05 Settembre 2018

Bartolo Cattafi, l’imperdonabile della poesia italiana: dialogo con Ada De Alessandri Cattafi

Fondammo, da ventenni, in una nottambula notte milanese – mai più verificatasi – insieme a Massimo Gezzi, ora studioso con l’alloro, un transitorio club di fan di Bartolo Cattafi. Il gesto era insieme critico e dandy: di solito i coetanei con la furia della poesia ti parlavano dei soliti nomi, Vittorio Sereni, Mario Luzi, Giorgio Caproni, Andrea Zanzotto. Tu sparavi, lì, Bartolo Cattafi, pronto a sfidarli, non è da meno di quel poker, e ti guardavano tra il torbido e l’allucinato. I nostri favori andavano per il Cattafi ultimo e definitivo, quello di Marzo e le sue idi, L’allodola ottobrina, Chiromanzia d’inverno, con quei versi affilati nel fuoco che ti segavano l’osso frontale (ricordo l’incipit di Dodici dicembre 1976, bellissimo: “Svuotata d’ogni senso la foresta/ sviscerata la folla delle cose/ polpe legnose pigne rami secchi/ inutili inerti/ inetti anche all’incendio/ aspetto a questo venti di dicembre/ chi già venne a sospingermi sul ciglio/ a buttarmi sul fondo degli abissi”). Di Cattafi mi piacevano due cose, in sostanza. La prima era che la sua poesia abitava nell’oltretempo. Era lì, pari a un sigillo, a un marchio celtico su pietra. Era inossidabile. La seconda è che Cattafi univa la gestualità linguistica senza per forza scadere nell’avanguardismo alla coerenza scenica, alla narrazione tattile, senza scadere nella fatua teatralità dei ‘lombardi’ di quelli che ‘scrivi versi come parli’. Che sontuoso equilibrista, Cattafi, refrattario a ogni didascalia. “La sua persona quotidiana era peraltro quella di un piccolo rentier siciliano trasmigrato al Nord e calato nell’avventura di un modestissimo appartamento della periferia milanese, a fare il poeta travestito da poeta, con tutto ciò che di pittoresco e di precario, di anacronistico e di lacerante, può accompagnarsi a una siffatta maschera. […] Pensavo alla sua vita impulsivamente disimpegnata in tempi che erano, per altri, di grigio e testardo impegno”, ha detto di lui Giovanni Giudici, in una dichiarazione dal titolo emblematico (Un poeta alla Hemingway). Ma era davvero così, Cattafi? Quando, anni dopo i miei vent’anni, incontrai Rodolfo Francesconi, già alto dirigente a Milano ora flâneur riccionese pronto a tutte le imprese purché inutili e sublimi, coltissimo, che fu amico di Cattafi, me ne scrisse così: “mi ha subito interessato questo uomo che aveva sei anni più di me, che non scriveva mai del passato, ma usava il presente e il futuro, che ogni estate girava il mondo o a raccogliere le fragole nelle campagne inglesi, o a bordo di navi mercantili o di baleniere, o nei suk arabi, in un tempo in cui i viaggi che noi potevamo permetterci erano limitati al nostro confine nazionale… che ha fatto conoscere a me e agli altri che frequentavano il bar Giamaica vicino a Brera (Luciano Erba, Vittorio Sereni, Giorgio Caproni, i suoi amici abituali) la birra Guinness e la Tequila, che dormiva sempre con una pistola carica sotto il guanciale”. Di quegli anni milanesi, nel 1972, Cattafi parlò in questo modo: “Tutto ricordo con nostalgia. La guerra era passata da poco, unʼondata di freschezza aveva invaso Milano. Quelli, francamente, erano tempi aperti alla speranza […]. E poi c’era la zona di Brera, con uno strascico di esistenzialismo in verità non molto cupo. Il Bar Titta, il Caffè Giamaica, la trattoria delle sorelle Pirovini in via Fiori Chiari (‘Per favore, signorina Elena, mi dia minestra e pietanza per 350 lire’ […]), i pittori veri e quelli falsi, le modelle-prostitute, i giornalisti, certi strani tipi, simili a uccelli di passo, che arrivano da ogni angolo del mondo; e poi diversi geni incompresi e arrabbiati che facevano tutto al tavolo: la bevuta, il capolavoro e anche la rivoluzione”. Cattafi, insomma, nell’indomita teca dei ‘miti’ mi si è appiccicato addosso, forse perché lui muore, marzo 1979, un mese dopo che nasco io, sempre a Milano, in quel dedalo di quartieri. Così, quando mi ritrovo in mano, parto del caso, un cofanetto elegantissimo, Cattafi artista, che tra l’altro raduna le fotografie scattate “durante il viaggio di nozze con Ada De Alessandri alle isole Shetland nel giugno del 1967” e altre, del 1972, sorprendenti, “durante una battuta di pesca al tonno”, nello stretto di Messina, piglio in mano la situazione e risolvo due cose. Primo. Di Cattafi si parla troppo poco, in libreria c’è nulla. Dopo le Poesie scelte edite da Mondadori nel 2001, per fortuna, pare che Le Lettere stia stampando la raccolta di tutte le poesie. Secondo. Per capire chi è Cattafi interpello la moglie, Ada De Alessandri, che dell’opera del poeta è custode e cultrice. (d.b.)

CattafiIntanto, le circostanze biografiche dell’incontro. Le chiedo come ha conosciuto Cattafi, cosa la ha affascinata di lui, in sostanza, che uomo era?

Ho conosciuto Cattafi nel 1966 mentre lavoravo a Milano, alla “Grandi Viaggi”, in Piazza Diaz. Passava spesso in direzione a visitare Ermanno Amori e il figlio Silvio. L’amicizia con la famiglia Amori e in particolare con Silvio, divenuto presto suo compagno di avventure — come si legge nell’affettuosa dedica de L’osso, l’anima — era nata dall’assidua frequentazione dell’agenzia turistica per l’organizzazione dei suoi viaggi. Ora lei mi chiede che uomo era. Posso dirle che Bartolo aveva un portamento elegante, un volto illuminato da uno sguardo acuto e ironico che osservava l’interlocutore con curiosità. Parlava poco, interrompendo i suoi silenzi con spiazzanti battute. È questo quello che mi ha colpito di lui, ma è stata senza dubbio l’impressione di tanti. Ricordo ancora le parole affettuose di Giovanni Raboni nell’introduzione alle sue poesie uscite per Mondadori nel 1990, quando parla di “grazia sicura e appena ritrosa”. Cos’altro posso dirle? È stato un uomo generoso, schietto, un buongustaio, un marito leale e un padre. E naturalmente è stato un poeta.

Come lavorava alle sue poesie? Intendo: Cattafi aveva bisogno di momenti di solitudine, compiva molti ‘patimenti’, molte versioni della stessa poesia, era agita da ‘illuminazioni’?

Da parte mia posso dirle soltanto come ha lavorato ai suoi testi dal 1971 in poi. Credo che il suo modo di procedere non fosse così diverso da prima, se non per il fatto che dopo anni di silenzio Cattafi si trovò ad affrontare una piena creativa davvero impressionante. Raboni, facendo un rapido calcolo, ha parlato di “più di una poesia al giorno” per quasi un decennio. Lui stesso, in un’intervista, usò un’immagine eloquente, paragonando la necessità della scrittura al “morso di una tarantola”. La fase creativa poteva avvenire in qualsiasi momento. Cattafi trascriveva versi un po’ dovunque: su foglietti, taccuini, agende, sui conti dei ristoranti, sui biglietti dei mezzi di trasporto. Ciò che seguiva non era un passaggio obbligato alla bella forma: tra la prima stesura e la versione definitiva di una poesia poteva passare molto tempo. Inoltre Cattafi aveva l’abitudine di rovesciare le carte anche all’ultimo momento, modificando radicalmente un testo considerato finito da tempo in fase di correzione delle bozze o durante le lunghe sessioni di lavoro con Raboni. Di sicuro la fase di revisione era meticolosa. La solitudine, invece, non credo che fosse una condizione necessaria, ma è naturale che in quei momenti Cattafi preferisse stare nel suo studio o in altri luoghi dove non doveva essere disturbato. Aveva una routine, questo sì, che lo portava a concentrare gli sforzi al mattino, in quella fase che lui indicava sui diari con la parola “meditazione”.

CattafiQual è a suo avviso la raccolta poetica più compiuta di Cattafi; e quella da cui bisognerebbe partire, per un neofita, per conoscere l’opera del poeta?

È opinione unanime della critica che L’osso, l’anima sia l’opera della maturità poetica di Cattafi. Si tratta del testo più apprezzato e più studiato. Ho saputo recentemente che il libro è stato al centro di una lezione della Prof.ssa Adele Dei durante un corso sulla poesia del Novecento all’Università di Firenze. Il prossimo giovedì, su «Sette» del Corriere della sera, Luca Mastrantonio proporrà alcune poesie tratte da L’osso. Dunque non servo io a confermare l’importanza del volume e il mio consiglio si rivolge altrove. Se dovessi portare la poesia di Cattafi di fronte a un pubblico di giovani lettori, sceglierei di leggere La discesa al trono, il libro uscito nel 1975, perché rappresenta il trait d’union ideale tra i due fulcri della poesia cattafiana degli anni Settanta, e cioè L’aria secca del fuoco, del 1972, e Marzo e le sue idi, del 1977. Ma a differenza di questi ultimi, La discesa al trono è un libro più lineare e coeso, e dunque adatto a chi si avvicina alla sua poesia.

Cattafi viaggia molto. E molto, artisticamente, sperimenta. Ho visto alcuni quadri, certe fotografia dall’Inghilterra e dalla Sicilia. Che attitudine aveva verso il nuovo e come questi aspetti – l’arte pittorica, i vagabondaggi – incidono nella sua concezione poetica?

Cattafi era un curioso in tutto e per tutto, e amava le novità. Non ci si deve sorprendere che la fotografia e la pittura lo abbiano assorbito molto a un certo punto della sua vita. Non si trattava di aspetti eccezionali. La separazione tra poesia e arte è solo apparente — cronologica —, ma come più volte è stato fatto notare, esiste un rapporto, finanche una continuità, tra questi momenti espressivi. Non è sbagliato dire che fotografare, dipingere, scrivere, viaggiare siano state esperienze complementari — a volte anche simultanee — di un’attitudine di ricerca che caratterizzava Cattafi in tutto quello che faceva. Le voglio raccontare un aneddoto, se vogliamo chiamarlo così, che riguarda il periodo in cui Bartolo si era dedicato alla fotografia. Non sceglieva mai le cose a caso: aveva un equipaggiamento molto specifico e possedeva molti volumi di fotografia, anche legati agli aspetti più tecnici. Quando fotografava, poi, Bartolo era talmente bulimico e ossessivo, ma per alcuni lo è stato anche nello scrivere. Insomma, arrivo all’aneddoto: durante un viaggio in Puglia, quello che dette origine alla plaquette Il buio, fummo invitati da Serena Vitale, allora compagna di Raboni, ospiti a casa del fratello. In quell’occasione Bartolo fece così tanti scatti alla cognata di Serena che quasi mi ingelosii! Questo per dirle di una sua chiara attitudine: quando qualcuno lo colpiva o qualcosa toccava le sue corde, Cattafi ne era assorbito totalmente.

CattafiI rapporti di Cattafi con l’ambiente letterario del suo tempo: di che tipo sono? Ricordo, ad esempio, la delusione, la rabbia, dall’essere stato escluso dall’antologia canonizzante di Mengaldo… Quali sono stati i maestri e gli amici, tra i poeti, di Cattafi?

Credo che, se Cristina Campo fosse ancora tra noi, potrebbe legittimamente accogliere Cattafi nella categoria degli «imperdonabili, estranei al contesto, al sistema che li racchiude». Come tutti gli intellettuali, ha avuto anche lui le sue simpatie e le sue antipatie, e la cosa spesso è stata reciproca. Oggi tante di quelle persone non ci sono più e non vale la pena di sottolineare dissapori o incomprensioni. Questo vale anche per l’antologia di Mengaldo, che rimane un lavoro importantissimo. Certo mi duole che Bartolo non sia stato incluso, ma non è da lì che passa il riconoscimento della sua opera. A partire dalle sue prime incursioni milanesi e grazie a Govoni, che lo notò e sostenne, Cattafi dagli anni Cinquanta agli anni Settanta ha conosciuto praticamente tutti i poeti e i critici che fanno oggi parte del canone novecentesco. Quando lei mi parla di amici, io non posso che pensare a chi l’ha sostenuto sin dagli inizi e fino alla fine. Allora, oltre a Govoni, voglio ricordare questi nomi: il prof. Nino Pino Balotta, suo primo lettore, Vincenzo Leotta, che fedele alla promessa fatta a Bartolo, ha per primo ordinato e catalogato la biblioteca e l’archivio dell’amico scomparso. Poi naturalmente Sergio Solmi, Vittorio Sereni, Giovanni Raboni, Vanni Scheiwiller. Ma creda che fare questi nomi significa ingiustamente escluderne tanti altri che hanno fatto parte della vita di Bartolo e che solo a pensarci, mi costringerebbero a fare l’elenco del telefono. Me ne conceda un altro paio: Luciano Erba, Marco Forti e Silvio Ramat. Ma gli elenchi, come sa, sono sempre ingiusti e incompleti.

Cosa resta da scoprire di Cattafi? Intendo, tra i materiali ‘spuri’, diari, appunti, lettere, cosa c’è di interessante, che può far luce sulla grandezza del poeta?

«Il resto manca»… recita la poesia conclusiva de L’aria secca del fuoco. Quello che “c’è” da scoprire, sarebbe meglio dire, è l’insieme della sua opera, e cioè leggere la poesia di Cattafi nella sua complessità e totalità. Mi dà sollievo il fatto che questo sarà finalmente possibile grazie a Nicoletta Pescarolo e all’editore Le Lettere di Firenze, presso il quale uscirà il volume che raccoglie tutte le poesie, curato da Diego Bertelli e con una introduzione di Raoul Bruni. A partire da questa nuova pubblicazione, mi sembra che ci sia la possibilità di “scoprire” Cattafi. Se poi mi chiede cosa resta di interessante da scoprire tra le sue carte, in concreto, che possa far luce sul poeta, posso dirle che è tutto a disposizione di chi voglia studiarlo, avendo ceduto nel 2012 l’archivio e la biblioteca di Cattafi al Centro Apice dell’Università Statale di Milano, che lo ha catalogato e reso disponibile alla consultazione. Lì ci sono i manoscritti e dattiloscritti, la corrispondenza e altro materiale sopravvissuto ai “roghi”. Aggiungo inoltre che sul sito www.bartolocattafi.it esiste una sezione dedicata alla traduzione delle sue poesie, con testo italiano a fronte, particolarmente interessante da consultare perché mancano studi sulla ricezione di Cattafi all’estero, che è stata invece molto ampia. Anzi, devo dire che fino a oggi, la traduzione ha rappresentato l’unico modo di leggere Cattafi in volume. Le faccio l’esempio della Francia, che nel giro di quattro anni ha visto uscire L’allodola ottobrina e Marzo e le sue idi nell’apprezzatissima traduzione di Philippe Di Meo. Mi auguro allora che la pubblicazione dell’opera di Cattafi e l’utilizzo dei materiali del sito portino a sfatare il mito del poeta anticonformista e isolato, a favore di uno studio serio del suo pensiero, del suo ruolo di intellettuale e di tutti i temi che animano da sempre la sua poesia.

*

Sfingi

Le sfingi erano poste appaiate
agli ingressi e lungo i viali
dei templi.
Per voi sfociate dall’ombra o dalla luce
per voi non vale preghiera o minaccia
per voi conta l’artiglio in piena faccia
e poi tornare volando appaiate
agli ingressi
agli alloggi lungo i viali.

 

Queste cose terrestri

Queste cose terrestri
che scoppiano tra i piedi come rose
le raccatti ammirato le porti
ai più alti ripiani
e perdi il lume degli occhi
non vedi
le altissime cose
cadute in frantumi.

 

Tabula rasa

D’accordo, amore.
Espungiamo dal testo perle d’acqua
su petali, le frange estese,
le bolle schiuma.
Le cose lietamente necessarie.
Togliamo anche
l’acqua l’aria il pane.
Giunti all’osso buttiamo
fuori dalla vita
l’osso, l’anima,
per credere alla tua
tabula che mai
avrà l’icona,
l’idolo,
la cara calamita?

Bartolo Cattafi

Gruppo MAGOG