Ha il corpo di Chirone. Il centauro maestro di Achille, che fonde saggezza e ira, bestia dall’intelligenza energumena. Nelle fotografie, si fa ritrarre tra le rocce e il cielo, mai così azzurro. A volte indossa ampi cappelli. Il corpo è taurino: con una selce potrebbe spezzare le redini del cosmo, raccogliere in una sacca le stelle – e mungerle. Da ragazzo, John Kinsella pareva un attore hollywoodiano: accanita la bellezza, in cagnesco. Prenderebbe il complimento per un’offesa. Vive a Ballardong, nel sudovest australiano, “in una terra sacra per i Noongar, dove viveva la mia famiglia di coloni, in una boscaglia ferita, che curiamo da anni”.
Nato a Perth nel 1963, Kinsella è il più eminente poeta australiano di oggi, tra i grandi poeti contemporanei in lingua inglese. Ha pubblicato una cinquantina di libri. Uno di questi, Jam Tree Gully (2011), è dedicato alla sua casa ai piedi della foresta. Mi mostra alcune fotografie. Alberi polipoidi che s’intrecciano formando arcani calligrammi, tarocchi vegetali. Poi: petroglifi, codici rupestri. I colori, radicali: verde, marrone, azzurro. Viene in mente il libro più bello di Bruce Chatwin, Le Vie dei Canti. Scrivere, forse, è una formula incantatoria, seminagione di sogni. Mi viene in mente il film più bello di Peter Weir, il regista de L’attimo fuggente: s’intitola Picnic ad Hanging Rock (1975), racconta di un gruppo di studentesse, siamo ai primi del Novecento, che si smarrisce tra aborigene rocche. La rude vita, priva di premure convenzioni, la vita prima, l’autentica, pretende le loro corolle gonnelle.
Alla parola “acqua”, Kinsella si accende. “È la nostra priorità. Viviamo grazie a serbatoi per il recupero dell’acqua piovana. Abbiamo due pozzi, ma preferiamo non usarli per evitare di corrompere le falde acquifere, già prosciugate dall’abuso costante che ne fanno gli agricoltori. Di fatto, le mie poesie seguono l’andamento delle piogge, sono il nudo regesto di siccità, costanti disboscamenti, avvenimenti d’acque”. Kinsella abita a Ballardong insieme a Tracy Ryan, compagna di una vita, poetessa anche lei; la sua poesia è stata spesso paragonata a quella di Sylvia Plath – lei preferisce citare le due Emily: la Dickinson e la Brontë. In una poesia di qualche anno fa, Kinsella ha messo insieme Emily Brontë e un acquazzone; un paragrafo recita così:
“Io sono appartato & estroverso,
mi assicuro che le cose siano
sicure. La natura è vita & un turbine
di vento forte e scintille ci fa fremerefino all’attrito – quel che può
essere distrutto deve essere sostenuto
con azioni di conservazione”.
“Oceanico” è l’aggettivo che ricorre nell’opera di John Kinsella. Lui dice che ha cominciato a scrivere “quando avevo circa cinque o sei anni – a dieci ho iniziato a tenere un diario”. La folgorazione comincia con un libro di filastrocche donatogli dalla bisnonna: “ho passato una giovinezza di complicati vagabondaggi – ho perso tutti i libri di allora”. La vita di Kinsella è stretta tra il mare e il deserto: a Geraldton – quattrocento chilometri da Perth, 32mila abitanti, sulle coste dell’Oceano Indiano, un Eden per i surfisti – nuotava tra le barriere coralline; nella città fantasma di Kookynie, “ai margini del deserto, è cresciuta mia nonna – spesso mi raccontava di suo padre, perduto nel deserto per giorni”. Ritornò con occhi tatuati ovunque, gonfio di visioni. Il suo ultimo libro, The Argonautica Inlandica (2023), è una riscrittura delle Argonautiche di Apollonio Rodio: il viaggio, però, è ambientato tra l’oceano e l’entroterra dell’Australia occidentale. Ne parlano come di un capolavoro. L’anno prossimo, per W. W. Norton & Company, tra i grandi editori statunitensi, è prevista la pubblicazione dei suoi “Selected Poems”; il libro, The Darkest Pastoral, è a cura di Marjorie Perloff, critica letteraria di equinoziale autorevolezza.
Ad ogni modo, il capolavoro di Kinsella è Divine Comedy: Journeys Through Regional Geography, specie di audace, australe riscrittura del poema dantesco. Kinsella pare uno sciamano avanguardista: alterna moti arcaici del dire al linguaggio di oggi – ragiona, si direbbe, in terzine. Uscito nel 2008, quella Divina Commedia australiana sbalordì i più; alcuni gli avvicinarono, per ampiezza e spavalderia, Omeros, il testo cardine del premio Nobel per la letteratura Derek Walcott. In Italia, una porzione di questa immane Divina Commedia è stata pubblicata, dieci anni fa, da Raffaelli Editore, grazie a Maria Cristina Biggio, traduttrice ed esegeta di Kinsella. A Dante, il poeta ha dedicato altri libri: uno si focalizza sui disegni danteschi di William Blake (On the Outskirts, 2017), l’altro, Musical Dante (pubblicato in Italia da Raffaelli, nel 2021), parte dalla Dante-Symphonie di Franz Listz.
La prima volta che ho dialogato con Kinsella – era il 2017 – ho sciorinato il mio repertorio culturale. Hai fatto come Pound e Eliot, eminenti interpreti di Dante. Il poeta, con ruvidezza d’altro equatore, ha bloccato i miei balocchi lirici. “Quei poeti hanno subito l’influsso della visione di Dante e della sua poetica, senza radicalizzare Dante”. Che vuol dire? “Vuol dire che Dante mi ha cambiato la vita”. Che vuol dire?
“Che mentre leggevo Dante, avrò avuto vent’anni, ho cominciato a ragionare sull’assidua avidità umana. Dante è stato la chiave per estendere il mio destino. Lasciai la città, mi trasferii in una baracca a coltivare verdure biologiche, vivendo senza acqua corrente né elettricità. Alcuni paesani, soldati di riserva dell’esercito, avvelenarono il serbatoio d’acqua. In quella estrema lotta, Dante era con me”.
Qualcosa di straordinariamente ingenuo e di messianico anima il dire di Kinsella. Il sapiente si fonde con il bambino, l’astuzia con la grazia. “Sono sempre stato affascinato dal paradosso, dall’ambiguità, dalla contraddizione e dalla tautologia”, ha scritto da qualche parte. Ovunque, si definisce vegan, anarchist, pacifist. Vive di scrittura, di saltuari corsi nelle università anglofone. Nella sua casa fuori dal mondo furoreggiano i canguri. Il suo animale totem è il “Barnardius zonarius”, un parrocchetto australiano, “con una sorta di anello al collo. Da ragazzo, sparavo a questi meravigliosi uccelli: da allora mi perseguitano. Quando ne vedo uno, gli chiedo perdono. Ho smesso con le armi, mi batto perché non ne producano più”. Nel 2018 ha pubblicato un romanzo, Lucida Intervalla, che s’intitola come la prima raccolta poetica di un internato in manicomio: uscì a Londra nel 1679, l’autore si chiamava James Carkesse, scrisse, nei rari intervalli di lucidità, quel libro, un caso lirico-clinico. Parla di Thoreau, di Milton e di Rimbaud come fossero vicini di casa; mi legge una poesia, Kangaroos Grazing in Fog dove canguri nella nebbia prevedono il “nucleare annientamento”.
Cosa significa dirsi anarchici oggi, per un poeta?
“Che non credo nelle strutture, nel potere statale come in quello aziendale: penso che ognuno debba poter governare se stesso come meglio crede. Credo che le minoranze abbiano la stessa importanza delle cosiddette maggioranze”.
In un video, Kinsella si erge davanti a una ruspa. Comincia a leggere. “I bulldozer lacerano la carne. I bulldozer rendono malvagie/ le brave persone…”. Gli operai lo minacciano. Hanno l’ordine di spianare un’area, abbattere alberi, ampliare il territorio di una miniera. Il poeta continua a leggere, con ostinata pazienza. Mi torna in mente l’icona di Chirone. All’epoca chiamai Kinsella “guerriero poeta”.
Secondo Harold Bloom, il geniale critico del Genio e del ripristino del Canone occidentale contro la moda dei cultural studies e della cancel culture, “Kinsella è una fontana orfica, un prodigio dell’immaginazione. Nonostante il profondo radicamento nella cultura letteraria australiana, mi fa pensare a John Ashbery: fecondità nell’improbabile, talento eclettico, una poetica che tiene insieme populismo ed elitismo” (così l’attacco del suo studio introduttivo a Peripheral Light, antologia di testi di Kinsella del 2003).
Da adolescente, Kinsella inventava linguaggi, “ero ispirato da Tolkien… poi venne Rimbaud”. La discussione si protrae a lungo. L’equatore sembra una sedia a dondolo. Forse la parola luce ha la stessa origine della parola falena. Riassumo il dialogo con Kinsella in alcune parole-chiave. È come comporre un erbario.
Acqua. “In fondo, la mia poesia è una cronaca della cronica diminuzione delle piogge nel mio continente. Il popolo Noongar, a cui abbiamo sottratto le terre, era ed è il custode di questi luoghi, è riuscito a coesistere con il ‘mondo naturale’ con reciproco vantaggio. Se non proteggiamo l’acqua, il mondo deperirà irrimediabilmente”.
Alla ricerca dell’uomo buono. “Credo che gli esseri umani siano per natura buoni, che l’umanità sia capace di fare il bene. Capitalismo, nazionalismo, colonialismo hanno costretto il mondo su un sentiero distruttivo, ma modificabile. In molti cercano risposte nella religione, ma anche la religione può essere manipolata e sfruttata da chi non ha altro interesse che controllare le vite degli altri. Respingo ogni forma di coercizione e di controllo; ammiro chi compie una genuina ricerca spirituale”.
Australia, o dello Stato. “Non credo negli stati-nazione. Credo e rispetto i diritti territoriali degli aborigeni, il primato della cultura. Non credo che il governo si prenderà cura dell’ambiente naturale: non lo ha mai fatto, mai lo farà. Governo e industria mineraria sono profondamente implicati uno nell’altro”.
Dante. “Dante è lo scrittore più importante della mia vita – ogni scritto di Dante è decisivo. Leggo Dante da quando sono adolescente; da quando ho vent’anni ho cominciato a reagire alla Divina Commedia, scrivendo. Da quando ne ho 23 ho iniziato a illustrarla. Dante contesta i torti inflitti alla vita; la Commedia fornisce un metodo per ‘scomporre’ il mondo e ricostruirlo, secondo le forme di una più profonda comprensione. In fondo, Dante ci apre la via per contestare il sistema”.
Elezioni americane. “Finché sarà il complesso militare-industriale a governarci, aumenteranno le ingiustizie di massa, lo sfruttamento dei popoli, la corruzione della biosfera. Finché gli uomini saranno trattati come dollari esisteranno abusi. Finché gli stati nazionali vorranno primeggiare sugli altri, ci saranno conflitti. Finché fabbricheremo armi, avremo massacri di massa. Finché il singolo vorrà sopraffare il prossimo, esisteranno rabbia e violenza”.
Elon Musk. “La grottesca ricchezza di personaggi come Elon Musk rende più acuminata la mia lotta. La poesia permette di dire cose definitive, consegna al lettore la supremazia nel trovare la propria strada in questa contestazione. Ogni ingiustizia deve essere sfidata. Ogni differenza rispettata. Le contraddizioni risolte. Le ipocrisie annientate. Compiti, questi, che un poeta deve sapersi assumere”.
Insegnare poesia. “Credo che la poesia sia una postura connaturata più che una facoltà da ricercare. Dunque, più che insegnare si tratta di incoraggiare il poeta a ‘emergere’, offrendogli numerosi esempi, dagli strumenti prosodici ai processi di lettura”.
Linguaggio. “Bisogna liberare il linguaggio dall’abuso che ne fanno i governi, per opprimere i popoli. Il linguaggio non è un possedimento”.
Morale/moralismo. “Ragiono in termini di etica più che di morale. Il poeta ha un compito etico, altrimenti il suo lavoro non è che mera decorazione, un’effimera grottesca”.
Oceani. “Scrivo di fiumi, di oceani e di dighe da tutta la vita. Il mio lavoro può dirsi dunque ‘oceanico’”.
Pantesimo. “Sono un panteista, sento che Dio è in tutte le cose. L’abuso del pianeta è un abuso contro Dio. Non credo nelle gerarchie del controllo. Non credo che gli esseri umani siano più importanti di altre forme di vita, ma che la vita, in sé, sia importante. Quando una società mineraria distrugge un ecosistema in modo che noi possiamo avere le batterie per alimentare i nostri gadget, stiamo distruggendo Dio”.
L’ultima domanda mi viene come un sussurro. I morti. Il tuo rapporto con i morti. Kinsella non si smuove. Ha l’energia di chi afferra i fiumi per la criniera. “I morti sono il sostegno dei vivi. Sono il pilastro dei vivi. Siamo responsabili nei confronti dei morti, come loro lo sono nei nostri confronti”. Silenzio. Il cosmo dilata le froge, il cielo mostra la sua natura equina. “Vuoi sapere di me? Non mi spaventa la mia morte, mi preoccupo della morte degli altri – della morte di chiunque altro”. Poi sorride. Denti augustei, parole come fionde.
Davide Brullo
*Si pubblica per gentile concessione la conversazione con John Kinsella, “About Rains, Rivers and Oceans”, edita sul primo numero della risorta rivista della “Biennale di Venezia”. Diretta da Luigi Mascheroni – la direzione editoriale è di Debora Rossi – la rivista, monografica, trimestrale, rinata dopo 53 anni, s’intitola “Diluvi prossimi venturi / The Coming Floods”. Tra gli interventi, si segnalano testi di José Tolentino e di Peter Weir, di Carolyn Carlson e Aziza Chaouni, una conversazione di Stenio Solinas con Orhan Pamuk, un dialogo con Giovanni Lindo Ferretti. In copertina, una fotografia di Yuri Ancarani. Per informazioni ulteriori: https://www.labiennale.org/it