03 Aprile 2018

Bisogna essere proprio coglioni ad andare a Pisa a pasquetta. Ovvero: paghiamo il biglietto per non vedere le opere d’arte, asfissiati dalla folla

Avete presente l’odore degli umani? Quando sono raccolti in massa, gli umani hanno l’odore del petto di pollo in avaria da giorni. Carne bacata, bruciata, sfatta. Certo, avete ragione. Coglione io. Il Lunedì dell’Angelo, secondo i cattolici, Pasquetta’ per tutti gli altri, sono andato a Pisa. Mi garbava la gita dall’Adriatico al Tirreno. Mare fermo come un lago da una parte. Mare che si muove, contorto, come il corpo del drago dall’altra. Per puro istinto dannunziano – anche se leggo altro – mi sono sporto su Marina di Pisa. Nella desolazione – mura delle case scavate dal sale, crollano come palpebre – mi ricordo di Meriggio. Qualche verso è inciso su una targa e piombato sopra uno scoglio, al porto. “A mezzo il giorno/ su Mare etrusco/ pallido verdicante”, tempestato dalla solitudine (“Perduta è ogni traccia/ dell’uomo”), D’Annunzio va in estasi, si perde (“Non ho più nome”), s’inerpica nella divinità (“E la mia vita è divina”). La poesia termina qui. Ritorno sull’Adriatico alle due di notte. Ovvio. Automobili guidate da umani ovunque. Claustrofobia d’acciaio. Il punto, però, non è la mia coglioneria. L’odore degli umani l’ho sentito a Pisa, la tanto amata da Leopardi (“L’aspetto di Pisa mi piace assai più di quel di Firenze… non ho veduto niente di simile né a Firenze né a Milano né a Roma”). Piazza del Duomo. Quella con il prato verde e la torre che pende. Appena fuori le mura. Ristorante cinese. Bazar che ghigna “Italian Fashion”. Botteghe in serie. Date in concessione a stranieri. Se vuoi comprarti il portachiavi con la torre che pende paghi – senza scontrino in cambio – un bengalese. Una falange di neri – perché solo i neri, poi, chissà, perché non italiani o ‘bianchi’? – aprono borselli pieni di orologi sussurrando, maliardi, ‘Rolex, Rolex, costa poco’. Peggio di tutti, i turisti. A vagoni. Fanno gesti all’aria. Che cazzo fanno?, mi dico, coglione. Si fanno fare la foto. Le braccia si curvano all’aria nell’atto di tenere su la torre che pende. Che minchiata. L’odore degli umani mi sorprende tanto è potente. Preferirei essere un piccione. Dopodiché, sia chiaro, a prescindere penso che le vite degli altri siano più affascinanti della mia e che a nessuno – a nessuno – son degno di fare la lavanda dei piedi. Mi sento anche io, da altrove, parte di questo odore. Ma il problema è un altro. Come fai a vedere la piazza in mezzo alla folla? Come fai a vedere il Duomo stordito da questo odore di carne eretta? Lo stesso accadrebbe al Louvre o agli Uffizi, è ovvio. Come fai a ‘vedere’ se sei attorniato da una museruola di umani? L’arte è un messaggio dall’artista a te, è un’intimità. L’Annunciata di Antonello sta guardando te, proprio te, come la Muta di Raffaello, guarda te, proprio te, non gli altri, altrimenti non sarebbe arte ma messaggio pubblicitario. Lo sguardo di un’opera d’arte è impagabile, ti schianta. Ma per farti guardare dall’opera devi essere solo. Se non lo sei, è come se guardassi il quadro di spalle. L’evento artistico non esiste. Il paradosso clamoroso, perciò, è che di solito paghiamo un biglietto per non accedere all’evento artistico. In un romanzo appena pubblicato in Italia, Pony selvaggi (Edizioni E/O, 2018), Michel Déon, straordinario scrittore francese, controcorrente, che era ora di tradurre a dovere, s’inventa uno sketch pazzesco. Cyril, poeta inglese piuttosto abbiente e alquanto affascinante, con “la faccia da angelo perverso”, un giorno decide di rubare dagli Uffizi “un ritratto di giovane donna del Bronzino”. Il furto non è compiuto con intenti economico-ricattatori. Il poeta, “affascinato da quel ritratto, desiderava psicanalizzarlo, ma non ci riusciva nella baraonda degli Uffizi, veniva distratto dalla voce squillante delle guide che commentavano le opere d’arte per turisti dai piedi doloranti”. Il poeta, che si dilettava a tradurre Dante, ideò un’ode, trionfante, dopo aver rubato il quadro del Bronzino. Il quadro, dopo una manciata di giorni, fu restituito ai legittimi. Ecco a cosa ispira la grande arte, che richiama magneticamente l’individuo. A rubarla. A sottrarla dal chiasso. A estirparla dal ludibrio delle migliaia di sguardi equini – anche dai nostri – perché lei, l’arte, pretende la dedizione di un clamoroso amante. Avete ragione. Rimango un coglione. Però. Tramortito dal traffico, direzione Tirreno, svolto a Pistoia. C’è gente. Nei soliti posti. A riempire la panza di cibo. Cammino felino. Scovo la piccola Chiesa di San Leone, alle spalle della basilica centrale. Dentro c’è una Visitazione di Luca della Robbia. Maria ha un viso da bambina, di deliziosa bellezza; Elisabetta è in ginocchio, le abbraccia il grembo, ha il viso rugoso di un’aquila. Sembra, commossa, ferina, voler penetrare il grembo appena annunciato di Maria, come se fosse un planetario da cui vedere il destino del mondo. Le sculture sono totalmente bianche, in mezzo alla chiesa, che è decorata in modo eccessivo, sgargiante, barocco. Ma è proprio il contrasto a rendere quella Visitazione una icona dell’innocenza. Ero solo. Solo al cospetto dell’accaduto. Solo al cospetto dello sguardo che trafigge di Maria. L’opera era per me, e avrei potuto convertirmi all’improvviso, e lasciare tutto e vagare per il mondo annunciando l’innocenza come un folle. Non fossi il coglione che sono. (d.b.)

Gruppo MAGOG