Leggere Boris Pasternak è scoprire un universo. Anzi, un rifugio inesplorato. Pasternak poeta è un diluvio che salva, che lava via le scorie di un maremoto quotidiano pronto a schiacciarci tra incombenze e innumerevoli imprevisti. Nel nascondimento, quindi, il poeta sembra offrirci un appiglio: l’invito a entrare nell’abitazione fatta di segni, simboli, parole sacre come il vento, che costituiscono un libro e, di conseguenza, la vita.
Versi come questi, tratti dal poema Le onde, sono talmente eccezionali e potenti, da ridare speranza persino al più miscredente degli ipotetici lettori e scrittori che intendono iniziare un percorso eccentrico quanto disumano, ma vitale. Leggere e scrivere ‒ in effetti ‒ è gioco al rilancio, il tutto o niente del genio, l’azzardo per l’assoluto:
Chiamatelo come vi pare, ma il bosco,
che già tutto aveva rivestito all’intorno,
scorreva come il corso di un racconto,
ben conscio di suscitare interesse.
Ma, andando oltre, approfondendo un attimo la questione, addentrandoci ben inteso con curiosità feroce “dentro il bosco del racconto”, tra parole inarrivabili eppur presenti, scopriamo per davvero qualcuno di inavvicinabile e, per ciò stesso, da stimare all’inverosimile.
C’è solo da stupire infatti, e imparare, leggendo le poesie di Boris Pasternak. Il leone russo. Il ruggito di Mosca. Il cui urlo ci ha raggiunto nel tempo, sfondando i secoli, sfrondando i timori del regime.
Pare che persino il dittatore di turno lo temesse. Colui che umiliò e fece uccidere quasi tutti i suoi amici poeti. Pasternak l’intoccabile. Pasternak il traduttore. Boris, tra la neve e la tormenta…
Tra tutte, però, mi preme sottolineare un’altra poesia, che vale più di un monito. Perché, è bene dirlo, a scrivere poesia si apre un abisso che ci coglie sempre impreparati, nudi al tuffo, eppure istintivamente aperti al rischio. È una sorte che ci accoglie, della quale un attimo prima non sapevamo nulla. Tuttavia, intrapresa la scelta, tornare indietro equivarrebbe a una sconfitta.
Si viaggia dunque verso Roma o Bisanzio, o Costantinopoli. Scrivere è un destino irrefrenabile, il sentiero da calcare con parole nuove da setacciare nei prati.
Ah, l’avessi da subito capito,
quando mi arrischiavo al debutto,
che i versi sono sangue e uccidono,
che a fiotti nella gola uccideranno!
Dal tranello di quei tiri mancini
mi sarei certo tenuto alla larga.
Così lontano ormai è l’esordio,
così incerto il primo interesse.
Ma senilità significa Roma,
che invece di fànfole e fole
all’attore non richiede una prova,
ma una morte vera, senza appello.
Quando a dettare il verso è il sentimento,
sulla scena manda uno schiavo,
e qui l’arte finisce,
qui respirano suolo e sorte.
È proprio vero, “i versi sono sangue e uccidono”. Ma, nonostante tutto, Roma può ancora aspettare. La senilità è lontana. Qui siamo pronti a combattere, siamo pronti ad accettare “una morte senza appello”. La sorte ci richiama a creare, ad andare controcorrente, per scrivere quell’opera che ‒ forse, un giorno ‒ qualcuno c’invidierà.