06 Agosto 2019

John Keats rubava i cadaveri dalle tombe (dice la BBC). Macché: non arretrava davanti alla morte!

Nel 1819 Giacomo Leopardi scrive L’infinto e John Keats l’Ode su un’urna greca. Pochi sono i grandi poeti, rarissime sono le poesie memorabili: queste lo sono. Entrambe, con radiosa semplicità, con una fatata leggerezza, dicono una poetica. C’è una sintonia tra “il pensier mio” del poeta che “tra questa immensità s’annega” e la cruna dell’ode di Keats, “bellezza è verità, verità bellezza”.

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Ognuno ha il suo poeta: John Keats è l’icona della poesia inglese, così precoce, pasto così rapace alla morte. Come Rimbaud lo è per quella francese, Leopardi per noi, Hölderlin per i tedeschi. In ogni caso, una cesura, le cesoie dell’incomprensione, il rebus di una scelta radicale, il radioso della follia ‘autenticano’ l’opera di tali poeti.

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La ‘fortuna’ di Keats in Italia è testimoniata, primariamente, dal ‘Meridiano’ Mondadori che ne raduna le Opere – comprese le lettere; son quasi 1700 pagine – per la cura di Nadia Fusini e la traduzione di Roberto Deidier, Fusini e Viola Papetti. Uscito, con sonorità, quest’anno, perché il 1819 è l’anno ‘mirabile’ di Keats, in cui scrive le poesie maggiori. Una specie di deliziosa ‘appendice’ a questo lavoro è il pamphlet di Edoardo Zuccato che commenta dieci versioni di All’autunno di Keats (Mucchi editore, 2019). “John Keats è uno dei poeti inglesi più amati dagli italiani”, esordisce Zuccato: eppure, pur sepolto nel cimitero acattolico di Roma, dove muore, “l’acquisizione delle sue opere da parte della nostra cultura è una vicenda interamente novecentesca”. Zuccato, appunto, usa To Autumn, “capolavoro di equilibrio e concisione”, per raccontare, attraverso il genio del poeta inglese, le peripezie della nostra lingua – il confronto con l’altro linguaggio affila il proprio. Dalla traduzione di Ettore Allodoli del 1910 a quella di Deidier incapsulata nel ‘Meridiano’, passando per l’archeologia di Mario Praz, la ferma delicatezza di Franco Buffoni e la proposta, in lombardo, di Zuccato medesimo, capiamo che i colori verbali di una poesia sono pressoché infiniti.

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“John Keats è un poeta da tasca, dove si mettono le cose che contano, le mani, i soldi, il fazzoletto; gli scaffali si lasciano a Coleridge e a T.S. Eliot, poeti-fari. Una tasca è la casa essenziale che l’uomo porta sempre con sé; occorre scegliere ciò che è imprescindibile, e solo un poeta vi può entrare”, scrive Julio Cortázar nelle sue peregrinazioni nel poeta inglese, A passeggio con John Keats (Fazi, 2014). Capisco cosa intenda. Ci sono poeti che mutano il tuo sguardo sul mondo, altri che ti mostrano lo scintillio del giorno. A volte, l’unica rivoluzione che desideri è sapere che nostalgia ha condotto le nuvole a quella forma.

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“Era una creatura solare, di quelle che non hanno bisogno di una morale per regolare la loro condotta. La sua corrispondenza, che non ha analoghi in tutta la storia della poesia, lo mostra addirittura inquieto (di un’inquietudine artificiale che gli passava subito) per questa naturalezza del suo essere. Sembrava destinato al perfetto ozio creativo, che è compito apollineo, zenitale” (Julio Cortázar)

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Kelly Grovier, poeta, storico, firma del TLS, studioso dei lirici ‘romantici’, ha pubblicato per BBC Culture un articolo che suona un poco sensazionalista. Was the poet John Keats a graverobber? L’autunnale poeta riprodotto al cinema, dieci anni fa, in Bright Star (griffa Jane Campion; non è il suo film maggiore), faceva il tombarolo, razziava cadaveri freschi dai cimiteri per offrirli al bisturi dei chirurghi universitari? Il testo, che ho fatto tradurre, mostra, piuttosto, l’altro lato del poeta, capace allievo di un farmacista, studente di medicina al Guy’s Hospital, per altro abile e ben avviato alla carriera (che rifiuterà, per dare aria alla poesia). Leggo dalla densa Cronologia del ‘Meridiano’ Mondadori: “Ma oltre alla teoria c’era la pratica: Keats doveva accompagnare il primario nella routine delle visite, seguire le esercitazioni di anatomia nel laboratorio – una specie di anfiteatro dove soprattutto d’estate il tanfo era tremendo, toglieva il respiro. In quella stessa sala in cui il venerdì si tenevano le lezioni di chirurgia, durante la settimana si accumulavano i cadaveri che i «resurrection men» – ovvero, gli impiegati della riesumazione – trasportavano dal cimitero. La sala era piccola e la ressa per prendere posto nella cavea non differente da quella per accaparrarsi un posto a teatro; e una volta entrati, la folla premeva, si rischiava di finire schiacciati. Addirittura capitava a volte che il chirurgo non potesse operare perché non riusciva a muoversi, tanta era la gente. E non era solo il sangue a fare impressione: in età pre-anestesia si può facilmente immaginare quali fossero le urla dei pazienti, specie se bambini… tra chi seguiva le lezioni c’era chi sveniva, chi scappava via inorridito. Keats no, aveva i nervi saldi, e difatti il 3 marzo 1816 è promosso assistente”.

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Piuttosto, accucciarsi qui, tra alberate ali d’usignolo (più che all’ombra del passero o dell’ilare upupa, facendo birdwatching tra i boschi della lirica):

Fa male il cuore, e il sonno offusca i sensi
come avessi bevuto la cicuta,
o vuotato da poco fino al fondo
un narcotico, e fossi sceso al Lete:
non invidio la tua sorte felice,
felice della tua felicità,
perché tu, come una driade leggera,
per macchie melodiose
di faggi verdi, nell’ombra infinita
vai cantando l’estate a piena gola.

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Il poeta non arretra davanti alla morte. Gli anglofoni hanno la tendenza a rimestare nel gossip, a trovare nell’opera tracce di vita e viceversa: soffrono d’agorafobia agiografica. A noi non importa la verità sostanziale, ma quella laterale: Keats non arretra davanti alla morte. Al posto di usare il bisturi sui corpi, lo usa per dissezionare il corpo della poesia. Anche l’urna greca – che avvicino agli ori di Bisanzio di Yeats, poeta disincarnato che parlava con i morti – è cornucopia carnale. Sa cos’è il corpo e la sua maceria, il poeta, per cantare, prodigo di prodigi. (d.b.)

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John Keats profanatore di tombe?

È vero che il poeta romantico John Keats rubasse cadaveri dalle tombe? Uno sguardo più attento ad alcune delle opere più illustri dello scrittore del XIX secolo, incluse le famose odi scritte 200 anni fa nella primavera ed estate del 1819, svela una preoccupazione particolare per i cimiteri e la fusione del sé con i resti cremati. Un’ossessione pratica che va oltre una consapevolezza angosciante della propria mortalità. È quasi come se il poeta si confessasse consapevolmente a qualcosa di oscuro, pericoloso e profondamente inquietante.

Non è un segreto che Keats fosse intensamente affascinato dalla morte e che per lui la morte fosse uno stato d’anima a cui il suo spirito tendeva. Nella sua poesia la morte è invocata come un oggetto di infatuazione. Nella Ode all’usignolo ammette memorabilmente di essere stato “a lungo mezzo innamorato della facile morte”, a cui egli dolcemente sussurra “nomi soavi nei versi meditati”. “Ora più che mai” conclude Keats “mi sembra bello morire, / spegnersi a mezzanotte senza dolore”.

I rifermenti alla materialità della sepoltura umana ricorrenti nella sua poesia – tombe, appezzamenti di terra e vasi funerari compaiono spesso nei suoi scritti – sono inoltre generalmente apprezzati come acute preveggenze della scomparsa prematura del poeta all’età di 25 anni. Com’è comprensibile, ai lettori risulterà difficile separare il ritmato liricismo di poesie come Ode su un’urna greca, che descrive scene immaginarie che ritraggono lo spazio scultoreo destinato alla cenere dei morti, dalla conoscenza del fatto che l’autore fosse presumibilmente malato di tubercolosi quando la scrisse a soli 23 anni e che sarebbe morto in seguito a dolorose complicazioni della malattia due anni dopo, nel febbraio 1821.

E se l’ossessione di Keats per la macabra fisicità della morte e per i luoghi della decomposizione corporea non fosse anticipatoria del suo imminente trapasso, ma frutto di una esperienza diretta per aver scavato nel terreno dei cimiteri? E se Keats si fosse sporcato le mani nell’illecito affare notturno di procurare corpi “freschi” per le scuole di medicina, come il Guy’s Hospital a Londra, dove si era iscritto come studente nell’ottobre 1815? Come cambierebbe la percezione che abbiamo di lui, della sua vita e della sua straordinaria eredità letteraria?

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Abilità chirurgica

John Keats è nato a Moorgate, Londra, il giorno di Holloween nel 1795 il più grande di tre maschi e una femmina. Conclusi gli studi in una scuola progressista a Londra, dove il futuro poeta mostrò presto interesse per il verso rinascimentale, nel 1810 Keats fu mandato come apprendista da Thomas Hammond, chirurgo e speziale, precursore dell’attuale farmacista. Nello stesso anno la madre di Keats morì di “consumazione”, come veniva allora chiamata la tubercolosi. La TBC, “malattia di famiglia”, avrebbe poi preso le vite di entrambi i fratelli di Keats, Tom e George, rispettivamente nel 1818 e 1841. Dopo cinque anni di formazione con Hammond, Keats si iscrisse al Guy’s Hospital come studente di medicina, dove fu velocemente promosso nella posizione di “mendicatore” (simile all’assistente medico nel Servizio Nazionale di Salute del Regno Unito), un ruolo che gli avrebbe avuto una posizione privilegiata nelle sale operatorie, in cui faceva pratica a fianco di chirurghi esperti.

A detta di tutti, un’illustre carriera medica sarebbe stata a sua disposizione. In questo periodo Keats è entrato in contatto con una cerchia di persone poco rispettate che si nascondevano nelle tenebre della professione medica, letteralmente e metaforicamente: i ladri di tombe. Avendo costantemente bisogno di cadaveri freschi allo scopo di fare pratica e sperimentare, gli insegnanti che gestivano le scuole di medicina come quella del Guy’s Hospital si sono trovati a dipendere dal raccapricciante lavoro manuale degli ‘uomini della risurrezione’, com’erano vividamente chiamati, che estraevano violentemente i corpi dalle tombe poche ore dopo la sepoltura e li vendevano ai chirurghi con il favore del buio.

Il coinvolgimento degli studenti di medicina nell’assistere ladri di cadaveri più esperti è un fenomeno che risale alle primissime testimonianze di profanazioni di tombe, come dimostra la persecuzione nella Bologna del 1319 di quattro giovani dottori, sorpresi nell’atto di riesumare e dissezionare un criminale giustiziato. Il rinomato chirurgo e medico-scrittore John Flint South, contemporaneo del poeta durante gli anni di apprendistato, avrebbe più avanti scritto nelle proprie memorie che se gli uomini della resurrezione “si trovavano nei guai” con la legge, ovvero colti sul fatto con un cadavere, “i professori avrebbero fatto tutto quello che potevano per far scagionare gli uomini dalle indagini della polizia” e, se necessario, “farli rilasciare su cauzione”.

Nel periodo di tempo in cui Keats stava studiando ci fu una richiesta maggiore di cadaveri per le aule di studio del Guy’s Hospital e della vicina St. Thomas’s Hospital School, dove Keats assisteva a interventi nella maggior parte dei suoi pomeriggi. Nel 1816, anno in cui Keats fu promosso nel ruolo di “mendicatore”, un gruppo minaccioso conosciuto col nome di “The Borough Gang” (la banda del distretto), una delle associazioni di ladri di cadaveri più malfamata e fondata da Ben Crouch, ex portinaio del Guy Hospital, decise di bloccare il trasporto dei cadaveri al St. Thomas’s finché i professori non accettarono di pagare due ghinee in più per cadavere.

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Rimedio erboristico?

Suggerire che i chirurghi e gli studenti di istituti vicini, Keats incluso, abbiano deciso di procurarsi i corpi da sé è nel migliore dei casi speculazione. Tuttavia, è incontestabile la svolta raccapricciante e coraggiosa che accade nell’immaginazione di Keats quando, l’anno successivo, descrive una tomba nel poema Isabella, o il vaso di Basilico adattamento di un racconto dal Decamerone di Boccaccio.

Isabella racconta la storia di una giovane donna che, contro il desiderio della famiglia, si innamora di Lorenzo, uno dei ragazzi al servizio del fratello. Arrabbiato per la sua decisione, il fratello di Isabella uccide e seppellisce Lorenzo, il cui corpo viene scoperto e riesumato dalla donna. Sconvolta dal dolore Isabella pianta la testa di Lorenzo in un vaso di basilico, per il quale sviluppa un’ossessione. Nel descrivere la ricerca di Isabella del pezzo di terra dove il corpo di Lorenzo era stato gettato Keats si sofferma in modo piuttosto disinteressato sul luogo, preferendo immergersi con la fantasia nel suolo profanato e inquietante:

“Chi non ha gironzolato in un cimitero verde,
E lasciato che il suo spirito si addentrasse come un demone-talpa
Nella terra argillosa e nella ghiaia dura,
per vedere un cranio, delle ossa sepolte, e la stola funeraria…?”

Ponendo la bizzarra domanda ‘chi non ha’, la voce narrante del poema cerca di rendere normale un impulso e un’azione che sicuramente non lo sono. Chi sta cercando di convincere? Solo nella strofa successiva Isabella comincia a scavare (“con un coltello…con più fervore delle persone avare”), ma fino a quel punto Keats ci ha già guidati “nella terra argillosa e nella ghiaia dura” della tomba di Lorenzo.

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Lo stesso anno in cui la Borough Gang ha minacciato a mano armata la Scuola St. Thomas, gli studenti e il personale, Keats superava straordinariamente un esame di abilitazione che molti suoi contemporanei, inclusi i suoi coinquilini, non riuscivano a passare. A luglio dello stesso anno ricevette il permesso di praticare come speziale. Considerando l’avanzamento professionale, sembra particolarmente insolito e inaspettato che a dicembre Keats abbia deciso di abbandonare completamente la medicina a favore della poesia.

La decisione di Keats è sembrata a molte persone intorno a lui un atto inspiegabile di follia, visti i debiti accumulati da studente e filantropo nei confronti dei suoi numerosi amici. Se è romantico accettare che la sola attrazione della poesia abbia influenzato la decisione di Keats, non si può non chiedersi se qualcosa abbia sviato il poeta dal percorso che aveva seguito a lungo – forse qualcosa che aveva visto, dissotterrato o toccato.

Due anni e mezzo dopo aver cambiato rotta da medicina a scrivere poesie, Keats cominciò a lavorare ad un poema epico intitolato La Caduta di Iperione che si apre con uno strano indizio rivolto ai lettori che l’opera che stanno per leggere è o la visione di un poeta capace oppure lo sproloquio di un pazzo. Promette che la verità sarà svelata solo dopo la sua morte. Ma è il linguaggio che il poeta usa per asserire questa curiosa affermazione ad essere così impressionante e memorabile:

“Se il sogno si prefigge di provare
Di essere poeta o fanatico si saprà
Quando la mano del caldo scriba sarà nella tomba.”

La sintesi di tutto il suo essere in un’estremità che scarabocchia attira l’attenzione, ma evocare l’immagine di quella parte del corpo ancora agitata dalla vita (“calda”) in un luogo di morte (“nella tomba”) è particolarmente inquietante e ricorda un furtivo tentativo degli uomini della resurrezione. Ad intensificare l’effetto è l’intromissione della parola “provare” che aleggia ossessivamente sulla superficie della pagina poco sopra la parola “tomba”. “Hearse”, carro funebre, è il mezzo che trasporta un corpo alla tomba. “Rehearse”, provare, è quello che i ladri di cadaveri fanno con le mani calde nelle fredde tombe. I versi sembrano dire molto più di ciò che appare in superficie, come se qualcosa si rimescolasse nervosamente sotto il livello dell’espressione letterale: come un segreto che aspetta di essere trascinato nella luce.

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Nello stesso periodo Keats cominciò a comporre, per poi abbandonare La Caduta di Iperione, intraprese ancora un’altra poesia il cui argomento si rifà in modo significante all’immaginaria infiltrazione di una persona in vita in un luogo di morte. La poesia è Ode sull’Indolenza, parte della raccolta di odi che Keats compose nella primavera ed estate del 1819.

L’ode si basa sugli arrivi e sulle partenze di tre figure che si succedono davanti alla voce narrante della poesia: “ombre” che Keats paragona a “figure su un’urna di marmo/ girata per vedere l’altro lato”. Particolarmente intrigante nella descrizione di Keats del modo in cui viene avvicinato dalle figure è la sua meraviglia nel vederle arrivare di volta in volta. Insiste che al loro arrivo “non le riconoscevo”, come se non le vedesse arrivare. Ma se si fosse trovato veramente di fronte ad un’urna rotante, avrebbe certamente visto le figure avvicinarsi di lato, diventando più ampie man mano che la superficie convessa ruotava verso di lui. L’unico modo in cui le figure potrebbero coglierlo di sorpresa è se lui si trovasse all’interno dell’urna, guardando al contrario una superficie concava. Solo allora le figure potrebbero a ogni rotazione avvicinarsi di soppiatto da dietro.

Ad aprile 1819 proprio quando sta lavorando all’ode, Keats visita a Leicester Square, Londra, un interessante spettacolo visivo di un onnicomprensivo quadro cilindrico raffigurante una costa ghiacciata nell’arcipelago norvegese, installato da Henry Aston Barker nel popolare congegno conosciuto come Panorama. Originariamente aperto nel 1793 da Robert, padre di Barker che aveva coniato la parola “panorama”, il congegno permetteva ai visitatori di stare in mezzo al quadro rotante, precisamente nella dinamica suggerita dalla descrizione di Keats del movimento delle figure in Ode all’Indolenza. Tuttavia, nell’ode di Keats l’allusione non è che la voce narrante sia circondata da una tela, ma piuttosto che si trovi all’interno del vaso funerario e quindi che si mescoli ai resti di cenere della persona cremata. Solo quando il lettore ha completamente colto le implicazioni della posizione sensoriale in cui la voce narrante è posizionata all’interno dell’urna può capire la gravità della descrizione di Keats del suo desiderio di inseguire le tre figure:

“Passarono una terza volta, e passando girarono
A turno per un momento la faccia verso di me;
Poi svanirono, e per seguirli io arsi…”

Ancora una volta Keats ha rintracciato i morti in un posto di presunto eterno riposo e ha immaginato il suo essere lì mescolato con il loro, andando così lontano, in questo caso, fino ad immaginare una sorta di auto-immolazione in conformità con il calore della cremazione che polverizza: “per seguirli io arsi”.

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Predatore di tombe

Il 23 febbraio 1821 John Keats morì a Roma, dove si era spostato per il clima più caldo che avrebbe potuto giovare contro l’agonia della sua condizione in rapido peggioramento. Non si conosce la data esatta della composizione o per quale progetto, ma si ritiene che tra i suoi ultimi schizzi poetici ci sia un frammento agghiacciante, che suggerisce quanto la sua immaginazione fosse fino all’ultimo momento inquieta di immagini di vivi e morti in competizione per lo stesso spazio:

“Questa mano viva, che ora è calda e capace
di stringere forte, potrebbe, se fosse fredda
nel gelido silenzio della tomba,
ossessionare i tuoi giorni e raggelare le tue notti
piene di sogni così che tu vorresti prosciugare del sangue il tuo cuore
per far scorrere nuovamente nelle mie vene la vita scarlatta, e
avere finalmente coscienza tranquilla: ecco, prendila –
io la porgo a te.”

Questi versi sembrano provare un’inquietante resurrezione dell’io del poeta in trapasso, amalgamato incredibilmente da “una mano viva… nel gelido silenzio della tromba”. È impossibile dire se la visione sia o no quella di una mente perseguitata da un’esperienza personale in lotta con la morte per il sopravvento, disperata di avere “finalmente coscienza tranquilla”. Il meglio che si può fare in qualità di ammiratori grati della sua straordinaria opera, è continuare a scavare.

Kelly Grovier

*Traduzione italiana di Spangel Kristine Bianca

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