30 Marzo 2020

“Mentre tutto cade”. Andrea Caterini e Andrea Di Consoli raccontano una poesia italiana contemporanea. Umberto Fiori: tornare a nominare le cose, come fosse la prima volta

Dopo tutti quegli anni sempre insieme,
sempre in tanti a vedersi, a fare
e disfare, e discutere, sono salito
sull’extraurbano delle sei e venti
del mattino, pieno di gente,
e lì mi ha tolto il fiato la meraviglia
di ritrovarmi senza compagnia.

È stato – mi ricordo – in quella via
che va tra lo scalo merci
e i primi prati, con la neve alta
più di un metro: un sollievo tremendo
mi lanciava nel nero della mattina
con tutti. Schiena a schiena, gomito a gomito,
tra due schizzi di fanghiglia.

Ogni fermata
sentivo un odore nuovo
salire, farsi largo. Dopo ogni svincolo
un altro campo bianco scivolava
sotto la nebbia. In mezzo alle guance e ai baveri
c’era silenzio più che fuori, nei fossi
pieni di neve. Tutti i bei discorsi
che avevo ancora in testa,
da un palo all’altro li perdevo.

O erano loro, invece, che mi perdevano.
E infatti eccoli laggiù
a sbracciarsi, a gridare
per richiamarmi indietro, come da terra
i parenti richiamano il bambino
che sul materassino, in mezzo al mare,
non sente più, non risponde.

Più il vento mi spingeva verso il largo
più m’incantavo a cercare
la luce del fondo.

Umberto Fiori

Fondali, da Tutti, Marcos y Marcos, 1998

*

Quando penso alla poesia di Umberto Fiori mi viene in mente sempre una parola: “esercizio”. Con questo non voglio certo affermare che le sue poesie siano appena dei tentativi. È vero invece il contrario, e lo dimostra la solidità – tematica, oltre che dei mezzi espressivi – di una ricerca che si perpetua di libro in libro, come una forma di resistenza. Penso, quando scrivo “esercizio”, a qualcosa, verrebbe da dire, di più spirituale. Nessun ascetismo in Fiori, ma una volontà di decostruzione. Quello che la poesia di Fiori vuole decostruire non sono altro che le pose della lingua (o, a dirla con Wittgenstein, dei “giochi linguistici”) – pose che coincidono poi con quelle che si assumono anche nella vita. A Fiori interessa il mondo così com’è. Nessun desiderio di cambiarlo o trasformarlo; nessuna polemica contro il contemporaneo e più in generale la modernità. Fiori osserva le case, i treni, le strade, ma anche una lavatrice, un bricco con il latte e tutti gli oggetti di cui facciamo uso comune. E l’esercizio è esattamente questo: fare della poesia una possibilità; la possibilità che il mondo, e la realtà nella sua forma oggettuale, torni a essere quello che è, si riappropri del suo vero nome. Tornare a nominare le cose, questa è la più grande scommessa di Fiori. Nominarle come lo si facesse per la prima volta, senza tutti i nostri giri di parole, senza tutte le nostre intenzioni, quasi senza di noi. Quell’esercizio allora è una spoliazione del soggetto: un soggetto che, per tornare a nominare, deve nutrirsi dei nomi e pronomi che non gli sono propri. Ma Fiori sa pure che anche questo tentativo potrebbe essere un’altra falsificazione, che tutto questo sforzo potrebbe pure essere un’altra possibilità di discorso che non svela nulla. Per questo nei suoi racconti poetici si incontrano spesso similitudini. Non c’è forse congiunzione modale più frequente in tutta la sua opera del «come se». Porsi un passo di là della lingua per cercare una lingua che nomini, che dica le cose per quello che sono. Ma quel passo in là, una sorta di isolamento del soggetto, è un modo per Fiori di tacere, di non dire, di far crollare tutte le parole fintanto che la frase, quella sola, dica la cosa in modo nuovo. Si tratta però di un esercizio, e Fiori sa perfettamente che non potrebbe essere altrimenti – lo dimostrano le stesse similitudini, lo dimostra lo stesso «come se». E si leggano le ultime due strofe di questa poesia tratta da una delle sue raccolte più riuscite, Tutti. Quel movimento di allontanamento da «tutti i bei discorsi» che mano a mano pare si stiano perdendo completamente, nonostante quelli, i discorsi, si sbraccino per riportare indietro il soggetto, lo sta facendo navigare verso un territorio in cui la lingua che si è abituati a usare non basta più. Quel territorio è una regressione. Una regressione nella similitudine. Una regressione che lo riporta all’infanzia. Ma non alla propria, in quanto soggetto, di infanzia, ma un’infanzia che può appartenere a «tutti», quella in cui, essendoci il mondo sconosciuto, lo si può nominare nella sua meraviglia, perché per la prima volta nominato e quindi per la prima volta, dentro di noi, realmente esistente. Ma se lo si fosse nominato davvero come la prima volta non ci sarebbe stato bisogno della similitudine, o da quella similitudine Fiori sarebbe uscito, avrebbe nuovamente parlato, pure con una lingua che con tutta probabilità non avremmo saputo comprendere. Lo esprime perfettamente in un’altra poesia della raccolta, Perdere: «Pensavo, a volte,/ a cosa avevo perso./ Mi pareva talmente roba da poco/ che è già dir troppo dire:/ non era niente». Questo però è il senso dell’esercizio: il tentativo di dire nuovamente il mondo è appunto una pratica che è necessario ripetere quotidianamente perché i «bei discorsi» ogni giorno sbracciano, ci chiamano, sono il canto delle sirene della nostra vita.

Andrea Caterini

*

Credo che nessun poeta italiano abbia compiuto nella propria opera un “discorso” così ostinato sugli “altri”. Il tema dell’alterità è il tema cruciale dell’opera di Fiori. Sin dalle prime raccolte colpì immediatamente quello stare del poeta in mezzo agli altri, persuaso che solo in questo sentire poteva avvenire una saldatura possibile tra religiosità, politica e letteratura. Ho molto riflettuto, negli anni, su questo aspetto della poesia di Fiori, e mi sono convinto che il tema dell’”alterità” sia davvero il più complesso della letteratura e dell’etica, perché su questo terreno si compie la vera “scelta” della vita – e dunque mi sono convinto che le vera grande sfida poetica di Fiori sia anzitutto di natura etica. Cosa sono gli altri? Chi sono? Quanto li sentiamo? Quanto ci smogliano? Quanto riusciamo, nei nostri limiti, ad ascoltarli? Seguendo passo dopo passo questo mescolarsi con gli altri, con i voi, con i tizi, con i tutti, ecc., mi sono accorto che in Fiori sono predominanti sentimenti come lo stupore e l’abbandono. Per quanto Fiori non si nasconda i rilievi umorali, conflittuali e ispidi della natura umana, sempre, in lui, prevale questo bisogno di mescolarsi, di stare “gomito a gomito”, di sentire, spero di dirlo bene, il piacere accecante dell’uguaglianza. Ma è un piacere che arriva solo in talune circostanze, quando la realtà, all’improvviso, sembra entrare in una dimensione eterna. La poesia “realista” di Fiori è piena di “miracoli”; sono rari momenti in cui anche le periferie più sgraziate e i luoghi più purgatoriali della vita quotidiana metropolitana entrano in una sospensione magica, quasi di tempo che si arresta. In quegli istanti, che seguono i culmini degli sgomenti della vita di tutti i giorni, ogni cosa transeunte sembra pietrificarsi in uno sguardo che esce fuori di sé e intuisce, fosse anche per soli istanti, la perfezione di questa comunione, la sacralità dell’esserci, il miracolo, appunto, di essere pienamente con gli altri, come gli altri, accomunati da un destino che annulla tutti i destini individuali. In quel momento il poeta è pienamente nello stupore e nell’abbandono, ed è nel punto più alto del suo sentire – che per Fiori significa sentire “gli altri”. Anche il suo dire piano, la sua lingua semplice e limpida, a me sembra frutto di una ricerca etica più che poetica, ovvero di un bisogno di stare sempre in un luogo affollato, perché solo in questa folla, solo per strada, solo su un autobus stipato di corpi Fiori può avere simili “illuminazioni”. Il superiore sentire di Fiori piega la solitudine alla sua condizione di prigione individuale, e la scioglie in un calore fraterno, che è il più eroico atto di resistenza spirituale che io conosca. Dunque terminata la stagione degli abbracci e dei “gruppi”, rimangono queste possibilità estreme della maturità. Questo sentire “gli altri” è sì un momento di sospensione magica, ma è anche un momento di duro realismo filosofico, perché noi tutti siamo gli altri, noi tutti siamo dei tizi, noi tutti siamo gente e folla che si accalca negli autobus. Ecco perché la poesia di Fiori è più insostenibile di quanto sembri a prima lettura: perché c’inchioda a quello che siamo e ci coglie nelle pose comuni; e anche quando ci solleva e ci pietrifica per degli istanti in un’improvvisa eternità, lo fa sempre con la consapevolezza che siamo più uguali agli altri di quanto crediamo. Sembra facile, ma accettarlo è difficilissimo. Nessun’etica è data senza quest’umiliazione dell’io.

Andrea Di Consoli    

*In copertina: Umberto Fiori in un ritratto fotografico di Dino Ignani

**“Mentre tutto cade” ha raccontato una poesia di:

Beppe Salvia

Valerio Magrelli

Salvatore Toma

Antonella Anedda

Dario Bellezza

Giovanni Raboni

Giuseppe Conte

Patrizia Cavalli

Milo De Angelis

Stefano Simoncelli

Mario Benedetti

Gruppo MAGOG