26 Luglio 2024

“Tutta la mia anima è un grido”. Con Kazantzakis, alle Termopili dello spirito

Il Monte Taigeto, nella luce mattutina brilla come una agiografia: limoni d’oro, cipressi di cenere, fortezze arse dal sole, azzurre presenze invisibili. Due viaggiatori, ammirano il paesaggio greco onnipotente e mentre contemplano le terre degli spartani sono estatici di fronte “alla fonte della civiltà ellenica”. Come se gli dei antichi si fossero rifugiati nella provincia per sfuggire al logorio del tempo, nascondendo i loro segreti tra le viti e i paletti di gelso del mondo contadino. Travolti da quella visione proseguono il viaggio.

Sono due poeti e scrittori, alla ricerca di un mondo divo e perduto che possa salvare la loro anima; hanno vagato per tutta la Grecia, e quel giorno a pochi passi da Sparta, sperano di trovare ancora, tra le rovine e le ombre degli antichi, gli echi dei passati perduti. Si chiamano Anghelos Sikelianos e Nikos Kazantzakis, entrambi vogliono veder risorgere quel mondo magico e mitico che ha forgiato i loro antenati e come arma per realizzare la loro missione hanno scelto la letteratura. Sono due patrioti che si sono stancati di vivere in una Grecia sottomessa e subalterna, fatta di guardiani e domestici. Sognano una loro Grecia, fatta di fondatori e di conquistatori, di rivoluzionari e di guerrieri, e ammirando, tra le sterpaglie e i cipressi, quel passato lontano e monumentale non vogliono solo venerarlo, vogliono vendicarlo.

Kazantzakis e Sikelianos sono d’un’altra patria e credono negli eroi, ma quel soggiorno sul monte degli spartani, non sarà l’occasione per una resurrezione delle voci degli spiriti eroici, purtroppo per loro, bensì sarà l’occasione per incontrare le fonti di un mondo antico originario e scomparso. Kazantzakis, infatti, mentre passeggia lungo i sentieri del Taigeto, viene attirato da un fiore carico di incanto. Gli si avvicina ed insieme all’amico si domanda che tipo di fiore sia, e quale sia il suo nome. Mentre i due lo stanno per cogliere, vengono circondati da una marmaglia di bambini incuriositi da questi due eccentrici viaggiatori. I poeti allora gli domandano se sanno di che fiore si tratti, ma nessuno di loro lo conosce, tranne un bambino il quale gli dice che sicuramente sua zia Leniò sa il nome di quella pianta. I due allora invitano il bambino ad andare a chiedere alla zia il nome di quel bocciolo, ed impazienti attendono il ritorno di quel ragazzo del Taigeto, con la rivelazione di quel nome segreto. Pochi minuti dopo il ragazzo torna, un po’ sconfortato e gli dice che purtroppo la Zia Leniò è morta il giorno prima. In quel momento nel cuore del giovane Kazantzakis viene travolto, più che in una guerra o in un reliquiario, dal presagio della morte e dell’oblio. Con la morte della signora Leniò se ne andava per sempre una parola, un mistero che nessuno avrebbe più potuto rendere immortale. Ecco che cos’erano le speranze umane, un ronzio di insetti tra due eternità che solo l’arte e il numinoso avrebbero potuto caricare del loro massimo significato. Kazantzakis si fermò a riflettere, a tutti nomi della storia che si celavano tra i monti e i santuari, ai misteri e ai destini che si nascondono nel mondo e che il tempo e la storia stavano per far scomparire.

In quegli anni di “diglossia”, ovvero la divisione della lingua neogreca in quella ufficiale e formale, “purificata”, parlata dagli accademici e dai burocrati, e quella demotica, parlata dai contadini e dai mistici, dai pescatori e dagli antenati, ha la certezza che la storia stia perdendo per sempre quel mondo delle lucciole e del sacro, sperperando quella lingua custodita fin dai tempi di Omero dal popolo ellenico in nome del progresso e dei formalismi. Sceglie quindi di compiere un viaggio nella Grecia popolare e selvaggia, antica e originaria alla ricerca di vecchi nomi per dare nuovi significati alle cose. Come un Pasolini greco Kazantzakis si fa custode di quel mondo antico e originario, crudele e brutale, che in esso nasconde ancora i riflessi del mito e degli eroi, di una terra popolare e umana, che non bisogna rimpiangere, ma resuscitare. Decide di scrivere allora un dizionario del greco demotico, ma il suo piano dopo numerose peregrinazioni tra Creta e le meteore, i monasteri e le acropoli, produce solo un taccuino con circa dieci mila lemmi, che verranno salvati in quell’arca di Noè linguistica che fu la sua Odissea, e la cui storia e cronologia è narrata nel suo libro-testamento Rapporto al greco, edito da Crocetti. Un’opera finale e postuma, non riducibile a mera autobiografia poetica, ma vera testimonianza letteraria e filosofica. Una confessione spirituale con l’anima di quel grande demiurgo cretese che fu El Greco, in cui Kazantzakis riesce a plasmare un testo sacrale in cui l’uomo si alterna col poeta, il filosofo col critico, lo spirito guerriero con la sensibilità ascetica mostrando tutte le sfaccettature, antiche ed eterne, archeologiche e ideologiche della sua opera. 

Nikos Kazantzakis, infatti, non è solo il custode di un mondo mitico e numinoso, ma è soprattutto il profeta di una nuova classicità capace di superare l’abisso del nichilismo e le finzioni della vita retorica del mondo borghese. Nelle sue mani gli archetipi di Cristo, Ulisse e Buddha, che accompagnano le pagine di questa “confessione cretese”, non sono delle maschere, delle urne vuote, ma anime che sanguinano ancora di una vita inestirpabile; vulnerabili e tormentati, irrequieti e dannati, protagonisti che non vogliono regalare frasi rassicuranti o facili lezioni, ma che sanno essere degli esempi di inquietudine e di azione. Martiri di una umanità che lotta per salvare Dio, per liberarsi dalle catene della propria epoca, per uscire dalla caverna dell’opinione e vedere il vero volto del mondo. Pessimista ed eroico, scettico ed attivista, Kazantzakis, sin dalle prime pagine del Rapporto, si presenta come una voce carica di struggente vitalità, ma anche della consapevolezza della decadenza occidentale. L’opera sembra presentarsi come una lirica e mistica anamnesi platonica dove la vita e il martirio di Kazantzakis vengono rievocate retrospettivamente dalla nascita all’educazione, dai viaggi alle sue persecuzioni usando come unici filtri le pulsioni dell’anima e il suo slancio vitale. La formazione dell’autore, figlio di una stirpe di antichi pirati e di duri contadini scavati da secoli di lavoro e fatiche, avviene nel momento di massima tensione della storia greca, tra le sommosse indipendentiste in nome di patria e libertà e le stragi delle catastrofi belliche, il tramonto dell’occidente e gli anni della decisione. Una decadenza che non trasforma in sciami di alibi, illusioni o piagnistei, ma da cui trae il modo per trasformare la fragile grandezza dell’uomo in orgoglio. 

Ne emerge un’educazione sentimentale popolare e colta, patriottica ed europea, che si apre nella prima parte degli anni Novanta dell’Ottocento, in una Creta in rivolta contro l’ordine millenario degli ottomani. Nato nel 1883 in una famiglia ortodossa di Heraklion, si forma alla luce degli insegnamenti cristiani dei suoi precettori francescani e degli ideali patriottici dell’epoca, venerando una mitologia eroica ed ascetica, tra onore e santità, libertà e redenzione, Costantino Paleologo e Cristo. I suoi maestri vorrebbero fare di lui un alto prelato, magari un cardinale, ma la fede ortodossa del padre, ed il suo autoritarismo, lo spingono a diventare un avvocato. Studia a Parigi e a Berlino, visita l’Italia, la Spagna e le sorgenti della civiltà greca, allievo di Bergson diventa un discepolo di Nietzsche e di Spengler, impara numerose lingue, fa il traduttore, il giornalista impegnato, il patriota. Viaggia per l’Europa traducendo i classici: dalla Divina Commedia ai dialoghi platonici, passando per lo Zarathustra, le opere di Darwin, Machiavelli e Pirandello. A quarant’anni inizia il suo pellegrinaggio per salvare l’anima popolare della lingua greca e nel frattempo si innamora della figura superomistica e vitalista di Lenin, anche se non sarà mai un comunista e verso la fine degli anni venti abbandonò questi ideali politici.

Kazantzakis fu, infatti, per tutta la vita un mistico, un asceta, un ribelle, un uomo in rivolta che vedeva nella libertà la massima forma di disciplina, nella lotta l’unico vero dovere dell’esistenza. Formulando una nuova metafisica dell’Azione, che possa rappresentare lo slancio vitale dell’uomo nella sua ricongiunzione col divino, non trascinando Dio sulla terra, ma trasformando la materia in spirito. Una filosofia che fonde oriente e occidente, Mediterraneo e Mar Rosso, il disprezzo del mondo del buddhismo con il superuomo di Nietzsche, il vitalismo di Bergson e il misticismo dei padri del deserto; tra gli esercizi spirituali di Sant’Ignazio e la rivolta dei poeti maledetti, Pascal ed Eraclito. “Salvare Dio” è il comandamento di questa nuova tradizione eretica, che non vuole una comunità divinizzata e gnostica, o fatalistica e rassegnata, ma vuole una umanità in armi, che non veda in Dio solo il suo Creatore, bensì il suo comandante. Una teologia eretica, che è il contenuto sedimentato della sua opera, che gli valse la scomunica e l’odio del clero ortodosso.

Quella di Kazantzakis è una visione religiosa eccentrica e originaria che immagina la vita dell’uomo come una continua lotta con la morte e che fa della sua filosofia un pellegrinaggio verso l’assoluto, per espiare tutto ciò che nasce dalla comodità, dalla speranza, dalla debolezza. Quasi una sorta di nuovo testamento del nietzschianesimo che matura negli anni passati in Germania, nei suoi studi parigini, nel suo soggiorno in Italia. Un’idea che è il nucleo centrale della sua Odissea (1938) e la vera anima del Rapporto. Tra le pagine di questa “sacra scrittura laica” moderna, Kazantzakis si mostra come un autore che non è voluto rimanere mero allievo dei maestri, e che fu condannato per aver amato San Francesco e Lenin, D’Annunzio e il suo Alexis Zorba, per aver ballato con la morte e la vita, e giocato tra il sacro e il profano. In questa ottica Rapporto al greco può essere letto come il resoconto di una elevazione mistica, di una educazione sentimentale alla lotta e al numinoso. Un sinassario dell’infinita grandezza di questo poeta che racconta il suo viaggio animico nel mondo. Leggendolo sembra di assistere ad un miracolo, alla resurrezione di una grande civiltà decaduta che rivive per l’ultima volta, prima di prendere congedo. Assistiamo ad una Aurora dello spirito, che risveglia l’uomo dal suo torpore, gli asciuga le lacrime e si prepara a combattere con lui, come un comandante, un fratello, un maestro. Aprendogli le porte di un mondo mitico e crudele, popolare e antico, che alimenta le braci dell’assoluto, con il proprio sangue e la propria anima; non vuole ammirarle da lontano, al sicuro dagli abissi, vuole farsi consumare da esse per poi rinascere perché “c’è qualcosa ancora più nobile della vittoria ed è la lotta per la vittoria”. Un vangelo di una tradizione eretica basata non sulla cura delle ceneri, ma sul culto delle fiamme, che va oltre gli inganni del tempo per salvare un dio originario e guerriero che è con noi e lotta per noi ogni giorno:

“Tutta la mia anima è un grido, e tutto il mio lavoro il commento a quel grido”.

Zorba, Ulisse, Cristo, Buddha, Kazantzakis trasforma questi nomi fatali e capitali in grandi miti moderni, in protagonisti di una nuova epica vitalista ed eroica in cui l’uomo si trova irrevocabilmente di fronte al proprio destino, perché ogni giorno è alle Termopili dello spirito, ogni giorno è pronto per essere giudicato di fronte al giudizio universale, a salire sul suo calvario per salvare l’umanità, senza illusioni, senza speranza, finalmente libero.

Francesco Subiaco

In copertina: El Greco, El caballero de la mano en el pecho, 1580 ca.

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