“Loro bombardano la città. Io correggo poesie”: conversazioni con gli scrittori ucraini
Politica culturale
Ilya Kaminsky e Katie Farris
Cher Monsieur, attacca nella lettera dalla scrittura geometrica, regolare, con brevi sbavature, come un prato. Ha da poco compiuto 28 anni, è nato in Svizzera, a Moudon, e i suoi maestri sono i libri di Rimbaud, di Baudelaire, poi Eschilo, Rainer Maria Rilke. Ha pubblicato i primi versi nel 1945, ama le lunghe camminate, nelle fotografie pare alto, non è schivo, sorride. Il suo mentore è l’editore svizzero Henry-Louis Mermod: grazie a lui, a Parigi, conosce Francis Ponge, Jean Paulhan, Yves Bonnefoy e Pierre Leyris. “Forse ricorda di avere un piccolo libro di poesie, s’intitola L’Effraie, non dovrebbe mancare troppo alla sua pubblicazione”. È il 3 luglio del 1953 e Philippe Jaccottet, il poeta, sta per esordire con Gallimard. La lettera è inviata a GG, Gaston Gallimard; il poeta si premura di avvisarlo che “tra poco lascerò Parigi, e non vorrei partire senza avere avuto l’onore di conoscervi e di parlare con voi di questa pubblicazione, anche per un breve incontro”; specifica che “sono sempre libero, ma sarebbe preferibile il mattino”.
Da questi dettagli si misura la grandezza del poeta: nel ’53 Gallimard pubblica, in effetti, L’Effraie, e Jaccottet decide di stabilirsi, per sempre, con la moglie, la pittrice Anne-Marie Haesler, a Grignan, piccolo comune francese – conta 1600 abitanti – nel dipartimento della Drôme, al sud, a scrivere. Come se l’esordio per Gallimard sigillasse l’isolamento, la sua certezza. Lì, a Grignan, Philippe Jaccottet, tra i grandi poeti del nostro tempo, è morto, a 95 anni; nel 2014 Gallimard aveva pubblicato, per la cura di José-Flore Tappy e la prefazione di Fabio Pusterla, le Oeuvres, al numero 594 della mitica ‘Bibliothèque de la Pléiade’. Nelle fotografie, il poeta ha il viso di chi è solcato dalla solitudine e conosce il moto secolare della terra, dei cieli. È stato un poeta generoso e dall’ispirazione inesauribile: ha tradotto Thomas Mann e Friedrich Hölderlin – gli era congeniale una lingua terrena ma dagli sguardi astrali –, Robert Musil e Rainer Maria Rilke. Il rapporto privilegiato con Giuseppe Ungaretti, conosciuto nel 1946, è testimoniato da una Correspondance (1946-1970) che merita, forse, di essere tradotta (“Negli anni è diventato il traduttore ‘ufficiale’ di Ungaretti, che a lui affidava i testi appena composti; collaboravano insieme nella scelta degli inediti, che commentavano, lavoravano. È all’uomo solare e genuino, generoso, che Jaccottet si lega in una amicizia inflessibile”, scrive José-Flore Tappy). La sua versione dell’Odissea è ritenuta un capolavoro.
Pare, davvero, parlando di Jaccottet, di scrivere di un poeta che come gli aruspici e i magi trae segni celesti dallo studio delle forme naturali. Crocetti ha da poco pubblicato Quegli ultimi rumori…, per la cura di Ida Merello e Albino Crovetto, edito in origine da Gallimard nel 2008 (Ce peu de bruits). Per lo più, è un taccuino che alterna letture e sogni, osservazioni (“Due aironi bianchi al di sopra del Lez nascosto dietro le canne”) e agnizioni.
“(Quegli ultimi rumori che ancora raggiungono il cuore, cuore quasi di fantasma.
Quei pochi passi arrischiati ancora verso il mondo, che si direbbe allontanarsi, mentre è piuttosto il cuore che lo fa, suo malgrado.
Tuttavia, nessun lamento su questo, niente a impedire l’ascolto degli ultimi rumori; neppure una lacrima a offuscare la vista del cielo sempre più lontano.
Parole mal padroneggiate, mal collegate, parole ripetitive, per accompagnare ancora una volta il viaggiatore come un’ombra di ruscello)”.
Le letture scintillanti, in questo libro che odora di addio, sono Leopardi, Petrarca, Kafka, Saigyo, il poeta eremita giapponese; i libri sono presente, tra le mani e i capelli. Le prose ‘astronomiche’ sono tra le più belle: “La luna piena al di sopra della Lance innevata: luna dello stesso ‘colore’ e della stessa materia della neve, come ne fosse un frammento volato via”.
Amava perdersi in piccole pubblicazioni d’arte, Jaccottet, come fanno i poeti, perché desiderano essere scoperti: le straordinarie Éditions Fata Morgana hanno pubblicato diverse sue ‘placche’. In Italia, per merito di Fabio Pusterla, Jaccottet è tradotto dal 1992 (per Einaudi, Il Barbagianni. L’Ignorante), ancora tanto resta da leggere. In una pagina dei Carnets il poeta ha vergato il suo epitaffio: “L’essenziale vorrei fosse riassunto in una frase come questa: ‘Erba vista contro luce, che sorge, poco fitta, sottile e diritta: quasi un filtro, un’arpa… vicinissima alla terra, ecco la mia lira definitiva. Per far sentire la luce della sera, dorata, sotto le folate folli del vento freddo’”. Dell’erba, cui siamo i pari, bisogna dire lo splendore.