20 Gennaio 2024

“Io non invecchio, niente più m’imprigiona”. Battiato, Pasternak e le opere che ci azzannano

Uscito nel 1998, Gommalacca è il ventesimo album di Franco Battiato. Nel sito ‘ufficiale’ di Franco Battiato – come se l’ufficialità potesse contenere un ufficio artistico smisurato – è descritto – con un paio di refusi, imperdonabili, che correggo – così: “Un album con una forte influenza elettronica, suoni più moderni ed estremi, uno spartiacque tra la storia musicale di Franco e il suo futuro con l’utilizzo di suoni digitali e delle nuove tecnologie”. Non so se sia corretto – Battiato comincia con album d’estremismo elettronico, ma non sono un battiatologo – e Gommalacca, di certo, non è il disco più bello di Battiato. Io, di mio, per quel che può importare, preferisco quel trio di dischi, Fisiognomica, Come un cammello in una grondaia, Caffè de la Paix, usciti nello stesso torsolo di anni, tra il 1988 e il 1993. Ma non è questo che qui importa.

Di Gommalacca preferisco due brani, È stato molto bello e Il mantello e la spiga: sono scritti da Manlio Sgalambro. Alcuni brandelli ricordano le atmosfere di Borges, i versi statuari – con qualche bava di sangue – di Kavafis. Ad esempio questo:

“I colli dei cigni
Splendono alla luce
E mille barbagli
Trafiggono le palpebre
Il fuoco che bruciò Roma è solo sprazzo
Così mi incendi
Con bugie di suoni mi possiedi”.

Oppure questo:

“Guardo le distese dei campi, perditi in essi e non chiedere altro
Lasci un’orma attraverso cui tu stesso ti segui nel tempo e ti riconosci
Correvi con la biga nei circhi
E fosti pure un’ape delicata
Il gentile mantello che coprì le spalle di qualcuno
Lascia tutto e seguiti”.

I refrain, spesso, hanno sotterfugi misticheggianti. “Io non invecchio/ Niente più m’imprigiona”: non è un inno all’immortalità, ovvio, ma il crisma di una sequela spirituale – chi volta le spalle al mondano non si corrompe, non invecchia, sprigiona se stesso oltre la prigionia del tempo.

Ma non è questo.

Bisogna ascoltare Shakleton, il brano narrativo che racconta l’impresa eroica del capitano Ernest Shackleton (nel refuso – la k al posto del ck – forse si cela la ferina forma di un’icona, cocaina verbale, lo stemma solare, il senso nascosto). Bisogna arrivare alla fine del brano, ricco di effervescenze psichedeliche, intorno al minuto 6.43. Battiato, allora, muta tono. La voce reca nel tabernacolo una profondità nuova: Battiato sembra vagare nei meandri di un’ode sufi, incarna in sé i ritmi di Gurdjeff. Siamo nei dintorni – per chi ha pratica nella discografia di Battiato – delle diottrie de L’ombra della luce. In realtà, Battiato canta una poesia di Fleur Jaeggy, “Sage mir warum,/ In einem verlorenen Garten/ Sage mir warum/ deine Stimme hören…”. Parevano cascami arabi, reflui di verità dissepolte, i dervisci in falange: è tedesco. La poesia – semplice, arcadica, simbolica – parla di quieti crepuscoli, di giardini congelati, delle rose stanche e di un uomo che implora “Ti prego, non tacere”. I cliché della letteratura persiana classica – sintetizzati all’occidentale, senza sintetizzatore – sono pur quelli.

Di Fleur Jaeggy, scrittrice, astrale moglie di Roberto Calasso, tutti dicono un gran bene, compreso Iosif Brodskij. A Cesare Cavalleri piacque I beati anni del castigo – “scopro tardi una scrittrice di alto lignaggio, perfetta e funebre” – salvo capire, poi, che dietro quell’algido ardore si nascondeva una gliptoteca di fossili, il quasi niente, la “maniera”, la “mera aridità” che svela “incapacità di costruire e raccontare una vera storia” (così intorno a Proleterka). Tutto sommato, ci è lecito non leggerla. Per Battiato, Fleur Jaeggy ha scritto diverse canzoni sotto la celata di diversi pseudonimi: il più noto è Carlotta Wieck. Carlotta – Lotte – è nome che sta sulle dita dei grandi scrittori tedeschi, Thomas Mann, Goethe; Wieck era il cognome da ragazza di Clara Schumann.

Il gioco delle citazioni, i rimandi senza reticenze, spesso irretisce: ciò non toglie che il barlume di Battiato sia straordinario. Quel minuto e mezzo in appendice a Shakleton è una delle cose più belle mai udite di Battiato.

E qui veniamo alla questione. Ci sono musiche, poesie, opere d’arte che, senza motivo, inducono all’azione. Orientano. Slabbrano i crinali del cuore e li ricuciono. Ci fanno capire qual è la nostra casa – meglio: il nostro clima. Il valore in sé dell’opera in atto è, in questo caso, secondario. Per dire: preferisco altri brani di Battiato – Nomadi, La prospettiva Nevski, I treni di Tozeur, ad esempio –, preferisco altre musiche, ma è proprio quel brandello, un caravanserraglio nel deserto, una scintilla d’appendice, fruscio di scimitarra, a mirare nel mio centro. Ci sono opere che inspiegabilmente conoscono il nostro zenit, ci hanno appreso, riportano la spina dorsale a spumeggiare verso il suo proprio Nord. Opere che ci riportano sulla via, che pretendono il cammino, il lavoro. Opere che inaugurano un addestramento.

Prendiamo la poesia. Nel mio caso – insignificante, lo so – sono rari i poeti che forzano le dighe dell’immaginazione, che costringono al dialogo. Uno di questi è René Char. Un altro, in forma suprema, è Boris Pasternak. In particolare, il Pasternak “secondo Ripellino” è un cantiere di ispirazioni continue. Alcuni versi mi sembrano illuminanti:

“…l’inverno è alle porte.
Onoriamo l’epilogo dell’estate.
Prendiamone congedo, andiamo sulla riva
e immergiamo le gambe nel chiaro d’uomo”.

(Da Le onde)

“Tale è il covo ombreggiato dei tordi.
Vivono in una selva disadorna,
come devono vivere gli artisti.
Anch’io prendo esempio da loro”.

(Da I tordi)

“I miei versi sarebbero un giardino.
Con tutto il brivido delle nervature
vi fiorirebbero i tigli a spalliera,
in fila indiana, l’uno dietro l’altro”.

(Da In ogni cosa ho voglia di arrivare)

“Anima-sepoltura,
tutto quello che hai visto,
tritando come macina,
hai mutato in mistura”.

(Da Anima)

Amo altri poeti e sono consapevole che le poesie di Pasternak non sono più grandi – se l’assoluto ha poi un metro di misura – di quelle di Rimbaud e di Hölderlin, di Emily Dickinson e di Wallace Stevens. A volte gli preferisco i versi di Thomas S. Eliot, di Ezra Pound e perfino di Osip Mandel’štam; mi è più prossima la poesia di Saint-John Perse e di Dylan Thomas. Eppure, è Pasternak a darmi la vita: sembra che egli conosca il singolare destino del più infimo fiato d’erba, i nomi di ogni luogo e i profili di ogni volto, perfino il mio. Di fronte a questa teurgia, la bellezza di un’opera è una pellicola di muschio; nelle pagine di Pasternak, scriveva Ripellino,

“c’è un’aria da giorno della creazione… con ansia egli annota i passaggi da stagione a stagione, dal giorno alla notte, dalla tempesta alla calma, la volubile vita della natura, che fa riscontro all’inquietudine dell’anima”.

La pace che consegnano i versi di Pasternak non appaga, non pacifica: obbliga all’avvento di una vita avventata.

In un saggio intitolato Pasternak: il poeta come eroe, il poeta Czeslaw Milosz, riassume il significato del Dottor Zivago – la più nota, non la più bella, delle opere di Pasternak – come l’estasi dell’individuo contro i moti di massa, i fermenti del cuore contro la ragion di Stato. Il credo umile ha l’erta dell’egotista, l’afflato lirico nasconde un principio di lotta:

“Chiunque polemizzi con il pensiero incarnato dallo Stato finirà col distruggersi, perché diventerà un uomo vuoto. È impossibile parlare con il nuovo Cesare, perché si renderebbe necessario abbassarsi al suo livello… La letteratura del realismo socialista può essere riposta sugli scaffali, dimenticata: la nuova dimensione è quella del misterioso destino di ogni uomo, della compassione e della fede”.

Il testo di Milosz è il primo di una serie di saggi raccolti come catalogo della mostra “La Russia di Pasternak”, in atto a Palazzo Bagatti-Valsecchi, Milano, nel 1999, curata da Vittorio Strada. Le fotografie pubblicate sono impressionanti. In un’immagine scattata a Mosca nel 1946, Pasternak ci fissa; al suo fianco c’è Anna Achmatova. L’arcana signora della poesia russa dimostra – pur arata dal fascino – tutti i suoi 57 anni; il poeta, più giovane di lei di un anno, pare un serioso trentenne, il figlio. Più fatale la fotografia scattata sul balcone dell’appartamento di Pasternak, in vicolo Lavrušinskij, Mosca: è il 1948, il poeta va per i sessant’anni e pare un ventenne. Ha l’avvenenza di un vampiro, il poeta, il volto squadrato, ‘africano’; Pasternak comincia a invecchiare quando capisce che non pubblicherà mai, in patria, il suo romanzo.

Forse è lì, nel mistero di questa vita sempre sorgiva, imperiale, lo stigma della sua poesia, il senso del distico di Sgalambro: finché creiamo, nel mondo ma non di questo mondo, la vecchiaia non ci accerchia, siamo sprigionati, come nastri di api, appuntamenti celesti.

Gruppo MAGOG