Scrivere un’introduzione all’opera composita di John Kinsella significa percorrere una ‘foresta spessa e viva’, da lui stesso ricreataattraverso la brillante rivisitazione della Commedia e la sua dynamis profetica, che assorbe chi l’attraversa nel processo della sua continua genesi. Nel suo personale cammino, Kinsella non dimentica che il telos del poema dantesco sia la salvazione del mondo attraverso la salvazione del poeta che prende su di sé questo compito, nella piena consapevolezza di dover comporre un discorso su quanto accade nella variegata realtà, la cui sostanza sovrasta sempre il singolo e si dà nel molteplice e contradditorio presente. In questo suo ininterrotto discorso complessamente articolato, Kinsella indaga sia la realtà vissuta in Australia Occidentale (Wheatbelt) sia le questioni internazionali e l’etica personale e pubblica, come nella raccolta On the Outskirts (2017) focalizzata sulle periferie politico-economiche ed esistenziali. La molteplicità della sua scrittura, ‘in situ’ e ‘a distanza’, spazia tra molti temi, molte forme e diversi continenti, riuscendo così a leggere la pluralità del mondo e a realizzare ‘un’equazione complessa e senza binari’, in cui il vicino e il lontano compongono in un unico soffio vitale quello che Kinsella chiama regionalismo internazionale.

È fresco di stampa il primo di tre volumi dei suoi corposi Collected Poems, che raccoglie in più di ottocento pagine poesie degli anni 1980-2005, che vanno dalla tarda adolescenza fino ai quarant’anni di Kinsella, riuscendo così a tracciare un prezioso quadro d’insieme dell’evoluzione del poeta, includendo peraltro svariati testi inediti presentati in volume nella loro esatta cronologia ricostruita dallo stesso poeta, oltre alle numerose copie manoscritte dei materiali d’archivio custoditi dall’University of Western Australia. In essi lo spazio bianco tra le diverse raccolte non è certo silenzio della parola quanto, piuttosto, pura tensione in fortissimo di una conoscenza per ardore che riprende fiato e si rivela più onnivora che mai del mondo e della vita (The Ascention of Sheep, UWA Publishing, con introduzione di Tony Hughes-d’Aeth e post-fazione dello stesso Kinsella, 2022). Anche a scorrere velocemente l’indice del primo volume, si resta davvero stupefatti sia della rapidità con cui si susseguono le sempre nuove raccolte sia dell’abbagliante consistenza qualitativa e dell’originalità e musicalità delle sue creazioni.

Kinsella si lascia ormai alle spalle i suoi esordi quale poeta del paesaggio, allora in sintonia con un’emergente critica postcoloniale che aveva fatto del paesaggio un caposaldo della poesia australiana. Tuttavia, ripensando ad alcune sue poesie amate e antologizzate, quali High Noon – A Visitationafter Edward Hopper’ /Mezzogiorno – Una visitazione alla maniera di Edward Hopper (Visitans, 1999, in Nuovi Nuovissimi Mondi, Antologia di poesia americana, canadese e australiana, Raffaelli Ed. 2012, introduzione di Susan Stewart, a cura e trad. di M. Cristina Biggio), si può facilmente rilevare  la notevole capacità del poeta di vedere oltre le superfici dell’esistenza i riflessi di riflessi, i brillii di volti, voci, echi, trasportati dalla corrente versale in un’aria di attesa assorta e straniante, senza le lenti deformanti di ideologie o punti di vista costrittivi. […]

Nel frattempo, la poesia di Kinsella è diventata un prezioso punto di riferimento nel vasto palcoscenico internazionale, un autentico specchio delle tensioni che l’attraversano, in cui le singole raccolte, pubblicate via via negli anni, finiscono per acquistare un senso sempre nuovo e corale, anche grazie alla relazione che esse intrattengono l’una con l’altra, quando infine cade il velo chericopre l’intima natura delle cose e la physis si rivela abissale fonte di una continua, grandiosa generazione. In essa, la poesia di Kinsella testimonia una convinta speranza, più forte di ogni dramma e ogni caducità, prezioso antidoto all’angoscia del vuoto e del nulla, in una continua tensione verso la luce. Quest’ultima è di certo la vivida azzurrità del cielo degli antipodi ma anche illuminazione, secondo l’accostamento aristotelico tra phaos (luce) e phantasia (immaginazione), quasi che l’immaginazione poetica riesca a illuminare le cose di una luce seconda, diventando costante attraversamento in cui poter tradurre insidie, gioie e fatiche, asperità e miraggi, nel mistero di una ‘vita fedele alla vita’ (M. Luzi). O, con le parole di Hölderlin, una luce che permette di trovare quella ‘misura a tutti comune’ che le cose stesse rivelano, se abbiamo la capacità di sottrarle alle nostre stesse valutazioni, dove affondano le radici dei valori utili solo a dividere gli uomini e a contrapporli fino al limite della reciproca soppressione. Una luce che riesce ad attraversare le disiecta membra della poesia e il battito di ogni più piccola creatura vivente, facendosi avvolgente e terso lume fiammingo che fornisce volumi e identità alle più piccole cose e restituendoci una parola che diventa evocazione e insieme capacità di accoglimento e custodia. Una parola che ci aiuta a vedere, fino ai confini del visibile, la ferita del mondo che ci appartiene nel suo transito, nel cammino e nell’attesa dell’accadimento che chiede di essere portato nel nome e con il nome, in quella profondità che è pienezza di significazione fino alla soglia dell’ineffabile.  Ma poi, verrebbe da dire, la poesia di Kinsella riesce a veicolare quanto è ormai urgente dal punto di vista della giustizia eco-sociale, grazie a quella indiscutibile forza della natura o talento naturale da cui generosamente, inarrestabilmente scaturisce l’abbondanza dei suoi versi, corroborati dal sempre vivo desiderio di un futuro migliore.

Tra un Purgatorio ‘da noi stessi creato’ e un Inferno ‘a portata di mano’, tutto si decide ogni volta nell’esatto contrappunto chiaro-scuro, luce-ombra del segno corposo tracciato dalle singole parole nel minuscolo/vasto spazio dei versi. Nelle loro profonde meditazioni, che ci mettono a nudo nell’intollerabile silenzio della spaziatura che li scandisce, sentiamo sempre fluire – per interiore, ritmica dettatura tra mille lampi abbacinanti – la speranza di ‘poterci spostare costantemente verso la luce’. Purché, precisa Kinsella, si riesca a individuare nella drammaticità del danno indotto il prerequisito di ogni realistico tentativo di una ormai urgente inversione di rotta dall’ estesa deforestazione, da incendi, salinità, erosione delle coste, e dalla scomparsa a più livelli di preziose biodiversità, dovuta al diffuso inquinamento e ai ritmi convulsi dell’odierna agricoltura. In questo suo modo di procedere tra la vita e i versi o tra la vita in versi – in cui, in ogni caso, l’essere è più del dire – il territorio d’indagine del poeta di Perth potrebbe ingannevolmente sembrare circoscritto alla realtà a lui più vicina e meglio conosciuta, mentre la sua vera potenza si esprime nell’umiltà e nella costanza con cui preferisce addentrarsi nei modi di procedere apparentemente trascurabili, compiuti marginalmente dagli esseri umani nella variegata realtà del pianeta, eppure capaci di interrogarci più profondamente sul mistero della vita, attraverso il diaframma dell’immaginazione poetica e la sua forza.   

Un’opera, quella di Kinsella, ormai articolata in svariati volumi di poesia, narrativa, saggistica e drammaturgia, ai quali si aggiunge la luminosa abbondanza delle creazioni di Graphology, la vorticosa grafologia di coloratissimi disegni-poesie sui Canti della Commedia. Con le parole dello stesso poeta, “si tratta di un progetto molto ramificato, una sorta di esteso poema a colori elaborato nel corso di una vita, iniziato nel 1997 e poi pubblicato su un’ampia gamma di riviste, libri cartacei e online, in cui il testo è apertamente parte delle immagini o le immagini sono un’ortografia—sono come le parole in una riconcettualizzazione” (termine interessante, quest’ultimo, ispirato peraltro all’articolato  pensiero di Antonio Gramsci e alla sua idea di dover abolire i privilegi sociali attraverso la piena uguaglianza dei suoi membri; termine che sarebbe utile sviluppare in altra sede in riferimento all’opera di KInsella). Una riconcettualizzazione, aggiunge il poeta, “che è come un rebus, un semaforo, una negazione di ogni primato della lingua scritta. L’intreccio del progetto evidenzia una sorta di nomadismo, in cui il lettore diventa un vagabondo tra i colori di un qualcosa di non lineare e non gerarchico intorno a Dante. Creazioni che esistono come un’estensione di quanto ho iniziato intorno ai 22 anni: cercare di trovare modi diversi di leggere Dante, specialmente quello che io chiamo il Dante ecologico”. […]

Volumi su volumi, quelli di Kinsella, che si rincorrono l’un l’altro, peraltro pluripremiati e sempre accompagnati da autorevoli e appassionate note critiche quali quelle di Harold Bloom e Susan Stewart. Quest’ultima, introducendo Kinsella al pubblico italiano, sottolineava della sua vivida reinterpretazione della Commedia, “la notevole capacità di addentrarsi nelle abitudini mentali ed emotive che rendono invisibile il bene”. Il bene di tutti noi e dell’intero pianeta implica un impegno costante nella tutela di veri e propri paradisi terrestri, preziosi scrigni che racchiudono “la bellezza delle foreste, la meraviglia del loro essere terra sacra dei Noongar, lo splendore degli animali e delle piante”. Non un hortus conclusus dunque, ma quell’idea affascinante di giardino che, per Kinsella e la cultura inglese, non c’è dubbio, è da scoprire: una radura in un bosco, una valletta remota, uno spazio segreto. Un giardino cantato da Omero a Virgilio, da Teocrito a Chrétien de Troyes in una linea diretta fino a Keats. Aree boschive come giardino naturale da preservare e da abbellire, dice Kinsella, fondamentali per la conservazione delle specie e per il costante assorbimento di CO2 nel pianeta, sulle quali purtroppo si continuano a concedere licenze per allettanti quanto devastanti perforazioni esplorative, a cui seguono le fruttuose estrazioni di minerali preziosi. Queste feriscono a morte boschi secolari che sono casa e rifugio di specie che stiamo perdendo, ma anche zone che ospitano popolazioni indigene che testimoniano e tramandano importanti culture e preziose tradizioni del passato.

Se questo è importante per tutti noi, lo è in particolare per un poeta pacifista ecologista come Kinsella, che sente il respiro ferito della vicina e amata foresta di Julimar, nella piena consapevolezza che il tema fondamentale della poesia, con le parole di Bonnefoy, resta pur sempre la salvaguardia della presenza Ne consegue il ridimensionamento dei privilegi della parola, che viene rimessa nel circuito delle cose, ed è conforme semmai allo statuto dell’immagine’ […], come mostra la splendida reinterpretazione di Graphology del Canto XXXIII: “ecco allora apparire il mondo sensibile e colorato ed è necessario che la parola gli vada incontro e decifri i segni”. (Letteratura e arti visive. Enciclopedia It. Bonnefoy 1977, p.120]…

Così, la prima impressione che emerge dello straordinario, immenso affresco – tracciato negli anni da Kinsella – è quella di un misterioso amalgama di luminescenti essenze della natura ferita e attraversata, tra intense giornate di lavoro trascorse su piccole parti del cuore e della mente affacciate su un giardino segreto, e altre giornate affacciate di lato alle figure in movimento lasciate lentamente ad asciugare sulla parete del mondo, il colore che trasuda e goccia di lato, anch’esso incorporato nell’esito complessivo  straordinariamente vivo e pulsante. […]

Ogni variazione della Commedia – grande o piccola, scritta, disegnata, dipinta, forse sognata ad occhi aperti dalla mente colorata di Kinsella – riesce ad esplorare al contempo nuovi aspetti della sua stessa visione e del suo pensiero, diventando in sé un universo da scoprire, mentre sembra seguire un sottile principio sinfonico in una serie di echi e rimandi che ne fanno un autore prolifico quanto irrequieto, capace di rielaborare con originalità i versi danteschi, indagando le risorse del linguaggio e i modi in cui il linguaggio costruisce e interpreta il significato. Nelle sue vibranti raccolte non traspare mai una struttura lineare quanto, piuttosto, motivi che appaiono, scompaiono, si ripresentano nei versi che si rincorrono, restituendo così al lettore la ricchezza sonora e i caratteri peculiari che sono propri della sua originale poetica, che va tracciando con colorata invenzione artistica una nuova mappa del mondo. Ce la offre parlando d’altro, naturalmente, e questa è forse la sublime prerogativa della sua essenza. Tuttavia, per chi traduce Kinsella, per ogni nuova creazione che si affaccia curiosa dallo schermo del computer o dalla pagina, vale forse l’ironica, suggestiva, perfino quasi deliziosa, grande metafora di Francis Ponge, sull’ispirazione (M. Corti, Percorsi dell’invenzione, p.15). O meglio su quel processo per cui un’idea, un’invenzione, si presenta alla mente, scivola via, scompare: è la metafora della lucertola, nella pièce intitolata Le lèzard. Dal muro in fondo al giardino dei versi di Kinsella, esce un piccolo drago cinese, brusco ma inoffensivo, lo si sa, e ciò lo rende simpatico. Un capolavoro della “bijouterie preistorica”, subito amato ed accolto come chi, direbbe Kinsella, “è di casa, molto o poco come noi”. 

I versi di Kinsella finiscono per comporre un unico libro che, con le parole di Calvino, si pone come un classico che non ha mai finito di dire quel che ha da dire, seguendo la necessità di riappropriarsi della parola, trasformandola da segno convenzionale a parola che dice, secondo l’itinerario della scrittura poetica che implica una disposizione a cercare, a guardare, a distinguere come diseguale ciò che pareva uguale, a dissociare per diversamente associare. L’argonauta Kinsella del terzo millennio è pronto a vedere nel reale la possibilità di essere ‘altro’. Da questo punto in poi, attraverso il mito degli Argonauti, il poeta continua a interrogarsi e a interrogarci sulla pervasività della guerra e i suoi tristi riti all’interno delle società antiche nel mondo greco e romano.

Eccoci allora a leggere la rivisitazione del poema Le Argonautiche di Apollonio Rodio (295- 215 a.C. circa) attraverso la poesia di Kinsella, che ci conduce con due graditi inediti ad una delle più note, affascinanti narrazioni della mitologia greca, riportandoci tra i cinquanta eroi leggendari che, sotto la guida di Giasone, si imbarcarono sulla nave Argo per affrontare l’avventuroso quanto incredibile viaggio che li condusse nelle ostili terre della Colchide, sulle estreme rive del Mar nero, alla conquista del vello d’oro. Com’era consuetudine al momento di entrare in guerra, sia i singoli individui sia gli Stati coinvolti, tramite i loro rappresentanti spesso designati ufficialmente dalla comunità, per prima cosa consultavano un oracolo, un luogo nel quale si riteneva possibile ascoltare la voce di un dio, direttamente o attraverso un medium. Apollo era il dio della divinazione e dedicato ad Apollo era l’oracolo di gran lunga più antico e importante del Mediterraneo, quello di Delfi, già citato nell’Iliade, la cui fama oltrepassava i confini del mondo greco.

Proprio con un inedito quanto brillante Oracolo,Kinsella ci fa entrare nel cuore delle vicende Argonautiche. Pelia, usurpatore del trono di Esone, padre di Giasone, riceve, com’era allora abituale, un responso dell’oracolo: si guardi da colui che gli comparirà davanti con un solo piede calzato, poiché vuole il destino che per opera sua egli perisca. L’uomo tanto temuto un giorno compare ed è Giasone, ma Pelia se ne libera mandandolo a riconquistare il vello d’oro nella remota Colchide. Le loro eroiche avventure per la riconquista del vello d’oro e la relazione tra Giasone e Medea, principessa e maga colchiana, permettono ad Apollonio e allo stesso Kinsella di superare la semplice narrazione, per creare un’esposizione che aderisce ed enfatizza fin dal primo Canto i valori di quei tempi. L’antefatto remoto, non esposto da Apollonio, è che il primo dei fratelli Elle e Frisso, figli del re Atamante, per sfuggire ai maltrattamenti della matrigna, fuggono sul dorso di un montone dal vello d’oro che li conduce in volo attraverso il mare; durante la traversata Elle cade e muore. Giunto in Colchide, Frisso sposa la figlia del sovrano locale e immola il montone affidando il vello d’oro a un drago che veglia giorno e notte sulla spoglia…

Resta centrale la figura di Medea che, per amore, impiega le sue arti di maga e rende possibile la vittoria di Giasone. La straordinaria figura di Medea vive un lacerante conflitto tra passioni e convenzioni sociali, tra un amore incerto e difficile che diventa passione incontrollabile tanto da indurla all’uccisione del fratellino Aspirto che viene gettato a pezzi in mare.

Maria Cristina Biggio

***

Dante sembra un’ossessione. Cosa trova un poeta, attivista ambientalista, nella Commedia di Dante? Com’è nato questo stretto legame con Dante e perché?

Avevo più o meno ventidue anni quando sono iniziati i miei seri approfondimenti su Dante. Avevo letto Dante in precedenza, intorno ai diciotto anni, ma ho iniziato a rileggerlo quando, tornato da non molto da un viaggio all’estero, stavo lottando con le dipendenze.  A quel tempo vivevo in una casa condivisa, e c’era una stanza dove le persone facevano “cose d’arte” (anche se io scrivevo poesie nella stanza che condividevo con la mia ragazza di allora), e in quella stanza d’arte ho iniziato a dipingere immagini che illustravano in modo insolito la Commedia. Ho anche scritto alcune “versioni” dei Canti, ma sono andate perdute da tempo. Ad ogni modo, alcune di quelle prime illustrazioni si trovano in un archivio della biblioteca, e restano così la prima documentazione di questo “approfondimento” di una vita intera nell’opera di Dante. A quel tempo della mia vita ero attivista in modo molto concreto (e lo sono ancora oggi), e sono stato spesso coinvolto in azioni di protesta contro il militarismo, le armi nucleari, la deforestazione e l’estrazione mineraria e, mentre leggevo Dante, parlavo anche contro il danno e l’avidità: era diventato un modo naturale di estendere il mio attivismo in Dante, e che le sue parole ne facessero parte. Quando lasciammo quella casa in città, ci trasferimmo in una zona rurale un paio d’ore a sud e Dante venne con me. Vivevamo in una fattoria e, già vegetariano, l’orrore della cascina ha portato me (noi) a diventare vegani e ha fortemente influenzato il nostro crescente attivismo per i diritti degli animali. Lasciammo quella fattoria e andammo molto più a sud e finimmo per vivere in una baracca, coltivando verdure biologiche, e vivendo senz’acqua corrente o elettricità. La nostra comune diventò il bersaglio di bulli di estrema destra (soldati di riserva dell’esercito), e fummo infine scacciati (avevano avvelenato il nostro serbatoio d’acqua). E per tutto questo tempo Dante è stato con me, e io progettavo di scrivere una versione della Commedia che raccontasse il mondo mentre lo stavo vivendo. Sarebbe stato facile mappare l’Inferno su questo, ma non sarebbe stato vero—la bellezza delle foreste, la meraviglia del suo essere terra sacra dei Noongar, lo splendore degli animali e delle piante…mi sembrò che inferno, purgatorio e paradiso fossero un tutt’uno e che avrei dovuto pensare a un nuovo punto di vista. Volevo scrivere una Commedia anti-coloniale e a favore dell’ambiente. Non entrerò in tutti gli eventi (e i traumi) in arrivo, ma è stato solo vent’anni dopo, nel 2005, quando — seduto a rileggere la Commedia a Mount Vernon, in Ohio, USA — ho trovato un modo per fare quel che volevo. Ma tra questi momenti, alla fine degli anni ’90, ho scritto un’opera autobiografica, Auto, che era parzialmente in dialogo con La Vita Nuova, così Dante (e Beatrice) era sempre con me in qualche modo. Quando abbiamo lasciato l’America e siamo tornati in Australia, abbiamo vissuto appena fuori York in una tenuta di 5.5 acri ai piedi della montagna sacra Walwalinj (Mount Bakewell’ nel nuovo nome dei colonizzatori) nella terra dei Ballardong Noongar. Questa era la terra in cui viveva la mia famiglia di coloni/coloniali, la terra con cui e di cui sentivo il bisogno di parlare, di riconoscere che fosse la terra rubata alla gente Ballardong Noongar, e che fosse stata devastata dal punto di vista ambientale dall’agricoltura coloniale-industriale. Così, la Commedia diventò quella ‘ravvicinata’ della tenuta di 5.5 acri, attraverso la quale venivano focalizzate le questioni della devastazione ecologica, dell’ingiustizia sociale e della rapacità del capitalismo del mondo—e, di conseguenza, ho riscritto e distrutto la mia prima versione della Commedia, che ho completato alla fine del 2008, dopo aver impiegato un anno per ogni cantica. Da allora ho composto altre due versioni della Commedia (non l’intero lavoro, ma parti sostanziali di ogni cantica), una basata sulle illustrazioni di Blake (e ‘ambientata’ in Irlanda, Inghilterra, Germania e Australia), e un’altra sulla musica e Dante e, nell’ultimo anno, ho illustrato la Commedia dal punto di vista della giustizia eco-sociale ‘post-visionaria’ e ‘non dimensionale’ (disegni ‘piatti’ colorati che interagiscono con la dimensionalità e la prospettiva).  

Il Novecento anglofono in realtà può essere letto come una più ampia reinterpretazione dell’opera di Dante: dalle opere di Pound ed Eliot fino a quelle di Hart Crane, Robert Lowell ecc. Cosa aggiunge – o toglie – la tua poetica visionaria alla loro stessa visionarietà?

Beh, sono molto colpito da tutti questi poeti, ma la mia versione è dell’estrema sinistra pacifista. La mia interpreta un anarchismo vegano pacifista, quindi non può che essere un incontro profondamente diverso. Quei poeti non hanno tradotto o elaborato versioni della Commedia, ma hanno subito fortemente l’influsso della visione di Dante e della sua poetica, tuttavia non hanno tentato di radicalizzare Dante nello stesso modo. E non si tratta appena di adattare Dante, si tratta di tracciare differenti possibilità nell’opera di Dante. Mi è venuto da ridere quando un commentatore arciconservatore ha suggerito che trovare rilevanza ecologica in Dante fosse ‘semplificare’. Incredibile e sciocco. Non ci vuole molta immaginazione (e Dante sapeva ‘politicizzare’ l’immaginazione, secondo me!) per estendere la topografia, la psico-geografia e la cosmologia di Dante all’ecologia. Il conflitto con Dante nel XX secolo faceva parte della crisi del modernismo – del tentare di spiegare il comportamento devastante degli esseri umani collettivamente e anche individualmente, e trovare un modello attraverso cui leggerlo… un modello a distanza che veniva rifocalizzato attraverso il presente. Ma in realtà, tante volte si trattava di una lettura letterale di tutta la deviazione e/o il potenziamento, di tutta l’elisione o la campionatura, e non di una (completa) rifocalizzazione… così, tanta risonanza dantesca sembra essere stata un innesto su certezze di azione e risposta, di punizione che è o diminuita da una ‘macchina’ priva di emozioni o intensificata attraverso la ricompensa umana. Io non lavoro in questi modi.  

Che cos’è il tuo Musical Dante (Raffaelli, 2021) in poche parole, e da dove viene e da dove iniziare a leggerlo?

Originariamente Musical Dante è nato dall’ascolto ripetitivo sia di A Symphony to Dante’s ‘Divine Comedy’ sia della Dante Sonata di Liszt. Sono sempre stato interessato alla musica (vengo, per un lato, da una famiglia di musicisti e artisti visivi), e un giorno, dopo il ventesimo ascolto o giù di lì, avevo appena iniziato a riscrivere un canto dell’Inferno a memoria mentre la musica mi risuonava in testa. Poi ho iniziato a scrivere con l’ascolto della musica e ho focalizzato il mio attivismo ambientale di quel tempo in un manifesto che veniva seguito dal canto. Da quel momento in poi ho iniziato a sviluppare una serie di poesie basate sui canti che venivano da Liszt, ma anche da altri compositori classici che avevano affrontato la Commedia. Da lì in poi esso è cresciuto spontaneamente in rapporto a molte forme di musica, dal punk attraverso il jazz, dal rock alla noise music, all’heavy metal degli Indigeni al rock africano di resistenza al colonialismo. Quel che il lavoro è poi diventato era quasi un manifesto attivista ambientalista, ma anche una guida all’attivismo ecologico. L’idea della “guida” è così fondamentale per la Commedia – io sono colui che viene guidato e che impara dall’ambiente, ma sono anche colui che registra informazioni, un testimone, ma anche, purtroppo, colui che partecipa alla distruzione e deve mettere in discussione i propri impatti. In realtà, non si discosta molto da quel che Dante stesso fa implicitamente, e se ricordiamo come la musica e la performance fossero parte integrante della poesia di Dante, specialmente prima della Commedia, allora questo mio lavoro sembra adattarsi. La musica è in Dante e Dante ha scritto sulla musica. Leggere e ascoltare Dante è sempre un mea culpa, e scriverne ancora di più!

Puoi estrarre una terzina, una manciata di versi per te esemplare da Musical Dante e spiegare al lettore italiano perché scegli quei versi tra gli altri?

Musical Dante è un discorso ecologico e pacifista sul danno arrecato alla biosfera. Le musiche prescelte assumono in esso una prevalente funzione espressiva, permettendo loro di accompagnare con le diverse “intonazioni” i temi affrontati nei Canti. Al tempo stesso, esse riescono a dare una percezione complessiva dei diversi sentimenti umani e – come sempre accade in poesia – i versi diventano una inestricabile concentrazione di spontaneità e invenzione, logica e naturalezza, equilibrio e fascino dovuti all’ascolto della molteplicità dei significati dei differenti brani musicali e delle differenti realtà accolte nei versi. La poesia riesce così a portare l’etica all’èthos, per trovare un equilibrio tra quel che è giusto fare nella devastazione climatica e il comportamento pratico dell’individuo e delle comunità interessate alla crisi ecologica. Musical Dante, nonostante tutto, cerca un punto di pronunciabilità della parola ferita e della vita ferita. Anche nella devastazione odierna, esso cerca di esprimere quel che l’umano deve essere, e resta un canto di riverenza verso l’esistente e la sacralità di ogni più piccola creatura vivente…

Allora, forse, la terzina che riassume in sé tutto questo, potrebbe essere l’ultima del Canto 5, in cui il poeta è il testimone della catastrofe ecologica e vuole avere un ruolo attivo nell’ancora possibile risanamento ambientale…

“Liszt è un ricordo evanescente mentre scrutiamo il cielo per Mercurio con la Musica per archi, percussioni e Celesta di Béla Bartók completando Paradiso 5 di Dante: sperando che gli alti alberi strappati trovino tregua e pace”.

“come Tracy mi dice, sebbene lei si svegli presto e io sogni di attraversare
la collina, in cerca di mercurio, con tutta la vita ferita che mi segue per avere tregua, 
rifugio, avida di habitat, e a cui, anche se io non sono degno di conforto,    

questa prossima sfera offrirà speranza di vita perduta, ascolterà questo canto deponente”.

**

Oracolo

“Tale fu l’oracolo …” Argonautica

Decenni di configurazione. Un oracolo
va bene per tutto? Cosa ci aspettiamo dalla
montagna della poesia. Mare, agrumi,
tonalità serali di sangue e olivi.
Qualcuno sta parlando di cosa
far stare in una futura sonda spaziale –
ricordando la mappa della pulsar
del Disco D’oro del Voyager.
Il futuro scivola nel passato ed è
di questo viaggio che si tratta, no?
La natura essenziale delle metriche.
Stanno discutendo di poesia
nel Quadro Generale e hanno chiuso
i punti fatti sul colonialismo,
i costi dei centri, quel desiderio
che le ‘periferie’ non siano
scoperte. Colmi di talento, arance
luminose, non dimenticano mai
le mani dell’amicizia quando
è arduo mangiare tra
l’abbondanza. Qualcuno
dice qualcosa sulla ‘scelta’
e ‘i poveri’ poi enfatizza la cultura.
L’oracolo non sembra troppo preoccupato
dei poveri. I poveri sono un’idea
entro un dibattito sul privilegio
delle idee. Ma il dono delle arance
significa qualcosa. È un dono
dei soli. Non verrà dimenticato.    

*

Lasciando la Colchide: Medea 4

La mia arte non mi portava da nessuna parte,
e Eete non mi lasciava andare.
Lui non si fermerebbe davanti a niente di industriale
e il mare è per lui come lo spazio
per Elon Musk. È una relazione
gratuita con gli elementi.
È la campana subacquea in alto mare
e i suoi contenuti meravigliandosi
che la plastica abbia raggiunto tali
profondità. Meravigliandosi senza ironia.
Troppo confidente nel tono. La parola
è meno della magia del gesto.
Giasone ha dato mio fratello in pasto al mare
perché l’inseguimento era in corso –
il mare lo ha inghiottito avidamente.
Sindrome di Stoccolma. Il genere
allenta la tensione, la realtà
maliziosa. Sono stata cresciuta pensando
che il sangue fosse l’unica interfaccia
tra la merda della sottomissione
e l’aspirazione divina. È un credo
concepito dalla classe media,
ma questo non significa che mi importi
meno di te — interlocutore — sulla natura.
Padri con potere assoluto
ti porteranno a misure
disperate. Ogni cosa è meglio
del loro regno. Amavo
mio fratello. Lo ribadisco.
C’è olio che trascina pesci appena
argentati più in profondità delle capacità
delle loro vesciche natatorie.
Ma anche gli empatici
si stancano di sentire le solite
vecchie cose. I fatti compiuti.
Ma io insisto sugli anacronismi,
come angeli timorosi.

John Kinsella

trad. di M. Cristina Biggio

Gruppo MAGOG