Il Poeta contro lo Stato. Ovvero: l’arte è sempre eversiva e custodisce la nostra individualità
Politica culturale
Alessio Magaddino
“Passo gran parte del giorno sdraiato. Ora, però, sto imparando a camminare sulle mie gambe!”, questo è il messaggio che zio Valery, ottantenne, mi ha scritto da Odessa. Quando è scoppiata la guerra, Valery è scomparso. Mentre centinaia di persone prendevano, al volo, i treni da Odessa, ho chiamato qualche amico perché cercasse mio zio. Nessuno è riuscito a trovarlo. Nel frattempo, ho iniziato a raccogliere stralci dalle mail che mi venivano spedite dagli amici in Ucraina. Così è nata questa serie di interviste con gli scrittori ucraini.
Di Valery ancora nessuna notizia.
“Signore, prenditi l’immortalità ma dammi
una cantina per tenere le mele al fresco. Prenditi
l’anima e gli altri giocattoli ma lasciaci la vita: non quella
di Adamo né quella di Eva o di tuo figlio ma quella
del mio”.
Così scrive Dmitry Bliznyk, un poeta da Kharkiv. Un giorno, nella primavera di quest’anno, Dmitry mi ha scritto dalla città sotto bombardamento, non per raccontarmi cosa accadesse (molto stava accadendo: la sua vicina era stata uccisa e seppellita nel loro cortile comune) ma perché voleva parlare di poesia. “Giorno: bombardano la città. Notte: correggo le mie poesie”. Ancora: “Giorno: di nuovo bombardamenti. C’è un tempo per tutto: bombardamenti, paura, calma, amare qualcuno, momenti di meraviglia. Frammenti di realtà”.
Nella stessa settimana ho ricevuto una mail da Aleksandr Kabanov, uno dei migliori poeti russofoni viventi, e cittadino ucraino. Sua madre e suo fratello erano nella Kherson occupata. Aleksandr nella capitale, a Kiev, dove si trovava dall’inizio dell’invasione. Kabanov stava scrivendo poesie. Per tanti anni ha lavorato a Sho, un importante giornale culturale bilingue. Quando è scoppiata la guerra, il giornale ha cessato le pubblicazioni. La propaganda di Putin dice che la Russia ha inviato truppe per “proteggere la lingua e la cultura russe in Ucraina”, ma Kabanov vede le cose per come sono:
“Tutto quello che vediamo nei film classici sulle guerre moderne è accaduto ad altri, da qualche parte lontano da qui, lontanissimo: in Africa o in Siria, in Iraq o in Libia… all’improvviso, è accaduto qui in Ucraina”.
Un altro scrittore di Kiev, Dmytro Drozdovsky, mi ha scritto a proposito dei blocchi stradali e dei checkpoint militari nel suo quartiere, e mi ha mandato la foto di un proiettile sparato da un colpo di artiglieria. Una settimana più tardi ho visto in rete una foto di Dmytro in uniforme militare e so cosa significa.
Nel frattempo, da un’altra parte di Odessa, una mia amica, la drammaturga Elena Andreichykova, mi ha scritto a proposito delle sirene anti-aereo e dei pacchi da imballare freneticamente per andare via insieme alla famiglia. Ha visto palazzi esplodere e file di carri armati chilometriche al confine, così ha lasciato la famiglia al sicuro, all’estero, ed è tornata a Odessa: “Ho pensato che mio figlio crescerà e racconterà a suo figlio come è sopravvissuto alla guerra. Come è scappato con sua mamma. Ma non tutti i suoi amici sono riusciti ad andarsene”.
A Odessa c’è anche Zarina Zabrisky, una delle persone più coraggiose che conosca. La sua mail periodica era: “Come sta tuo zio?”. La prima cosa che ho imparato di Zarina è che ha guidato notti e notti per portare aiuti umanitari in Ucraina. In questi giorni racconta di Mykolaiv distrutta dalla guerra e mi scrive con tenerezza di Langeron, una famosa spiaggia di Odessa, luogo di tanti nostri ricordi di infanzia. È estate, a Odessa, dice, ci si può anche dimenticare della guerra, e poi suonano le sirene.
Ihor Pavlyuk e Ostap Slyvynsky, poeti di Luvov, nelle mail parlano di come la natura stessa del tempo sia cambiata, nelle zone di guerra.
“Il tempo adesso è un metallo spaziale liquido, macchiato di sangue: pesante e rapido nello stesso momento, come un ippopotamo affamato o un carro armato”
scrive Pavlyuk. “Il tempo si è fermato. Sono in tanti a sentirla così. Ogni giorno è simile agli altri, ne è diverso soltanto per qualche notizia speciale dal fronte o per il numero di volte in cui le sirene anti-aereo hanno suonato. A Luvov, per esempio, un giorno senza sirene è come un giorno libero. A Kiev si può dire lo stesso di un giorno senza missili. Non ci sono giorni liberi a Mariupol o a Kharkiv”, scrive Slyvynski, uno dei più talentuosi poeti di lingua ucraina.
Nel frattempo, a Odessa, mentre mio zio ottantenne stava imparando a camminare di nuovo, un missile russo ha colpito un edificio nel suo isolato. Tanti sono rimasti uccisi, compreso un bambino.
“Non posso parlare della guerra con la mia amica scappata miracolosamente da Bucha rimanendo nascosta in un seminterrato senza cibo né acqua. È in Austria, adesso. Suo figlio ha iniziato a balbettare, ma non posso parlargliene”, scrive Elena Andreichykova da Odessa. “Tornata a casa, non posso più parlare con i miei vicini. Non parlano di niente con nessuno, ormai. Non voglio spaventarti. Ma, per favore, parlami”.
Questo è ciò che, in Occidente, dobbiamo fare: dobbiamo mantenere vive queste conversazioni, raccogliere e documentare i racconti di ogni testimone e sopravvissuto, condividere la testimonianza dei crimini di guerra con il mondo. Il silenzio è inaccettabile.
Ilya Kaminsky
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Dmitry Bliznyk, Kharkiv
Ci sono stati giorni e ore in cui la città è stata bombardata e mi sono detto “Va bene, sto per morire”. Viviamo in un appartamento senza cantina: mia madre, mio zio di 82 anni e io.
Come dire, come spiegare le parole che stringo in pugno sopra questa pagina? Sto riguardando un video (non so chi l’abbia registrato, l’ho trovato in rete) di una bomba esplosa nella mia strada, a neanche 300 metri da casa mia. Sasha, la mia vicina, è stata uccisa.
Saltivka, quartiere di Kharkiv, è una scena da film sull’apocalisse: i soldati russi bombardano dappertutto in questa parte della città. Bombardano anche il centro cittadino: ospedali, scuole, centri commerciali. Se c’è una logica, in questo bombardamento, è la logica di un pazzo che vuole bombardare tutto ciò che vede. Ma la città rifiuta di arrendersi.
Notte: grandi stelle. Sagome di case. E ore di paura e di attesa. Tutti i lampioni sono spenti. Le persone si nascondono negli scantinati e nelle stazioni della metropolitana. Giorno: questa grande città è deserta, come uno stadio vuoto, non c’è nessuno. Nei primi giorni di guerra la gente andava a caccia di cibo, faceva ressa nelle farmacie. Ora la guerra ci unisce: i vicini si aiutano a vicenda, è come se guardassimo questi giorni allo specchio e ci vedessimo per quello che siamo. Il mio amico Oleg si è offerto volontario per trasportare persone. Guida sotto le bombe ogni giorno. Un altro amico, un giovane di nome Nikita, e sua madre, si ritrovano nel seminterrato di un centro commerciale dove cucinano per 1.500 persone nascoste in una vicina stazione della metropolitana. Camminano sottoterra per miglia portando alla gente grandi pentole di cibo. Il mio vicino Kostya porta le persone fuori città, con la sua macchina vecchia e traballante, poi torna indietro e porta ancora più persone. Probabilmente, qui stiamo impazzendo. È la poesia a salvarmi, ogni giorno; la mia cannuccia attraverso la quale respiro aria fresca. Bisogna respirare attraverso il terrore.
Giorno: bombardano la città. Notte: correggo le mie poesie. Giorno: di nuovo bombardamenti. C’è un tempo per tutto: bombardamenti, paura, calma, amare qualcuno, momenti di meraviglia. Frammenti di realtà
Chi ha visto la guerra lo capisce.
*
Elena Andreichykova, Odessa
Parla con me. Con chi altri posso parlare? Nessuno, per questo te lo chiedo. Non posso parlare così a mio figlio. Con lui devo soffocare l’orrore e la paura nella mia voce, la disperazione sul mio viso e i miei gesti selvaggi e urlanti. Non devo lasciare che il pessimismo penetri nelle mie consonanti, la disperazione nelle mie vocali e l’isteria nei miei punti esclamativi. Non riesco a dimenarmi davanti a un bambino di 10 anni, anche se a volte mi piacerebbe.
Purtroppo, mio figlio sa già molto sulla guerra. Sa di non essere stato svegliato un normale giovedì dal suono familiare e irritante della sveglia, ma dalle sirene dei raid aerei.
“Mamma, nella chat di gruppo i miei amici dicono che la guerra è iniziata”. La prima volta che dice quella parola, gli esce facilmente dalla bocca. Senza una pausa. Senza riflessione. Ma non dura a lungo. Solo poche ore separano il ragazzo dall’infanzia felice dal ragazzo della guerra.
Per un po’, questa guerra non ha significato nulla per lui: ne sapeva solo da cose che aveva sentito, letto o che gli erano state dette. Ho approfittato della sua ignoranza. Quando abbiamo lasciato Kiev, ho fatto un gioco con lui: facciamo finta di essere agenti speciali. Dobbiamo raccogliere le nostre cose in fretta e lasciare Kiev. Evitiamo l’autostrada principale, prendiamo le strade secondarie attraverso i campi fino a Odessa, perché ci sono centinaia di migliaia di persone che vogliono andarsene e abbiamo solo mezzo serbatoio di benzina.
Ci è cascato. Fino a una certa età, tutti i bambini credono alle loro madri. Forse lo fanno sempre. O, almeno, sono disposti ad ascoltarle.
Siamo saliti in macchina e siamo partiti.
Prima siamo andati a Odessa, la città della mia infanzia, che era ancora tranquilla. Ma in una settimana siamo dovuti scappare anche da lì. Abbiamo proseguito, sempre più lontano. Abbiamo guidato per cinque giorni attraverso vari paesi e città, paesi e speranze. Adesso siamo in Turchia. È calmo e pacifico a Istanbul, ma ancora sobbalziamo a ogni antifurto di auto, fuochi d’artificio o tuono dei temporali primaverili.
Nessuno sa quando potremo tornare a casa.
Ho pensato che mio figlio crescerà e racconterà a suo figlio come è sopravvissuto alla guerra. Come è scappato con sua mamma. Ma non tutti i suoi amici sono riusciti ad andarsene.
Parlami della guerra, perché non c’è nessun altro con cui posso parlare.
Mia madre è qui accanto a me, ma non posso parlarle della guerra. Tutto quello che possiamo fare è scherzare e cucinare insieme. Ci distraiamo e ci calmiamo tagliando lentamente il preparato a cubetti per l’insalata Olivier. La incoraggio a leggere romanzi e poi a discuterne insieme. Libri su tutto tranne che sulla guerra. È troppo per lei; ha la pressione alta e problemi cardiaci, ed è preoccupata per tutti i suoi figli e nipoti.
Quando telefono a mio marito, non parliamo della guerra. Parliamo di quanto ci manchiamo, di quanto sta diventando grande nostro figlio e di cosa faremo quando l’Ucraina avrà vinto. Parliamo anche del nostro sogno: un giorno compreremo una barca a vela e faremo il giro del mondo. Ci scambiamo foto di barche e yacht. Non posso parlargli della guerra, perché lui è lì e io sono qui. Tutto, tranne la guerra.
Non posso parlare della guerra con la mia amica scappata miracolosamente da Bucha rimanendo nascosta in un seminterrato senza cibo né acqua. È in Austria, adesso. Suo figlio ha iniziato a balbettare, ma non posso parlargliene. Parliamo di come, un giorno, balleremo tutta la notte. Ci mandiamo musica edificante, come la versione di “Oy u luzi chervona kalyna” di Andriy Khlyvnyuk e i Pink Floyd.
Tornata a casa, non posso più parlare con i miei vicini. Non parlano di niente con nessuno, ormai. Non voglio spaventarti. Ma, per favore, parlami.
*
Aleksandr Kabanov, Kiev
In principio era la parola e la parola era Guerra.
Sono il rappresentante di una professione emarginata: editore, poeta. Fricchettone. La mia agenda quotidiana corrisponde al mio stile di vita: vado a dormire in genere dopo mezzanotte e mi sveglio verso mezzogiorno. Di conseguenza, ho dormito durante l’inizio dell’aggressione russa e la prima parola che ho sentito è stata la parola: Guerra. La parola venne da mia moglie che, sveglia molto prima di me, era già consapevole di tutti gli eventi, aveva già lottato con i primi orrori e con la mostruosa implausibilità di tutto questo. “La Russia ha attaccato l’Ucraina!”. Dopo aver sentito questa frase, il nostro gatto nero terribilmente affamato e dalle orecchie cadenti, Viska, di razza scozzese, si è piazzato accanto ai piedi di mia moglie e ha iniziato a strofinarli vigorosamente. “La guerra è guerra, ma un gatto deve sempre rispettare il programma dei pasti”.
Il latrato quasi ininterrotto e psicologicamente prosciugante della sirena antiaerea, che avverte i cittadini ancora rimasti a Kiev dell’imminente morte dal cielo: missili russi Calibre o Totchka-U.
Paura, disgusto e odio: questi sono i frammenti di sensazioni che hanno catturato la maggior parte dei cittadini di Kiev, me compreso.
Tutto quello che vediamo nei film classici sulle guerre moderne è accaduto ad altri, da qualche parte lontano da qui, lontanissimo: in Africa o in Siria, in Iraq o in Libia… all’improvviso, è accaduto qui in Ucraina
Prima che tutto questo iniziasse, quasi un anno e mezzo fa, mi ammalai all’improvviso gravemente. La natura della mia malattia ha lasciato la mia vecchia vita, con tutti i suoi vecchi rituali e vizi, alle spalle. E questo significa essenzialmente che tutto è cambiato: cosa mangio, come bevo, il modo in cui trascorro il mio tempo. Ma una cosa è rimasta: così come ero un nottambulo, così sono rimasto, con mio grande piacere.
E così, mentre si è gravemente malati, si comincia a guardare alla vita attorno attraverso una diversa lente di emozioni e sensazioni. L’olfatto, il tatto e il senso del tempo sono stati tutti trasformati. Per me, il tempo si è trasfigurato in un bozzolo estremamente trasparente, a prova di proiettile, in cui ora vivo.
Durante i primi tre giorni di guerra, il tempo si era mosso insopportabilmente lento, monotono. La paura e la disperazione avvolgevano me e chi mi era vicino, come l’ambra che avvolge gli insetti. E questa ambra non si raffredderà, giorno dopo giorno, non si allungherà come una gomma da masticare senza sapore né odore. La nostra forza mentale, sopravvissuta allo shock impetuoso, sembrava lentamente ristabilirsi. Le persone hanno iniziato ad abituarsi alle nuove e inquietanti realtà: che non ci sarà, nel prossimo futuro, alcuna zona di sicurezza; che questa è e sarà una guerra, e per molto, molto tempo; che il mondo civile e confortevole a cui ci siamo abituati ha cessato di esistere; che anche il tempo dell’esistenza si è completamente trasformato, diventando più pratico, più cinico ed economico, controllato nei movimenti e nei mezzi. Il tempo è diventato bellicoso. Il tempo si è mimetizzato.
Ma al suo interno sono rimaste le lievi pause della cesura nell’esametro greco: pause per la felicità, per l’amore, per baciare mia moglie, Lesya Anatolyevna Kabanova, e per accarezzare la mia gatta nera dalle orecchie cadenti di razza scozzese, Viska Aleksandrovna Kabanova.
Mia madre e mio fratello sono attualmente sotto l’occupazione di Putin (che siate tutti maledetti), nella città di Kherson, detenuta dall’esercito russo, la città della mia nascita e della mia infanzia. Ma questa è tutta un’altra storia.
Le mie ultime poesie, scritte a febbraio, una settimana prima di questo orrore, parlano della catastrofe imminente. Proprio queste poesie, queste premonizioni, sono state pubblicate in opposizione al regime di Putin (lacrima, Putin, all’inferno), sulla Novaja Gazeta russa che è stata chiusa appena dopo la pubblicazione delle mie poesie.
Il fatto è: già molto tempo fa avevo scritto della guerra russo-ucraina. Sono stati stampati diversi libri in cui avevo parlato in modo preciso e inequivocabile della guerra tra Russia e Ucraina. Questi libri sono stati ampiamente discussi in molte riviste e pubblicazioni. E così? Quelli con le orecchie ancora non hanno sentito. E l’invasione è iniziata.
Ora è giunto il momento, per i poeti che in precedenza avevano scritto esclusivamente di fiori, uccellini e amore, di parlare, invece, dei corpi smembrate dei bambini ucraini a Mariupol, e dei cittadini innocenti fucilati a Bucha e Hostromel.
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Dmytro Drozdovsky, Kiev
C’erano dei blocchi stradali. Enormi posti di blocco. Podil, il quartiere dove vivo, è anche il luogo in cui ho trovato il mio primo trofeo di guerra: alcuni proiettili sparati da un colpo di artiglieria. Di notte ho sentito un’orribile sparatoria a Kiev e la mattina mi sono imbattuto in questi proiettili. Il vetro della finestra è ancora in frantumi, sopra l’Embankment.
Come è cambiata la mia vita? Una costante disponibilità ad aiutare. È nata una sincera volontà di sostenere chi, nella vita precedente, era dall’altra parte, e tutti i malintesi sono ormai un ricordo del passato. E, allo stesso tempo, c’è una certa sensazione che non stia facendo nulla di importante e che quanto fatto semplicemente non sia abbastanza.
Per me, dopo il 24 febbraio, il tempo ha smesso di esistere: è tutta una sola, lunga giornata. Solo i telegiornali a volte mi ricordano che è il 33° giorno di guerra… il 35°… altrimenti sarebbe tutto un unico giorno. Al mattino qualche messaggio per i propri cari, per dire loro che tutto va bene. All’inizio di marzo tutti erano in attesa, inorriditi da ciò che sarebbe potuto accadere dopo il suono delle sirene antiaeree. Non volevo addormentarmi la notte perché non sapevo se mi sarei risvegliato. Basta pregare e lasciare il resto a Dio.
C’è un solo, lungo giorno di guerra. Una giornata iniziata alle 4-5 del mattino del 24 febbraio e che continua ancora adesso. Alla guerra non interessano le ferie, i giorni di malattia, i fine settimana… la guerra continua senza sosta, 24 ore su 24, 7 giorni su 7. Ma, in generale, non c’è più tempo perché non potrà più essere lo stesso di prima del 24 febbraio. Come sarà? Non lo so.
Quanto alla poesia, non pensavo potesse apparire un intero genere di “poesia di guerra”. In quale altro modo puoi essere onesto sulla guerra? Queste poesie sono un grido, un urlo. Ho letto poesie e ho visto l’Ucraina: Mariupol, la regione di Kyiv (Bucha, Borodianka, Hostomel, il distretto di Poliske). E il mio atteggiamento verso la lingua è cambiato, in assoluto. In un libro che mi piace, un personaggio dice che non sa leggere narrativa perché di là da quello c’è una realtà distorta dalle metafore. E il personaggio vuole che la parola sia uguale alla realtà. Non hai bisogno di eccessivi dispositivi artistici, metafore, sottotesti o ambiguità. Parla sinceramente, onestamente; una parola è quasi uguale a un’azione.
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Ihor Pavlyuk, Lvov
Per le strade delle città e dei villaggi ucraini bombardati, i corpi dei bambini giacciono con i numeri di telefono sulla schiena scritti dalle madri in modo che possano essere identificati in caso di morte… questo è al di là della letteratura. Questo orrore è al di là di Stephen King. Perciò mi guardo sempre più dentro in questi tempi escatologici, parlo a me stesso, a Dio (cioè prego), ai miei antenati e discendenti (i miei figli e nipoti), perché in questi giorni mi muovo molto meno. Non mi sembra di essere cambiato molto, ma prego di più e dormo di meno. A Lvov c’è un silenzio teso, lacerato dalle voci apocalittiche delle sirene che ci richiamano ai rifugi antiaerei.
Il mio motto di vita “Sono pronto a vivere per sempre, sono pronto a morire in qualsiasi momento”, ora è concreto, perché la morte di una persona e dei suoi cari (questa è decisamente più terribile) può essere portata da un missile in qualsiasi momento, e questo per qualche ragione mi fa apprezzare ogni momento dell’esistenza terrena e pensare all’eterno.
Tuttavia, questa tensione permanente prosciuga sia l’energia fisiologica che quella creativa (poetica), quindi non posso scrivere un romanzo o un dramma adesso, sto persino lottando con questa intervista … eppure, sono particolarmente produttivo in questi giorni d’ansia con il mio diario spirituale, di cui ho intenzione di pubblicare due volumi entro la fine dell’anno — se sopravvivrò, se sopravvivremo…
Il tempo adesso è un metallo spaziale liquido, macchiato di sangue: pesante e rapido nello stesso momento, come un ippopotamo affamato o un carro armato. I giorni scorrono, le settimane passano e i mesi volano. Vieni ricondotto all’essenza.
Come persona, prego sempre di più come mi ha insegnato mia nonna. Come cittadino, faccio volontariato.
Come poeta… Non vorrei essere un poeta, adesso, perché è particolarmente doloroso. Preferirei diventare un soldato.
Ma non puoi cambiare la tua natura, nel bene e nel male… Ci è stato consigliato di preparare un kit di emergenza con l’essenziale in caso di evacuazione urgente a causa un raid aereo. E ho sentito chiaramente che la mia proprietà più preziosa era la mia chiavetta USB con i libri scritti ma non ancora pubblicati.
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Zarina Zabrisky, Odessa
Da bambina venivo a Odessa tutte le estati, mio nonno era un fiero cittadino di Odessa. Stavamo con una famiglia rumorosa, abbronzata, che rideva sempre, cucinava, e mangiava cose saporite, dolci, sostanziose, in un edificio rosa pieno di edere, con un cancello in ghisa, e indolenti gatti rossicci che dormivano al sole in cortile. La facciata e il cortile mi sono rimasti impressi nella memoria. La protagonista del mio primo romanzo, una californiana originaria di Odessa, sognava a occhi aperti,
“L’aria di Odessa era come latte condensato, dolce, denso, vivo. In una notte di luglio potevi quasi mangiare cucchiaiate d’aria, che ti colpiva il palato nel suo punto della dolcezza. È da allora che cerco quel sapore perduto e non l’ho mai trovato”.
Vivevo in California quando scrivevo questo romanzo e temevo di ritornare a Odessa e scoprire che i miei ricordi erano tutti sbagliati. Lo scorso autunno finalmente ritornai: stavo in un edificio rosa, con edera e cancello di ghisa. Era una sensazione dolorosamente familiare. C’era perfino un gatto rossiccio – oltre a una ventina di altri gatti di tutte le sfumature, colori, e ricchezza di pelo che si arrampicavano sui tetti. Mi sentivo a casa.
La mia intera famiglia da tempo non c’è più e non riesco a sapere se era questo il posto. Non ricordo i nomi dei parenti o dei conoscenti, solo Sofia, Sofa, e ci sono troppe Sofa a Odessa. Rimasi tutto settembre con l’intenzione di tornare e stabilirmi a Odessa.
Il 24 febbraio la Russia ha cominciato una guerra totale in Ucraina. Sono tornata e mi sono stabilita lì – per raccontare della guerra, dei bombardamenti, delle uccisioni.
L’edificio rosa non è cambiato durante la guerra: come altre strade di Odessa è sospeso nel tempo come sott’acqua – gli stessi balconi diroccati, lo stesso odore di polvere al sole, gli stessi piumini dei pioppi che volano dappertutto, dorati dal sole. A maggio l’edera si arrampicava sui muri e il gatto rossiccio, Ryzhik, era ancora vivo e vegeto nonostante i suoi vent’anni e una salute incerta. A giugno le strade sono inondate di sole, e c’è molta quiete – si sente molto bene il canto degli uccelli e le sirene antiaeree. È perché non c’è gas e ci sono poche macchine in giro.
Uno dei miei posti preferiti al mondo è Lanzheron Beach. Alle cinque facevo castelli di sabbia lì, con il mio primo amore, Sasha; mia mamma e la misteriosa Sofa ridevano e scherzavano e mi facevano arrossire così tanto che ancora adesso sento il calore sulle guance e sulla fronte. Ho scritto di Lanzheron anche nel mio romanzo: “sabbia gialla bollente che mi brucia le dita dei piedi, ciliegie rosse che sgocciolano sangue sulla pagina bianca dei Tre moschettieri, ombre trasparenti di gabbiani nei cieli bianco-azzurri… non mi rendevo conto di quanto mi mancasse il mio paese, quanto straniera fossi – qui”.
Nel 2022 andai a Lanzheron dopo che un’esplosione fece tremare la mia strada e l’edificio rosa. I russi bombardarono un condominio nel Sacro Sabato Ortodosso, uccidendo sette persone compreso un neonato di tre mesi. “La città stessa ti aiuta a riprenderti,” diceva la mia parrucchiera, Sveta, mentre mi tagliava i capelli. Lei non si ferma durante le incursioni aeree. “Cammini lungo il mare, e ti senti meglio. Purtroppo non possiamo camminare sulla spiaggia. Mi manca la nonna ma non moltissimo”. Le spiagge sono minate. Ho preso un caffè al ristorante da Maman vicino al mare. Un cane volpino rincorreva i gabbiani e i piccioni sul lungomare, le onde si frangevano contro il molo. Lanzheron sa ancora di delfini, di sale di qualcosa di marino, di alghe, come la mia infanzia. La settimana scorsa un uomo è stato ucciso da una mina mentre faceva un picnic sulla spiaggia.
Non mi sembra opportuno scrivere fiction. Mi limito a informare.
Dapprima volevo iscrivermi alla Legione Straniera come combattente ma ho avuto abbastanza buon senso per capire che otterrei di più con la penna. Comunque la mia narrativa informa il mio giornalismo. L’una fluisce nell’altro.
La prima cosa che le truppe russe hanno occupato è stata la centrale nucleare di Chernobyl. Da adolescente ero stata fidanzata a un ragazzo di Kulykivka, un paese a 60 chilometri da Chernobyl, allora un posto piuttosto triste. Andavamo a trovare la sua mamma e a vendere papaveri a Leningrado. “Cuocevamo” e usavamo eroina fatta in casa, fatta con i fiori e gli steli dei papaveri tritati. Era il 1986 e il governo sovietico aveva tenuto segreta l’esplosione di Chernobyl. Ingenuamente commerciavamo in papaveri radioattivi. Chernobyl ci era entrato nel sistema circolatorio. Nel 2015, dopo che la Russia ha annesso la Crimea e iniziato le ostilità nel Donbass, ho scritto una novella sull’esplosione di Chernobyl e feci una ricerca sui dettagli tecnici dell’operazione della centrale nucleare e la geografia di Chernobyl. Mi è tornata utile nel 2022, quando intervistai un ingegnere della centrale sulla minaccia di contaminazione e su una famiglia che fuggiva dalla regione. Ora il mio programma è di tornare con una troupe televisiva per un servizio sulla minaccia nucleare.
Prima della guerra la musica di Odessa ha ispirato moltissimo la mia scrittura. Mio nonno amava le canzoni di Odessa, il jazz, e il folklore dei gangster. Io ho scritto dei racconti reinterpretando le sue canzoni, per esempio una canzone popolare ebraica-rivoluzionaria su un rabbino di Kakhovka la cui figlia sposò un commissario russo negli anni ’20 del Novecento. Ora Kakhovka è occupata dai russi e io ho scritto un reportage sui materiali di propaganda che i russi hanno pubblicato per il falso referendum di Kherson a Kakhovka.
Ho scritto un racconto ispirato da “Murka”, una famosa canzone di banditi, una delle preferite della mia famiglia, che è stata appena tradotta in ucraino.
Ci sono i gatti di Odessa in questo racconto, perché sono ovunque, guerra o no guerra. Odessa ama i suoi gatti. Ancora di più durante la guerra: credo che i gatti siano più grassi e il loro pelo più lucido. Dormono su cavalli di Frisia e spiagge minate. Faccio foto di gatti nei miei reportage dai centri di Difesa Territoriale e dagli uffici degli aiuti umanitari e foto di murali di gatti. Voglio scrivere racconti su un monastero che ora è diventato un rifugio per gatti e su una signora che da Torets ha evacuato 15 gatti in Polonia.
A Odessa i musicisti sono ovunque anche ora, suonano violini, fisarmoniche, e sassofoni. Così le cose sembrano ‘normali’. Io faccio dei video: Odessa jazz su Deribasovska Street o una bambina con un vestito ucraino ricamato a cavallo di un pony bianco. Preferisco di gran lunga scrivere racconti, ma ora è diverso.
Ho sentito molte persone dire che il 24 febbraio è cominciato e non è mai finito. Sembra così anche a me. È il centodecimo giorno di guerra. Impossibile fare programmi. Non so dove sarò stasera: se ci sarà un’esplosione ne riferirò. Non so dove sarò tra una settimana. Ovviamente, in teoria, sono libera di andarmene – ma solo in teoria. Non sono riuscita a continuare la mia vita in California e in Europa. A Odessa tutti dicono “prima della guerra” – c’è una netta separazione tra l’oggi e il prima.
E non è solo il tempo, anche lo spazio sembra diverso. Certi spazi non sono disponibili. Non ci puoi andare, fisicamente. Esistono solo nella tua mente. Primorsky Boulevard è chiusa durante la guerra. Mi manca l’andare su e giù per la Scalinata Potemkin.
La Scalinata Potemkin è illusione ottica e il suo simbolismo è particolarmente toccante ora. Ho sempre avuto uno speciale rapporto con questi scalini e ho scritto del loro senso di illusione, una allucinazione quasi continua, una assenza di realtà. Odessa in tempo di guerra dà questa sensazione: non può essere vero, è un lungo sogno cupo. Ma quando ha fatto più caldo, le donne hanno cominciato a indossare vestiti floreali e finti tacchi Louboutin, i bambini giocano alle fontane, le giovani coppie si baciano sotto i castagni e, d’un tratto, tutto è reale, più che reale. Capelli al vento, una donna cammina lungo Yevreiska Street e si ferma a un’insegna di negozio che dice, “Perché no?”. Poi suona una sirena oppure finisci a un posto di blocco, sacchi di sabbia come grassi bruchi alieni ammucchiati agli angoli. O cavalli di frisia come insetti giganteschi che impediscono l’ingresso a un forno. Dopo un po’, smetti di notarli. È Odessa, a strati come la torta Napoleone che vendono al Privoz Market.
E Privoz vibra e palpita nonostante tutto: anche ora puoi acquistare la T-shirt di gran moda “Russian Warship Go F*** Yourself” e calzoni mimetici fianco a fianco con formaggi affumicati e fette di torta al miele, “Posso assaggiarla?”, “Che vuol dire, ‘Posso?’ Devi!” Le vecchie vendono dolci e conoscono il punto esatto di impatto dell’ultimo missile e gli ultimi piani del Comando Generale delle forze armate ucraine.
Stavamo spesso a Karolino-Bugaz, a circa un’ora d’auto da Odessa. Mi piaceva il nome. Mi dava sempre l’impressione di essere nel romanzo fantasy di Alexander Grin The Scarlet Sails, perfino quando avevo un forte attacco di dissenteria – mi ricordo la faccia spaventata di mio papà. In maggio i russi bombardarono un hotel a Karolino-Bugaz e ferirono gravemente una bambina di sette anni – ebbe una gamba staccata di netto. Non potei andare a fare un reportage da Karolino- Bugaz per mancanza di carburante, non riuscii ad arrivarci. Le Poste Ucraine hanno emesso un francobollo commemorativo che reinterpreta il racconto The Scarlet Sails. La ragazza non è più una sognatrice che aspetta l’arrivo del suo principe, sta puntando un mitra contro la nave in movimento e le vele sono rosse di sangue. Conosco la rabbia di questa ragazza, la provo anch’io.
Non riesco a trovare un posto mio nel mondo esterno. L’unico spazio in cui posso vivere ora è qui.
Circa due settimane dopo l’inizio della guerra i russi bombardarono Babyn Yar, un memoriale dell’Olocausto vicino a Kyiv. I miei bisnonni paterni da Uman’ sono sepolti in quella fossa comune.
Una volta mio padre mi portò là e mi disse che loro non credevano che il “colto popolo tedesco” fosse capace di atrocità. Nel 2022 i miei amici ucraini non credevano che i russi fossero capaci di atrocità. Non riuscivo a concepirlo: prima i nazisti spararono ai miei antenati, nudi, dentro la fossa. Poi i russi, ottanta anni dopo, spararono in questa fossa. Andai a fare un reportage sul bombardamento del cimitero di Odessa. Si sentiva solo il fetore del bruciato. Guardai dentro le tombe bruciacchiate e scattai fotografie, toccai le lapidi rotte, e studiai le facce degli ufficiali dell’esercito sovietico sui ritratti smaltati sparpagliati qua e là. La storia della mia famiglia è così. Esplosa, distrutta, a pezzi.
Nel marzo 2022 riconobbi una strana, antica chiesa in un video reportage da Chernihiv sotto assedio: l’avevo disegnata io da bambina, pietra su pietra (mi piaceva disegnare). Chernihiv era come Mariupol: la gente non aveva acqua, riscaldamento, cibo, potere.
Intervistai una giovane di Mariupol: durante il bombardamento si era nascosta con la sua bambina di tre anni, e non avevano niente da mangiare. Questi assedi mi ricordano l’assedio di Leningrado durante la Seconda Guerra Mondiale, che costò la vita a un’altra parte della mia famiglia.
Sono cresciuta con queste storie. Non posso riconciliare il presente con il passato, la mia mente non ci riesce. Riesco solo a sentire rabbia e il desiderio di distruggere chi ha osato distruggere passato e presente. Credo che falliranno in futuro. L’Ucraina vincerà e il futuro è qui e ora.
(continua)
Compilato e curato da Ilya Kaminsky e Katie Farris.
Tradotto da Katie Farris, Oleksandar Fedienko, Helen Ferguson, Ilya Kaminsky, Marina Palenyy, Julia Sushytska e Alisa Slaughter. Tradotto dall’inglese in italiano da Giorgia Sensi e Mattia Tarantino
Originariamente apparso su “Los Angeles Review of Books”, il 28 giugno 2022