170 anni dall’uscita del Manifesto, ma per Marx è un mesto anniversario
L’incipit, certo, è fulminante. Potrebbe attagliarsi magnificamente anche a un romanzo gotico, con l’immagine di quello spettro in agguato per l’Europa. E poi è accattivante, pieno di senso del ritmo. Di solito i filosofi non sanno scrivere, sono ampollosi e contorti – il più delle volte inutilmente. Marx, invece, questo glielo dovrebbe riconoscere anche il più accanito dei detrattori, ha una marcia in più. Se non fosse che ne conosciamo bene la provenienza, lo si potrebbe quasi scambiare per un prosatore americano. E degli americani ha anche quella logica molto manichea che vede due fronti ben chiari e contrapposti: da una parte le potenze della vecchia Europa e dall’altra i comunisti; sul versante del male i borghesi e dall’altro i proletari. Del resto, non si possono suscitare facili entusiasmi senza tracciare linee nette, proprio come ha insegnato il cinema d’oltreoceano riproponendo per decenni la dicotomia cowboy-indiani.
Chiaramente il noto filosofo ebreo va ben oltre certi facili trucchetti da scuola di giornalismo. Già il secondo capoverso del noto Manifesto, di cui ricorrono quest’anno i centosettant’anni, ne rivela tutto l’acume di pensiero e la grande attualità: “Quale partito d’opposizione non è stato tacciato di comunismo dai suoi avversari governativi?”. In effetti, vediamo ogni giorno che le accuse di comunismo e fascismo fioccano come coriandoli a carnevale, pur mancando ormai del tutto comunisti e fascisti in questo (e in ogni) paese.
La sensazione, rileggendo l’agile pamphlet a distanza di così tanto tempo, è di avere tra le mani un classico, con tutto ciò che comporta l’appartenenza a una tale categoria. C’è notevole lungimiranza in quest’opera – una delle migliori descrizioni della globalizzazione si trova proprio tra le sue pagine. Ciò non toglie che il testo risenta e non poco del trascorrere del tempo. Marx, com’è ovvio che sia per un uomo dell’800, non poteva immaginare molti dei tragici sviluppi novecenteschi e postnovecenteschi che le sue categorie ideali avrebbero conosciuto. Per esempio, non aveva previsto che il proletariato si sarebbe borghesizzato. Aveva compreso che la fluidità del sistema capitalistico tende a far passare continuamente la parte più debole della borghesia entro il proletariato – la famosa proletarizzazione –, ma neppure la sua capacità di previsione si era spinta fino allo scenario attuale. Oggi, i proletari, che certo ancora esistono, anzi aumentano a livello esponenziale, sono tutti dei borghesi, nel senso che non possiedono più un sapere caratteristico come un tempo, ma hanno introiettato le aspirazioni e i desideri degli avversari, la cosiddetta cultura della classe dominante. Per intenderci, se un tempo il proletario sapeva lavorare la terra e possedeva tante altre abilità manuali, oggi non ha più delle competenze specifiche, essendo a sua volta un semicolto come tutti i borghesi. Inoltre il suo desiderio, allora limitato a una mera sussistenza dignitosa, è di questi tempi appiattito su quello della borghesia: il figlio dell’uomo che lavora al call center per 500 euro al mese aspira, come il figlio di Berlusconi, a possedere un iPhone. In tal senso, è inutile leggere Marx senza integrarlo con ideologi quali Pasolini.
L’altra grave pecca del famoso economista dipende in ultima istanza dalla sua intima fascinazione per il suo nemico. L’autore del Capitale è vittima di una contraddittoria attrazione e repulsione per la borghesia che tanto avversa. Ne riconosce il portato nichilista (“la borghesia ha strappato il commovente velo sentimentale al rapporto familiare”), ma al contempo ne loda la dote rivoluzionaria, la spinta al progresso, l’aver “sottratto una porzione considerevole della popolazione all’idiotismo della vita di campagna”. Palesemente Marx non è un critico dell’industrialismo che, infatti, come sottolinea bene Massimo Fini, è la moneta di cui liberalismo e comunismo sono le due facce.
Ma l’errore fondamentale e imperdonabile del marxismo sta nella scarsa propensione all’indagine psicologica. Marx ha ragione nel dire che l’economia è la struttura fondamentale di cui tutti gli altri aspetti della società sono una semplice emanazione. L’arte di Emily Dickinson, con quella chiusura al mondo che diviene estatica contemplazione della natura, è l’indiscutibile frutto della sua appartenenza alla classe agiata. Ciò non toglie che, per dirla con quel gigantesco specialista dell’animo umano che è stato Sartre, “il marxismo è una filosofia rozza nello spiegare l’intenzionalità umana”. Non per niente Marx, completamente deviato da una visione del corso storico come orientato a un certo fine, perde di vista che la Storia è fatta dai singoli. Non esiste il proletariato, ma solo dei proletari. La coscienza di classe – dire a sé stessi “io sono un miserabile, uno sfruttato” – non è faccenda che riguardi un’entità astratta, ma attiene all’intima coscienza personale. Direbbe sempre Sartre che, anche con le catene ai polsi, io sono libero. Libero di pensare che chi mi tiene in schiavitù sia il mio nemico, il mio aguzzino. Vi basterà entrare in un centro commerciale – scusate la trivialità – per rendervi conto che oggi lo schiavo adora la sua servitù, anzi chiede che i suoi margini di libertà vengano ulteriormente ridotti. Altroché “i proletari non hanno alcunché da rimetterci se non le loro catene”. In ciò la borghesia ha dimostrato la sua massima potenza borghesizzandoci tutti, facendo sognare un benessere alla portata di ognuno, costringendo, con l’istruzione di massa, anche i proletari alla sua visione del mondo. Il filosofo, al contrario, è tristemente caduto, a fronte del suo sbandierato scientismo sociale, nell’utopismo più infantile. Il suo manicheismo ha rivelato dei limiti eclatanti. Anche Fantozzi, che pure ha un sussulto di coscienza leggendolo e si reca al lavoro apparentemente pronto alla rivoluzione, al cospetto del Mega Direttore, rivela tutta la sua intima miseria e la mancanza di forza morale per non cedere al servilismo. Ecco il punto: non basta essere proletari per voler essere liberi. Buon anniversario, caro Marx!
Matteo Fais
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Sarei disposto a redigere un’ode per Marx. Ma Dostoevskij è infinitamente più importante
Abito a Riccione. Davanti alla Biblioteca di Riccione c’è la statua di una testa mozzata su un parallelepipedo verticale di marmo. La testa decollata – specie di Giovanni Battista del popolo lavoratore e oppresso – è quella di Marx. A Riccione, dove la gente cala in massa per sbattersi in spiaggia e per sbattersi la prima che passa, Marx è il rappresentante della cultura civica. No Leopardi. No Manzoni. No Pascoli, il cantore della ‘piada’ e della ‘romagnolità’. Marx. Quando Karl fa gli anni – il 5 maggio – un corteo di marxisti-leninisti piuttosto vintage – e piuttosto sparuto – pone dei fiori davanti alla testa decapitata del geniale ideologo. Quest’anno Marx compie 200 anni, è nato nel 1818. Arriveranno con il sax e la fisarmonica, immagino. Un inno a Marx sono pronto a comporlo anche io. Il faccione di Marx a Riccione – quando proposi pubblicamente di sostituirlo con Nietzsche (la barba fragorosa è la stessa) o con San Pietro (la faccia pare uguale, d’altronde Marx è il promotore del paradiso per la classe operaia) o con Leopardi a momenti non mi lapidarono – è l’emblema del successo che riscuote ancora il divo Karletto. Solo che Marx, divinizzato come il ‘Che’ o come James Dean, in fondo meno influencer di Chiara Ferragni, è tanto citato quanto ignorato. Beh. In poche parole. Marx è un genio. Marx è un genio del pensiero e della scrittura. Marx, nato 200 anni fa, ha capito il nostro mondo e decrittato il nostro tempo. La sua importanza è capitale – borghese gioco verbale. Come Marx, a fondamenta dell’era moderna, solo Freud e Darwin. Dietro di loro, Nietzsche e Oswald Spengler. Davanti a loro quello che dirò dopo. Marx, come si sa, ha capito che “La storia di ogni società esistita fino a questo momento, è storia di lotte di classi”, e che il denaro è l’olio che fa funzionare l’essere umano. Oggi viviamo ancora nel mondo descritto da Marx. Ci hanno detto che non ci sono più le ‘classi sociali’. Già. Oggi ci sono i ricchi sfondati e gli straccioni. In qualche modo, la lotta di classe è molto più radicale, molto più violenta. Alienazione è un tema radicale nel mondo di oggi. Alienazione e frustrazione alimentano il consumo – il desiderio elevato a ossessione. Secondo Marx l’essere umano è misurabile, ogni cosa ha un prezzo, a un gesto si rivela economicamente la conseguenza. “Tutta la vita sociale è essenzialmente pratica. Tutti i misteri che trascinano la teoria verso il misticismo trovano la loro soluzione razionale nella prassi umana e nella comprensione di questa prassi”, scrive Marx nel suo opuscolo più raggiante, le cosiddette Tesi su Feuerbach. Marx descrive perfettamente il funzionamento della ‘società’ – ma non capisce l’uomo. La ‘proprietà privata’, ad esempio, è la metafora dello stato di privazione dell’uomo rispetto al prossimo. L’uomo nasce e muore da solo. La ‘proprietà privata’ è l’equivalente dell’ego, non è solo il segno della spropositata brama dell’uomo, è l’icona della sua indipendenza, della sua solitudine sovrana. Avere qualcosa o spogliarsi di tutto, in questo quadro, è la stessa cosa. L’uomo si difende dal prossimo come può. Porgendo l’altra guancia. O mordendo il viso dell’avversario. C’è poi qualcos’altro che Marx non capisce. L’uomo non agisce spinto dal desiderio di vivere felice, dal desiderio di guadagnare. L’uomo non vuole uno Stato-mamma che gli procuri: stipendio, scuole, casa, sanità. L’uomo agisce mosso da impulsi misteriosi. Questi impulsi gli fanno compiere atti mostruosi – esempio: i combattenti che per l’ebbrezza di incunearsi nella vita vanno a uccidere in capo al mondo – o atti di innaturale generosità – mi tolgo il cibo di bocca perché un altro, foss’anche il mio nemico, viva al posto mio. Alcuni chiamano ‘Dio’ questo impulso. Per altri è la connaturata forza che spinge l’uomo a superare i propri limiti: il fatto che è una creatura vivente che copula, cammina, caga, stop non gli va bene, non lo soddisfa. Per questo, il ‘lavoro’ è il tema principale – il lavoro come creatività e massima espressione del genio umano – ma quello ancora più importante è la ‘religione’. L’uomo lavora per conquistare il suo sogno. Il comunismo applicato, come sappiamo, è lo Stato-Dio, la religione del collettivismo. Tutto questo lo sapeva e lo scriveva, negli stessi anni in cui scriveva Marx, Fëdor Dostoevskij. Strano. Proprio in Russia, la terra di Dostoevskij, attecchisce il verbo di Marx. Fruttificando noti orrori. Ogni tanto, basterebbe leggere meglio gli autori di casa propria. E cambiare l’uomo – cioè, se stessi – prima del mondo.
Davide Brullo