“Ciechi come le bestie appena nate”. Su Rilke & Cézanne
Arte
Isabella Bignozzi
La fotografia non potrebbe ritrarre uomini più diversi. Siamo nel 1957: André Malraux, già alto ministro di De Gaulle, ha una camminata marziale, il volto incavato, taurino. L’altro è un uomo lieve, magrissimo, sembra passeggiare sospeso, ha un corpo d’acqua. Jean Grosjean è più giovane di Malraux di undici anni, è nato quattro giorni prima del Natale del 1912; nel 1946 Gallimard ha pubblicato il suo primo libro in versi, Terre du temps, insignito dell’effimero (durò quattro edizioni, lo vinse anche Jean Genet) “Prix de la Pléiade”: in giuria, insieme a Malraux, spiccavano Sartre, Queneau, Albert Camus, Maurice Blanchot.
Grosjean ha percorso un’esistenza diametralmente opposta a quella di Malraux. Ragazzo, alterna gli studi da agronomo all’amore per la filosofia; nel 1933, quando Malraux vince il “Goncourt” con La condizione umana, entra in seminario. Viene mobilitato in Libano, insegna in Siria, Palestina, Egitto e Iraq; lo affascina l’eremitaggio. È un uomo mite, ma dall’ispirazione leonina. Nel 1950 molla il sacerdozio, si sposa, si ritira ad Avant-lès-Marcilly, un villaggio che conta un centinaio di abitanti, nella regione del Grand Est. Lì istituisce una propria disciplina cenobitica. Traduce i profeti biblici (1955) e i tragici greci, Eschilo e Sofocle (1967); traduce l’Apocalisse (1994), il Vangelo di Giovanni (1988), il Corano (1979). Sembra che tutto il sacro sia sulle spalle di questo uomo fragile, vitreo, che non ha paura di vivere come il sole.
Tutti i suoi libri vengono pubblicati da Gallimard; aveva conosciuto il figlio di Gaston, Claude, futuro patron della casa editrice, in prigione, durante la Seconda guerra, in uno stalag in Pomeriana, dove lo avevano costretto i tedeschi. Anche Malraux lo conosce in un campo di prigionia, a Sens. Secondo le testimonianze, Jean Grosjean viveva la reclusione come una prova, con gioia: non sopportava i lamenti né i delatori.
Figura mitica della cultura francese, Jean Grosjean, morto nell’aprile del 2006, è stato a lungo ignorato dalla nostra editoria: troppo arduo il suo dire, troppa sapienza sparsa nei suoi libri. Nel gennaio del 2023 “Poesia”, la rivista stampata da Crocetti (numero 17, nuova serie), ha dedicato un servizio “all’opera del grande poeta, inspiegabilmente poco conosciuto in Italia”: Annalisa Crea ha tradotto una silloge da un lavorio lirico durato oltre sessant’anni, costellato da libri straordinari come Fils de l’Homme (1954), La Gloire (1969), La rumeur des cortèges (2005). Cruciale, in Grosjean, è una cruenta semplicità, l’agnizione ignea, dalle labbra infuocate, l’inseguimento – più che la sequela – di Dio. Alcuni versi di questo poète de l’absolu, come lo dicono,recano una bellezza severa, regale:
“Io ti porto a mo’ di rose nell’abisso
questi giorni di terra ai quali fui invitato:
se mi sono rigato le mani di sangue
è per paura d’esser preso per poeta”.
Il carisma di Grosjean, tuttavia, si esplicita nei poemi in prosa dedicati ai grandi personaggi della Bibbia: Pilato e Giona, Sansone e Samuele, Elia, Adamo ed Eva. Uno di questi, il più possente, Le Messie – edito cinquant’anni fa e in nuova edizione nel 1987 – è ora pubblicato dalle Edizioni Qiqajon, nella traduzione di Emanuele Borsotti, con un testo introduttivo del cardinale José Tolentino, attuale prefetto del Dicastero per la cultura e l’educazione in Vaticano. In molti hanno tentato di impastoiare Cristo nella formula del romanzo. Il rischio è la kippah ideologica (Il Vangelo secondo Gesù Cristo di José Saramago), l’apocrifo sfoggio d’ingegno (L’ultima tentazione di Cristo di Nikos Kazantzakis), lo sdegno da biblico flâneur (l’orrido Vangelo secondo il Figlio di Normar Mailer). Gesù flagella chi osa ridurlo a pappa letteraria: permette, semmai, il transito per personaggi secondari (il Barabba di Pär Lagerkvist e il Giuda intuito da Giuseppe Berto nel suo sinistro capolavoro, La Gloria). Grosjean affronta la dura via tra botri lirici e alto lignaggio sapienziale. Il suo Gesù che “camminava sotto le stelle”, è risorto da poco, sbigottito, in viaggio tra trasalimento e fallacia.
“Senza mangiare né dormire, Gesù frequentava in segreto i luoghi che erano stati suoi e dove pensava di ritrovare il cammino verso il suo Dio, quel cammino che era stato doppiamente offuscato dai tormenti della morte e dalle sorprese della resurrezione”.
Non è un Gesù felice, quello tratteggiato da Grosjean: gli astri sembrano chiodi, martirio celeste, i volti dei discepoli una masnada di sconosciuti. Anche la resurrezione è maculata dal frainteso:
“Il Messia trovava il popolo ancora più colpevole dei re, perché se il popolo avesse meno desideri, ci sarebbero i re?”.
I rapporti tra Dio e Gesù sono rischiarati da questa frase: “un padre non ha volto per il figlio, perché è il figlio a essere il suo volto”. Un libro così intimo – poeta temerario chi si avventura nel cuore del Messia – va letto a voce alta, al fuoco di una comunità. Ho l’impressione che insegni qualcosa di analogo, ma di più drastico – perché sorretto da un sotterraneo bisbiglio – della “Leggenda del Grande Inquisitore” incastonata nei Karamazov.
Come “lettore” per Gallimard, Jean Grosjean ha fatto pubblicare i libri di Thierry Metz – pubblicati in Italia da Edizioni degli Animali, Il Ponte del Sale, Interno Poesia – e di Alexandre Romanès, gitano, equilibrista, domatore di fiere e fautore del circo che porta il suo nome. In calce a Il Messia, le Edizioni Qiqajon hanno pubblicato una serie di Spigolature su Grosjean redatte da un suo discepolo, Christian Bobin, poeta d’immacolato talento. “Jean Grosjean è il tesoro del pensiero occidentale in ciò che questo ha di più profondo, di più segretamente orientale”, scrive Bobin; e poi: “La profondità di Grosjean mi travolge. Si direbbe Rimbaud con la scienza di Abelardo”. Frasi suggestive. In verità, Grosjean ha stretto un sodalizio indimenticabile con Jean-Marie Gustave Le Clézio, Nobel per la letteratura nel 2008. Insieme, hanno fondato una delle avventure editoriali più straordinarie che il secolo ricordi. La collana “L’aube des pauples”, stampata da Gallimard tra il 1990 e il 2007, ha allineato “i testi fondamentali delle grandi civiltà del passato”: trentasei libri di perentoria magnificenza, che radunano i “testi sacri dell’Africa nera” e le “epopee dei kirghisi”, il Memi Alan, poema epico dei curdi, e “i canti degli Ainu”, l’Edda di Snorri, l’epopea di Gilgamesh, il Popol Vuh, i racconti dei montanari del Tibet.
Le Clézio ha scritto un memorabile ritratto di Grosjean:
“Nessun uomo manifesta una tale rispondenza tra ciò che è e ciò che scrive, nessun uomo sa guardare al mondo con un tale distacco e, insieme, con un tale trasporto amoroso”.
Diceva che Grosjean era un grande camminatore, un passeur, uno di quelli che passano i confini con sacra scaltrezza. Bisogna tornare alla fotografia con Malraux per capirlo. L’uomo di mondo è reso pesante dal potere che porta, dall’acquisita fama; l’altro è lieve – più feroce dunque. L’amicizia, a quell’altitudine, non conta più nulla.
**
Nel 1982, nella stessa collana Gallimard – “Hors série Littérature” – in cui è pubblico “Le Messie”, Jean Grosjean pubblica “Élie”, di cui qui si dà traduzione di alcuni passi, finora inediti in Italia. Così la ‘quarta’: “Romanzo d’avventura, poesia, meditazione filosofica? Un libro in cui una scrittura magica fa rivivere i colori di una storia antica. Elia il Tisbita, il terribile nemico del re, che predisse a Jézabel che sarebbe morta divorata dai cani, il massacratore dei 450 profeti di Baal, il distruttore di centinaia di soldati, responsabile di carestie e siccità… Dimentichiamo il volto del profeta in collera. L’Elia di Jean Grosjean non uccide i falsi profeti – piange. Si identifica con le stagioni. Vive “in una perenne cascata di istanti”. La voce di Dio è per lui sussurro, musica, brusio di foglie. In preveggenza, gli sarà donato di ascoltare le parole ultime: Elia, Elia, perché mi hai abbandonato?”.
I
Elia si è appisolato sotto gli alberi. L’angelo dei pergolati posa sulla sua pelle l’ombra del fogliame. Flebile bava d’angelo, scuci le ombre dalle palpebre di Elia… ma Elia non apre gli occhi. Elia sa di essere nel torto e l’angelo non si spaventa.
Quando Elia si reca al vicino villaggio, fa una lunga deviazione. Ama vedere il cielo appoggiato alle estremità della terra. Un lavoro d’occasione gli permette un letto per la sera, in una mansarda dove guarda il giorno svanire, passo dopo passo. Pensa ai genitori che hanno camminato nel riverbero del cielo. Ma ora che il re fa scintillare il suo fasto, bisogna vivere appartati, di lato, per accorgersi che è luminoso l’alto.
Il re Achab potrebbe non essere un cattivo re – ma è troppo re. È come una statua che simula una presenza. Un re può rendere servizio, chi offre un servizio può diventare re, ma un re non è un dio.
Al mattino, Elia torna sul sentiero. Vede la vecchia cappella costruita sul fianco di un burrone – vi entra. Tutto il silenzio delle montagne sembra riassumersi lì, in una sorta di enorme e segreta benevolenza.
Raggi di sole crollano dalle fenditure, sfiorano l’indecifrabile fregio, unico ornamento del sito: SATI NIRTA TAEBAT CNAS ATI SATCI DENEB.
Quando i raggi sfregano il pavimento, Elia si riscuote, sente il vento passare di fianco all’edificio. Esce, e il vento lo accerchia: il fregio gli benda l’anima e lui sceglie di scendere in città.
Cammina lungo siepi di convolvolo. Convolvoli, fratelli del suo cuore. I cortigiani disprezzano queste fragili corolle. Recano un’orma blu nell’anima e il loro stelo si impenna a spirale, come una preghiera.
*
II
Elia arriva in città per vie secondarie. Le finestre scintillano, zebrate da viandanti multicolore. Bisogna attendere l’udienza del giorno seguente.
Lenta è la notte alle finestre del dormitorio, lenta la stella che si abbarbica tra i rami e veglia fino all’alba. Alla genesi del giorno, si sfilaccia in fuliggine.
Elia è alla porta del re: Sire Achab, viva Dio nostro Dio, ma da oggi sarà mia colpa se ci sarà pioggia o rosata rugiada sui campi.
Il re alzò le spalle: Ancora un pazzo. Avanti il prossimo. (Qualcuno fischia).
Elia lo vede e non pensa a nulla. Elia si ritira senza gioia ma in campagna alcuni alberi lo scortano. La fronte nel cielo, l’ombra alle sue calcagna. Sussurrano e tacciono; quando il vento si alza, sistemano le spalle, cantano. Di notte, dormono in piedi, sognano ad alta voce. Gli uomini sono occupati altrove.
Il giorno dopo, Elia guarda davanti a sé: la strada svolta, si nasconde. Dietro di lui, una bruma cela gli spazi lasciati alle spalle, i giorni appena oltrepassati. Resta soltanto l’oggi con la testa coronata di rovi, gli occhi così puri, prossimi al cielo.
*
III
Elia vive sulla riva di un torrente in una valle remota. Lì trova grani d’erba e bacche. Condivide con i corvi ciò che i corvi rubano dalle fattorie. Si abbevera ai fiumi.
L’acqua canta sulle pietre lucide. L’acqua trascina nel corso una limpidezza strappata alla luce del cielo, trasparenza che permette di assistere, in fondo, a un’estasi di sabbie.
Elia dorme in una cavità della roccia, sopra una pozza punteggiata da ontani – il torrente, lì, sembra dormire. All’alba, Elia scende presso la pozza.
Quando l’alba riempie il cielo, l’acqua si fa chiara come un’anima. I pioppi si accendono. Il freddo li fa rabbrividire.
Elia sale dalla riva, osserva la pallida luna dissolversi nel pallore del cosmo. Uno stormo di uccelli bordeggia il cielo.
Ben presto, l’estate regnò senza indulgenza. Assumeva lo stile delle grandi estati della storia. Il sole depaupera le rocce di ombre. L’erba si sfalda. L’aria è stagnante.
Elia cerca rifugio in una terra desolata. La malvarosa appassisce sul tronco di un vecchio albero. il sole fissa il prezzo. La pace è il suo prezzo. L’uccello è muto. Gli insetti anche. L’abisso verticale del cielo.
Jean Grosjean
*In copertina: Bernardino Luini, Cristo tra i dottori, 1515 ca.