06 Marzo 2024

“Pur con la gola tagliata, ancora spera”. Tra cornacchie, Dostoevskij, Truman Capote e agnelli con volto umano

La perentorietà della pietra e del marmo costringe l’uomo al fango – è impossibile che germogli la grandezza, perché tutto è troppo grande nella Città. Le statue istituiscono abissi, tutto l’umano gravita allora nella palude, nel rasoterra della chiacchiera, fanghiglia del linguaggio; privo di gravità tutto è leggiadro, a tratti geniale – in sostanza: passa.

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A Roma le cornacchie hanno deposto la connaturata intelligenza: preferiscono la posa del lupo. Ululano sui cofani delle macchine, non lasciano spazio ai passanti, che scrutano in cagnesco. Attendono un cadavere – sopra il piumaggio, un germoglio di denti. Chi sa imporre una briglia alle cornacchie governerà il regno dei cieli.

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Una grande casa editrice ha pubblicato un romanzo che s’intitola Rosy. Mi colpisce la copertina. Si parla di Rosa Bazzi, leggo nella bandella: l’autrice del libro ha incontrato la donna, dichiarata assassina, più volte, in carcere. Qualche giorno fa ho rivisto A sangue freddo, il film che racconta come Truman Capote abbia ideato l’omonimo romanzo. Il film non è particolarmente bello, ma si capisce che ad agire “a sangue freddo”, levato il limo emotivo, l’isterico pianto, brina sull’opera, marmorea, è lo scrittore. Lo scrittore, il grande omicida, si nutre del sangue dei ‘soggetti’ che ha assassinato. Necessaria, ai fini della scrittura, è la lenta tortura: nessun tratto del dolore umano può essere dimenticato, nessun segno di strazio. Lo scrittore registra il tormento – si scrive anche con gli accendini, gli aghi, le alterne lame – per dare vita al libro. Allo scrittore non interessa la ‘giustizia’, parola troppo alta e ambigua, di cui si occupano i professionisti della verità e i talk show – semmai, il giusto.

Osservare la dinamica contraria. Da un lato, uno scrittore che si occupa di un efferato caso di cronaca accaduto in provincia, un mero ritaglio nei settimanali di città, a cui offre i riflettori della letteratura; in questo caso, un romanzo su un caso di cui si sono occupati tutti. Effetto-traino: la letteratura portantina della notizia televisiva, la letteratura serva, a servizio, inservibile.

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Anche Dostoevskij, è noto, affinava l’ispirazione leggendo le pagine di cronaca nera. Uno dei primi dialoghi in cui si impelaga il principe Myškin, protagonista de L’idiota – cito dalla traduzione di Serena Prina, appena edita da Neri Pozza – riguarda la pena di morte. “Un omicidio per condanna è sproporzionatamente più terribile di un omicidio da brigante”, scrive ‘Dost’:

“Colui che viene ucciso dai briganti e sgozzato di notte, in un bosco o in qualsiasi altro luogo, di sicuro ancora spera di salvarsi, fino all’ultimo istante. Ci sono stati dei casi in cui, pur con la gola tagliata, ancora sperava, o scappava, o supplicava. Mentre qui quest’ultima speranza, con la quale morire è dieci volte più lieve, viene tolta per sempre; qui c’è una condanna, e nel fatto che per certo non la scamperai è racchiuso tutto il terribile tormento, e al mondo non c’è nulla di più forte di questo tormento”.

Dostoevskij era ossessionato dalla ghigliottina, mostruosità dal seducente sibilo – un battito di ciglia, femminile e senza indulgenza. Dostoevskij – per voce del principe – afferma un principio assoluto: la pena di morte, la condanna a morte, è “una profanazione dell’anima”. Priva di speranza, dell’assurdo della speranza – che, ad esempio, un angelo possa salvarmi mentre gli assassini mi levano il cuore; che, ad esempio, un terremoto possa distruggere la prigione in cui sono recluso a vita; che un giusto possa perdonarmi – l’anima è mutila, non ha sbocco. L’anima si tace: chiusa con ago & filo la boccuccia.

La pena di morte leva dominio al miracolo. Se non c’è il miracolo – ultimo orizzonte del possibile impossibile – l’anima si atrofizza, spira, non ha spiragli.

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Secondo Dostoevskij, immagino, le anime hanno fogge diverse. Ci sono anime glorificate da una lunga criniera; anime con i tentacoli; anime senza bocca e anime con il volto tempestato di denti. Anime con dieci facce. Anime con gli artigli. Anime a quattro zampe – anime nella posa del leone o in quella del pavone. Anime iraconde. Anime anaconde.

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Tutti i giorni supero il fiume: si apre nell’Adriatico e i greti ne dimostrano la tonsura certosina, ha l’andatura lieve, da fraticello. Quando la luce lo fa avvampare, però, corre, si imbizzarrisce: sembra sapersi alzare. È un angelo sdraiato, presto riprenderà il suo governo. L’acqua, resa solida dal fabbro mezzogiorno, va issata, come un vaso.

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Scoprire che la sola cosa pura è la debolezza. Non avere più ante: chiunque ti tocca, elettrizza il corpo, un cavo aperto. L’armadio è scoperchiato, non ci sono porte né abiti né ripiani – di solito: è la soglia di un labirinto.

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In visione, Chiara da Montefalco vede il mondo ridotto a un ago: cosa che si può facilmente perdere, che sa facilmente pungere. Resi mondi per mungitura di sangue. In un’altra visione, Chiara vede Cristo in forma di agnello, con il volto da bimbo. Immagine moribonda: la pecora con viso da uomo – speculare al Minotauro.

Un’immagine simile spicca nelle prime pagine del romanzo più bello di Ferdinando Camon, Un altare per la madre. Il feretro della madre del narratore oscilla lungo i campi, trasportato a spalla dagli adulti, fa ingresso nel cimitero del paese. L’autore è distante, alieno a tutti – solo conforto: l’incontro con una pecora, dal viso strenuamente umano. In quella umanità protesa alla transumanza e al massacro, il conforto rio.

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Torbiere di ragazzi seduti sul ciglio dei binari: aspettano il treno, i tratturi di ferro brillano come una sentenza, come una parola con due sillabe. L’età gli permette di essere, di per sé, un falò: le loro braccia sono fiamme. Ma è strano: ciascuno – loro, i loro genitori, i nonni – crede di possedere una invalicabile individualità, eppure tutti si cibano allo stesso pascolo, trottano nelle stesse tratte. Da qui, ovunque, l’improvvisa crudeltà: è la crudeltà dei poveri, che si mordono per quello stesso scampolo d’osso.

L’alternativa? Concedersi alla grazia di dire grazie. Da disgraziati.

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Nei campi intorno al fiume, un cavallo pezzato. A volte si blocca. Fissa le macchine che passano. Mi pare di ceramica. Mi pare che si segga come un padre in contemplazione. Forse fa le uova. Cova. Dalla sua specie nasceranno draghi.

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Tutto ha ricominciato a fiorire – tutto sembra un ruggito.

Gruppo MAGOG