Della deificazione del malandrino in mandarino della scrittura, m’importa nulla. Dico: l’anatomia dell’orfano, il poveretto seviziato a Mettray, il ladro, il picchiatore, il malnato, il milite della Legione Straniera, il provocatore percotente. Insomma, tutto sommato, di Sartre che imbraccia Jean Genet come manganello per ficcarlo nel didietro della letteratura imborghesita, non m’importa. Il genio di Genet, invece, va maneggiato per scuoiare la nostra presunzione narrativa, perché farsi menare da lui fa sempre bene.
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Se la letteratura russa va nel sottosuolo dell’anima umana, quella francese adora verificare le fogne. E infognarsi nell’ano. Dal Divin Marchese alla miseria elettrizzata da Hugo, dai meschini detti da Balzac alla macelleria verista di Zola, dalle tenebre fecali di Céline allo scempio morale di Gide e Johuandeau alla santificazione del corpo di Genet. Letteratura carnale, come abominio.
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Di Jean Genet amo l’opera più che il personaggio – e il personaggio, semmai, quando si ammazza, piglia il sasso della fama e se lo sbatte in faccia, fino a deformarsi. Perché questo va fatto: ostacolare se stessi, rompere l’immagine che gli altri hanno di noi, spaccare lo specchio e usare triangoli di vetro per ornare di schegge la carotide. Nato nel 1910, Genet muore nel 1986, in aprile. I brani trascritti qui sotto, tradotti, riguardano una intervista trasmessa dalla BBC il 12 novembre 1985, condotta da Nigel Williams. La trasmissione, mimando il testo agiografico di Sartre, va in onda come Saint Genet.
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“Oggi inorridisco al pensiero di contenere, avendolo divorato, il più caro, il solo amante che mi amasse. Sono il suo sepolcro. La terra è niente. Morto. Le verghe e i verzieri escono dalla mia bocca. La sua. M’imbalsamano i polmoni, così spalancati. Una regina claudia gonfia il suo silenzio. Le api sciamano dai suoi occhi, dalle sue orbite dove le pupille sono colate via, liquide, sotto le palpebre flaccide. Mangiare un adolescente fucilato sulle barricate, divorare un giovane eroe non è cosa facile. Amiamo tutti il sole. Io ho la bocca insanguinata, e le dita. Coi denti ho lacerato la carne. Di solito i cadaveri non sanguinano, il suo sì”. Un brano di Pompe funebri. Genet scrive i grandi libri, da Notre-Dame-des-Fleurs a Journal du voleur tra 1944 e 1949, il resto sono altri che parlano di lui, lui che fa Genet, questa specie di ferita aperta sul ceffo della ‘società’.
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Mangiare. I grandi libri sono cadaveri che vanno divorati. Cadaveri che ritornano canoe.
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Sia lode al Saggiatore che ripubblica, con splendida spavalderia, Genet (Miracolo della rosa è tornato in libreria l’anno scorso, a cura di Alberto Capatti e nella traduzione di Dario Gibelli). Il problema è che ci vorrebbe più Genet per tutti. Voglio dire, faccio per dire, la mia edizione di Querelle di Brest e di Pompe funebri, accorpate in unico volume, è un Oscar Mondadori del 1984. Lo trovavi anche in edicola (per altro, mirabile la copertina di Ferenc Pintér). Genet serve per vincere le nostre ritrosie estatiche, per darsi il santo tormento, per dialogare con la morte, per tagliarci la lingua e vederla balzare sul tavolo, come un rospo.
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“Mi sporsi nonostante la folla per contemplare il fanciullo diventato, grazie al miracolo d’una raffica di mitragliatrice, una cosa così delicata, un giovane morto. Il cadavere prezioso d’un adolescente avvolto nei pannolini. E quando la folla ebbe raggiunto il bordo della bara, china su di lui, vide un volto affilato, pallido, un poco verde, il volto stesso della morte, ma così banale nella sua fissità ch’io mi domando perché mai la Morte, le dive del cinema, le virtuose della scena in viaggio, le regine in esilio, i re messi al bando abbiano un corpo, un volto, delle mani. Il loro fascino proviene da qualcosa di diverso da un’attrattiva umana, e, senza deludere l’entusiasmo delle contadine che volevano scorgerla al finestrino del vagone, Sarah Bernhardt avrebbe potuto apparire sotto forma d’una scatoletta di fiammiferi svedesi”. Le Opere narrative di Genet le leggete sempre per il Saggiatore, saggiate da ottimi traduttori; io mi ostino alla versione di Giorgio Caproni, perché mi esalta il poeta che traduce Char e Genet, Céline e Proust e Cendrars, che mette le dita liriche nell’impasto torbido.
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“Le rose hanno l’irritabilità, l’asciuttezza, la nervosità magnetica di certi medium”. Che immagine superba – la superbia del sovrano verbale. Genet converte la carne in aura, l’aura in talento di fango, il fine in sfinimento. (d.b.)
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Ho rischiato l’ergastolo, non pensavo di avere lettori. Credo che il mio profilo criminale narri di quattordici condanne per furto. Il che vuol dire che ero un ladro incapace, perché sono sempre stato catturato. Ero in prigione, ero rinchiuso. Ho rischiato l’ergastolo. Pensavo che nessuno avrebbe letto il mio libro. Pensavo di non avere dei lettori – ma dei lettori c’erano, evidentemente.
La famiglia è una cellula criminale. Fuggendo dalla famiglia sono fuggito dai sentimenti che avrei potuto avere per la famiglia e al sentimento che la famiglia avrebbe potuto avere per me. Sono completamente distaccato da ogni sentimento familiare. Secondo me la famiglia è la prima cellula criminale, la più criminale di tutte.
Le guardie si eccitavano a guardare. Nel penitenziario minorile di Mettray le relazioni tra i ‘fratelli maggiori’ e i giovani come me erano di sottomissione. Penso che lo spettacolo piacesse molto alle guardie. Diciamo che i primi spettatori della mia vita sono state le guardie. Si eccitavano a guardare.
Devi pagare tutto. I francesi mi hanno rifiutato mettendomi in prigione. D’altronde non volevo che questo: essere cacciato dalla Francia, fuggire dall’atmosfera opprimente francese, conoscere un mondo diverso… Quando sono stato catturato dagli sbirri è tutto finito. Quando la mano di un poliziotto ti piglia così… Beh, devi pagare per il piacere che provi rubando, devi pagare, devi pagare per tutto.
La Francia sconfitta da Hitler! Ero elettrizzato… Odiavo così tanto la Francia – e la odio ancora – che ero completamente elettrizzato dal fatto che l’esercito francese fosse stato battuto dai tedeschi. Era sconfitto dai nazisti, da Hitler, e io ero molto felice.
Il primo libro: scritto sui sacchi di carta. Il primo libro l’ho scritto su alcuni sacchetti di carta. Ho scritto le prime cinquanta pagine circa di Nostra Signora dei Fiori. Poi il tribunale mi ha chiamato per una audizione sul mio caso. Ho lasciato i pezzi di carta sul tavolo della cella. Il caposquadra, che aveva le chiavi, entra nella cella, la ispeziona, consegna al direttore quelle pagine. Quando la sera ritorno in cella, non trovo le pagine del romanzo. Il giorno dopo fui convocato dal direttore: mi affibbiò tre giorni di reclusione totale e sei giorni di pane secco. Dopo tre giorni di clausura, ho ordinato un taccuino, era nei miei diritti. Ho ricominciato a scrivere, di nascosto.
Prendo le distanze dagli umani. Mi sono sempre sentito separato, anche ora, separato da tutto. Preferisco restare a distanza dagli esseri umani.
Il teatro è mettere in imbarazzo gli spettatori. Non sono mai stato a teatro. Ho visto alcune opere teatrali, ma non molte. Il mio comportamento nella società è obliquo, preferisco sondare il mondo da una precisa angolazione. Il mio è stato un teatro di tipo nuovo? Non lo so. Forse era un teatro che metteva in imbarazzo. Ecco. Se mette in imbarazzo si può dire che è qualcosa di nuovo.
Preferisco Lenin ai “Sessantottini”. Quelli del Sessantotto si sono rivelati degli pseudo-rivoluzionari. Io sono dalla parte dei rivoluzionari, starei con Lenin, per intenderci.
Jean Genet non esiste. Forse, dopo tutto, sono un impostore che non ha mai scritto libri. Forse sono un falso Jean Genet.
Un anormale tra le norme. Vedi, siamo dentro una norma. Io sono seduto, tu mi interroghi, altre persone registrano per la BBC. Resto un emarginato e sono nella norma. Ho paura di stare tra le norme, questa cosa di entrare nelle case inglesi non mi piace. Non sono arrabbiato con te, che raffiguri la norma, sia chiaro: sono arrabbiato con me stesso che ho accettato di stare alle norme, e questo non mi piace per niente.
Sto aspettando la morte. Genet studiato all’università? C’è un tratto di vanità… e allo stesso tempo di dispiacere. C’è questo doppio imperativo. Non mi piace… Perché vuoi trasformarmi pure tu in un mito, perché? Io posso vivere ovunque, in Marocco come in Inghilterra… Intendi sollevare il problema del tempo? Bene, ti risponderò come Sant’Agostino: “Sto aspettando la morte”.
Jean Genet