21 Giugno 2018

Ooopsss, per scrivere un libro guadagno molto meno di una badante a nettare il sedere di mia nonna. Ecco perché questo Paese ha preferito la morte (e non ci sono più gli imprenditori eroici di una volta)

In un prossimo futuro salirò un paio di rampe, andrò a bussare. Chiederò lavoro a lei. Si chiama ‘Tania’, che è il diminutivo di Tatiana, la bella di Onegin, le dico, strizzando l’occhio, con il remoto intento di metterla a novanta. Muscoli facciali fermi, la fermezza di chi è nato a Est, al di là dell’Adriatico, e ha l’inverno a concimare l’anima. Cito Aleksandr Puskin. Abbozza un sorriso. Tania è ucraina, è rimasta incinta a diciassette anni, ora, da poco, è nonna. Ha mollato il marito, che si ubriacava e faceva il dongiovanni, mi dice – in realtà dice, e si scopava altre, che è come dire, non osare provarci con me. Ha due figli. Il primo, che ha 28 anni, vagabonda da un lavoro all’altro; la figlia, ventenne, studia, ha avuto un figlio l’anno scorso. Il papà di Tania insegnava economia all’università. “Non volevo venire in Italia”, mi dice. Ma una donna che preferisce l’autonomia e lascia il marito, poi, si deve guadagnare da vivere. Quindici anni fa Tania ha indirizzato i figli verso i genitori ed è venuta in Italia. Prima Napoli, poi Reggio Emilia, ora sta a Riccione. Nel piccolo appartamento abitano in quattro. Tania cura un paio di vecchi, nel tempo libero fa le pulizie, manda i soldi a casa, per i figli, un paio di anni fa ha comprato un appartamento in Ucraina dove ora abita la figlia. Per un certo periodo, con rude grazia, si è occupata di mia nonna. Mezza giornata. Tutti i giorni. Ottocento euro al mese. Stava al piano di sopra. Quando c’era bisogno, c’era. Ottocento euro al mese. Faccio i conti. Recentemente – sono bravo, fortunato e sinuosamente idiota – ho strappato un contratto a un editore. Ottocento euro. Per curare due libri. Revisione della traduzione e introduzione. Un paio di mesi. Ho strappato anche un altro contratto. Ottocento euro. Per scrivere un libro. Mi ci vorranno almeno sei mesi. Ottocento euro diviso per sei fa 133,3 (periodico) euro al mese. Poco meno di 5 euro al giorno. E chi lo dice ora ai miei figli che il papà deve alienarsi per sei mesi a scrivere il romanzo epocale per 5 euro al giorno, senza nessuno che gli ronzi intorno a distrarlo? Come sempre, scriverò di notte, leccando lo stipite del giorno, scartavetrando i minuti all’alba. Tania ha l’inflessibile volontà delle donne dell’Est: perché fai questa vita?, le chiedo, che ingenuo. Perché non ne esiste un’altra, mi dice. Le donne dell’Est sono ossessionate dal denaro – il potere di un uomo si misura dalla capacità che ha nel fare soldi. La signora che ogni tanto fa le pulizie a casa mia si chiama Luda – diminutivo di Ljudmila, Ludmilla – e mi dice, ma cosa continui a scrivere se guadagni così poco, non vuoi bene alla tua famiglia? Ha ragione. Tra poco chiederò lavoro a loro, a Tania e a Luda, che con vigore assoluto fanno soldi. Fanno le pulizie, puliscono il sedere ai vecchi. E fanno soldi. Io faccio grandi speculazioni, mi torturo, studio, annaspo, annuso l’eternità. E sono un poveraccio.

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La misera vicenda personale mi serve per impalcare una riflessione generale. L’Italia ha perso la sua identità, non è stata in grado di tutelare la propria natura. Qual è la natura dell’Italia? Dante, che ha scritto il poema più folgorante dell’umanità; Petrarca, che ha insegnato a poetare al resto dell’Occidente; Giotto, Raffaello, Michelangelo, Leonardo, Antonello, Tiziano, il Giambellino, che hanno insegnato a dipingere al resto del mondo. La natura dell’Italia l’hanno costruita sagaci cavalieri d’arme che avevano un unico desiderio: sopravvivere un attimo in più della morte biologica. E che sapevano una cosa molto semplice: soltanto l’arte sopravvive un attimo in più alla corruzione. Per questo, in modo estremamente pratico, hanno stipendiato gli artisti. Per questo, per dire, Sigismondo Malatesta, altrimenti una virgola sulla pergamena della Storia, un ferino accidente, è ancora ricordato: il suo nome è istoriato sul Tempio che gli ha edificato Leon Battista Alberti; il suo profilo è griffato da Piero della Francesca. Oggi. Invece. Scrivere è un lavoro per ricchi, per chi può permetterselo, per chi non ha famiglia e il suo unico mestiere è fare il figlio di papà. Già, perché. La situazione che vi ho descritto sopra è una rara prelibatezza. Di solito un editore pubblica il libro. Poi vediamo quanto vende. Guadagni in percentuale. La percentuale, di solito, è bassissima. Le vendite altrettanto. Ci vuole una costanza allucinata per perpetuare la pratica. Ma. I grandi imprenditori, oggi, se ne fottono della cultura: comprano l’ennesimo palazzo all’ennesima amante, pagano lo stipendio ai calciatori, badano al fatturato, che pezzenti, che miseria, che sguardo misero verso il futuro, che incapacità di avventarsi oltre l’ovvio. Pensate al gesto supremo degli Este che assumono Ludovico Ariosto per qualche mansione amministrativa ma soprattutto per scrivere l’Orlando furioso. Perché gli imprenditori, oggi, non aprono case editrici, non finanziano teatri, non stipendiano i poeti? Perché questo Paese ha perduto l’unica identità possibile? Perché continuiamo a occuparci di tutto tranne che dell’unico, dell’unica cosa per cui siamo grandi, l’arte? Perché gli chef ingrassano e i poeti muoiono di stenti? Perché bisogna erigere un codice eroico sulla contraddizione e sulla perdita per giustificare la nostra incapacità alla vita? Un grande Paese investe in grandi narrazioni, perché il resto del mondo sappia che è un grande Paese. Un grande Paese esalta i suoi pensatori, apre università dove si faccia ricerca lirica, vince il male con la poesia.

Il culo alla nonna, alla fine, l’ho pulito io – non ho i soldi per pagare l’appartamento ucraino di Tania. Prima le cambio il pannolone, poi mi metto a scrivere il libro. Quando ne discuto con l’editore, costui, che ingrassa con le stronzate e con gli stronzi, non capisce; l’editor, ingrassato dallo stipendio fisso e da migliaia di libri inutili, pensa al possibile lettore – impossibile – che idiota; se cerco qualche finanziatore costui mi guarda come fossi un matto. Ma fai davvero?, mi dice, dicendomi che il bilancio è già chiuso da un pezzo, da un millennio, ma perché non fai altro?, dici libro e si toccano le palle, porta sfiga, meglio finanziare un festival della piadina, un motociclista, e assumere qualche disabile in azienda, così l’immagine (sono bravo&buono&giusto) si perfeziona. Se ne parlo con un accademico, costui mi guarda dall’alto al basso: lui ha la sicurezza del ranking universitario, è a posto, non esiste cultura fuori dal paddock dell’accademia, un ring di zombie, sono più rachitici di una fetta di marmo. Ma vi dirò, carissimi amici, che questa povertà mi elettrizza: nessuno stipendio mi risolve, sono un urlo, una galoppata nel vuoto. Siete voi, i morti. (d.b.)

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