27 Agosto 2024

“Tra paura e desiderio”. Édouard Glissant, il poeta oceanico

Fino a poco fa, i libri di Édouard Glissant erano necessari per capire frali concetti come ‘relazione’ e ‘diversità’, ‘globalità’ e ‘periferia’. La sua Poétique de la relation (Gallimard, 1990; da noi: Quodlibet, 2007) relaziona su identità puntiformi, fameliche, su un mondo ‘globale’ che all’uno dà spago ai molti. Nato nel 1928 in Martinica, morto a Parigi nel 2011, Glissant aveva estro e tempra: credeva che le lingue ‘marginali’, l’imposizione coloniale sull’impasto indigeno, fossero più vive delle nostre, europee: moribonde, pronte a elettrizzarsi, deste alla rivolta e alla rimonta, con i cani intorno al verbo capomastro. Su altra sponda – benché ben poco interessato ai fenomeni ‘sociali’ – Derek Walcott, il genio di St. Lucia, sarebbe d’accordo.

Anche Glissant, d’altronde – svezzato a negritudine e Rimbaud da Aimé Césaire – è primariamente poeta (da qui: una poetica). A vincere, però, nel curriculum bibliografico, furono, da subito, per creola eccentricità, i romanzi. Con La Lézarde (1958; da noi: Jaca Book, 2013) ottenne un Prix Renaudot; a me piacque molto Il quarto secolo (1964; da noi: Edizioni Lavoro, 2003), storia di diversi lignaggi di schiavi deportati nelle Antille francesi. Mi piaceva, intendo, il vigore conferito al verbo, i paragrafi con il machete, le frasi con le grida nel sottobosco, la bestia in rotta, la razzia. Mi sembrava – a dispetto degli sfitti androni del romanzo occidentale – qualcosa di ‘selvatico’, ma al contempo così tanto consapevole. Flaubert e il griot, Balzac e il vudù. Esatto come una gara di caccia grossa.

La faccio breve. Su Glissant l’editoria nostra sta sostanzialmente glissando – sia lode a editori come Meltemi, che sta editando i tomi della “Poétique”: Introduzione a una poetica del Diverso, 2020; Sole della coscienza, 2022 – così che su certi temi, come il gambero, parliamo come nulla fosse accaduto, accecati dal nostro Eden con i rasoi. Qui preme ribadire che Glissant fonda una ‘poetica’ sulla trave della poesia: poeta in origine (esordisce con Un Champ d’îles, 1953), principalmente poeta, i suoi testi sono in catalogo Gallimard (nel 2021, in cofanetto ornamentale, sono usciti Le sel noir – Pays rêvé, pays réel). S’incontra una lirica chiaroscurale, tra fuoco e fato, che fonde fiaba petroglifo alla grande tradizione poetica di Francia. Non è un caso che il faro di Glissant sia Saint-John Perse, il grande poeta premio Nobel, nato nei “dipartimenti d’oltremare”, in Guadalupa, figlio di coloni.

In un testo d’alto interesse, Faulkner, Mississippi (1996), Glissant ‘assume’ Saint-John Perse e William Faulkner sotto la figura simbolica del Planteur: “Essi vengono a noi come agrimensori che si prendono cura delle loro bestie, che forse preferiscono agli umani. Due intelligenze aguzze, esacerbate dalla situazione in cui sono coinvolte e sorprese, che sublimano la realtà, la giustificano in qualche modo, permettendo alla loro opera di spingersi così lontano nel mondo”. Faulkner e Sant-John Perse restano – secondo il dire creolo – béké, discendenti dei coloni, grandi possidenti terrieri: di qui, l’erranza memorabile del poeta, per cui “il mondo resta in Occidente, dacché Occidente significa linguaggio; lì Perse fonda il suo lignaggio… la carne rientra nella Parola: egli è l’ultimo trovatore di un mondo sistematico, sistematizzato”.

Nel contrasto con Perse – colono, infine, di una terra del sogno – Glissant precisa i glifi della propria autonoma marcia poetica. “Mi appellarono l’Oscuro, abitai lo splendore”, scriveva Perse; e Glissant, a farne chiosa e morso, “Fui allocato nello splendore, abitai l’oscurità”. In questa lotta, che sa di un iddio dal cranio bucefalo, la poesia: al bivio tra l’epigrafe e lo sfarfallio di libellule.

**

Édouard Glissant

Nel ventre rosso e nero dove dovevamo entrare
con la testa, con i piedi

nel ventre pari a un marcio lembo di carne
dove si dimena l’avvoltoio, non c’è

il silenzio che premette il perdono
e nessun muro
raccoglierà la nostra testa sfatta.

Non è questo il luogo

in cui posare le mani
terra a filo di un vaso rotto
e imparare la gioia di invecchiare.

Sterminio di popoli esausti
in balia del freddo ventre

nient’altro

che morire al freddo.

A meno che il rifiuto non orienti
il loro desiderio. Farsi fuoco

forare il muro
e vivere.

*

Casa di sabbie

I

Estate, grazia fugace su una riva nascosta.
Libero dal tempo, paziente, vaghi
innamorato di te a te stesso abbandonato:
donne e licheni al tuo passaggio.

Amore che si spoglia di albe arboree
riva dove il mattino approda come un crimine!
Le sabbie fanno della spiaggia una vetta
i ricordi di ieri hanno l’azzardo del cielo.

II

Paese su cui le piogge si acquartierano al sole
dove fucine d’acqua ardono un arcobaleno:
dardeggia ombra d’uomo sulle saline
ombra taciturna, speranza senza grida.

Le palme, audaci nel silenzio, fuggono
l’ardore della solitudine – il deserto
rimonta sui fiori. Tutto vive tra paura
e desiderio ed esita l’amore che con
la sua ferita avvelena il giorno.

Notte: contrada di carneficina e obbrobrio
di larve che predicono all’infinito il futuro
nei cieli dove il sempiterno nibbio riposa.

III

Navi, erranti dell’immobilità
soltanto voi trattenete l’acqua smossa
dai fianchi, confortate la linea dello sguardo.

Temete l’alba colta dopo barbariche piogge
che annega nel sudario della prima voce:
chi è capace di bere quest’acqua prima
che la terra la seppellisca?

Morte bellezza gloria eternità! Il lavoro
dell’agronomo nello spazio che scintilla:
quando germoglia il sale svanisce ogni dolore.

IV

Finalmente: la parola che vince la tua assenza –
donna, tu sei il mare infante, sei l’ancora
nei nidi della notte levi il sale dai corpi.

Appare l’oceano, veglia di enfiati giardini

il tuo volto sradica l’uccello
dalla nuda terra che dilapida
il seme del mare – frutteti

ghiacciai, impura mota che fermenta
sotto la schiuma: osserva il giorno
che disereda ogni volto.

Oh, oceano, calmo come un sottobosco!
Il giorno, lebbroso d’ombre
Pasqua è la sua amante.
Il sole riposa in una dolce crudeltà.

*

Il corpo del nemico
è orizzontale

si è svuotato
di ogni fatto

alcuni lo pretendono
altri perdonano

qualcuno sputa.

Questo è il nostro orizzonte:
farsi spazio.

*

Notte

Fosse stato il cavallo a cercarci
per galoppare nelle acque del mare –
o per consegnare il suo corpo
alle nostre carezze e ai nostri denti.

Fosse il toro, giunto per la battaglia
ad armare le corna.

O quel branco di rocce molate dal mare…
non è più minerale il volto
che attraversa le acque.

I cadaveri non chiedono nulla
se non una notte –

notte di crimine e di assassinio
notte di lacrime e di rimorso.

Forse la turba viene dalle paludi
si erge e palpita, essuda dal silenzio
e ci segue ovunque
come una madre incestuosa.

Muri senza trombettieri – grida
che derubano la stanza – silenzio
e orrore. Ma morire

può essere una fatica
di sera
all’avvento della confessione.

Sotto il corpo delle donne che amiamo toccare
c’è uno scheletro – il suo calore ci sorprende
e il sale che ci chiama
dalle sue caverne grige.

*

Montagne

Dovremo lasciarle dove sono, alla loro sorte
queste montagne della terra
che hanno la forma di un seno
e di un respiro.

Dovremo lasciare che cresca la loro fronte blu
davanti a cui passiamo – noi, animati
da troppa furia e troppa carne.

Dovremo pensare a vivere del sole
negli aperti campi
quando sarà tardi
per rinascere

e rischiare la morte
sgranando i semi.

*

Quando il gallo grida
la carne e il sole

quando il cortile intero
grida dal suolo
dai gorghi del disprezzo

è legge che la notte
stabilisca un legame
con il ventre del terrore

i terrier lo sanno:
i corpi sono tremanti e morbidi
fragili come il trifoglio.

*

Distici

Il sole si accuccia
nell’istante più duraturo.

Violenta è la luce
come i denti dell’oceano.

*

L’acqua si è sposata
per divorziare subito dopo.

Il muro è affaticato
dal sole e dall’edera.

*

Il suo segreto:
la pupilla del purosangue.

*

Bere per azzardo dai prati
la rugiada delle case cantoniere.

L’oceano pesa
più di un libro.

*

È difficile mangiare
di fianco al padre.

Biancheria impilata:
impara come si muore.

Così, di tumolo in tumulo, il ragazzino
salta al suono delle campane.

L’estate è all’ultimo sforzo:
non maturare insieme a lei.

Anche la pietra si sporge
nelle labbra del vento.

Quando il fuoco si accalca
e pone le sue domande.

Gruppo MAGOG