Temüǰin cerca di capire cosa sarà suo padre nell’altro mondo, in che bestia si potrà trasformare, se gli sarà contro o di aiuto. Il fiume ha un suono opaco, monotono, il giorno s’intreccia alla criniera dei cavalli e Temüǰin ha fame, è pronto a divorare ogni cosa.

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Egli vide la bambina e gli rimase nell’anima. Aveva dieci anni, un anno più di Temüǰin

Gliela presentarono sotto un gheriglio di veli, e lui capì che l’enigma dona grandezza, che si invidia l’invisibile. Poi lei scappa, inseguita dalla risata, e i suoi fratelli, otto, quasi tutti più grandi di Temüǰin, lo attaccano – il bambino vede il Giaguaro dipinto sulla volta della tenda, poi è sommerso di braccia, ma sa infilarsi nella debolezza altrui e neppure gli otto riescono a vincerlo. La forza di Temüǰin è intuire la ferita del nemico, la soglia del crollo, è agile e nuota tra i corpi come nell’acqua. Sei un serpente, dice il fratello più grande di Börte, felice.

La cavalcata era stata breve e blu, un lungo fischio aveva assecondato, come un segugio, il ritorno di Dei-Sečen al villaggio e Yesügai-Bagatur nel frattempo aveva misurato la vastità di terra tra il suo clan e questo – guardando la bambina, in privato, di nome Börte, cercò di valutare la gittata di gioia del figlio. Per dire sì e confermare le nozze, aveva morso l’orecchio di Dei-Sečen e Dei-Sečen aveva morso il labbro superiore di Yesügai-Bagatur – così, come aveva morso il cordone ombelicale per sancire la nascita del figlio, Temüǰin, ora il padre, mordendo il corpo del padre adottivo, si separava per sempre da lui. Fu la moglie di Dei-Sečen a gridare – dalla yurta umida, la lingua della donna guizzava come una firma – per dire al resto del villaggio che il patto era fatto e che doveva infiammarsi la festa. La donna era ancora bella e Yesügai-Bagatur approvò la famiglia in cui s’innestava il figlio. Ha paura dei cani, disse. Ma non lo disse come un rimprovero, per questo Dei-Sečen pensò che “cani” fosse un modo per intendere gli uomini dominati da una fame disordinata, proni alla viltà, invidiosi e inquieti – per questo, promise di proteggere il suo nuovo figlio, Temüǰin.

Davide Brullo

Gruppo MAGOG