La poesia è la foresta dei paradossi, dove gli alberi sono umani e gli uomini hanno le radici a un milione di anni luce da qui, in un trapezio stellare del prossimo millennio. Per questo, non ci stupisce che un poeta morto più di vent’anni fa a New York, ma nato nell’allora Leningrado e sepolto affettivamente a Venezia, influenzi alcuni dei più importanti poeti di oggi. E non ci stupisce che uno dei grandi poeti di oggi, Riccardo Ielmini, classe 1973, preside di professione e padre per passione, se ne stia quieto – apparentemente quieto: i poeti sono giaguari sornioni quanto letali – nella culla della propria ispirazione dal 2000, l’anno dell’unica raccolta organica pubblicata, Il privilegio della vita (Atelier Edizioni), per altro assai amata e discussa, e che per sgranchirsi la penna nel 2011 abbia pubblicato dei racconti, adornati dal titolo Belle speranze (Macchione editore), dopo aver vinto il Premio Chiara per la raccolta inedita. Insomma, Ielmini è uno tutto ‘casa&scuola’, non si fa vedere nei club dei poeti né nei bar degli editori.
Si fa gli affari suoi, fa la sua vita e scrive quando Musa scontrosa – come tutte le Muse nordiche, lui vive sul Lago Maggiore, sponda lombarda – comanda. Dopo 17 anni di silenzio o quasi, Ielmini ha un libro. Il libro s’intitola Una stagione memorabile e per i quattro che lo hanno letto – tra cui il qui scrivente – quello è un libro memorabile. Memorabile, inoltre, è questo tempo dove i grandi libri girano in file destinati agli amici o in edizioni minime che non sono ospitate nelle librerie. Un samizdat al contrario, se vi va, un samizdat estetico: sono i poeti, quelli veri, a non volere avere nulla a che fare con la ‘società’ e l’editoria ‘che conta’, non più il contrario. Fascinoso. Ad ogni modo. Una poesia della raccolta di Ielmini s’intitola 130 mq per Iosif Brodskij, ed è quella che pubblichiamo. Interessante, appunto, che un poeta italiano di oggi avverta una sintonia con il Premio Nobel per la letteratura nel 1987, il grande poeta russo che nel 1972 ha scelto l’auto-esilio negli Stati Uniti, dacché per Mamma Urss era un ‘parassita sociale’ degno dei lavori forzati – che ha compiuto, per cinque anni. Per chi volesse leggerlo, la sua opera, compreso l’ultimissimo libro, fresco di traduzione, E così via, è edita da Adelphi. Ielmini – cugino di Vittorio Sereni e fautore di una concretezza ‘lombarda’ che ha, però, fantasmagorie liriche lacustri – parlando della sua “isba italica” si riferisce con nostalgica informalità all’“amatissimo Iosif”, poeta che ne pervade l’impero lirico (per qualche scintilla bibliografica legata alla poesia si legga In una stanza e mezzo, saggio biografico custodito nel libro-culto Fuga da Bisanzio) così come Philip Roth quello narrativo. Vale la pena sottolineare che una decina di anni fa un altro poeta tra i grandi di oggi, Federico Italiano, si è riferito al poeta russo nel suo Post-scriptum a Iosif Brodskij, in quel caso compiendo una prodigiosa variazione (“Sono nato e cresciuto tra le risaie piemontesi…”) dal calco di una nota poesia di Brodskij (“Sono nato e cresciuto nelle paludi baltiche…”). Ad ogni modo, abbiamo imparato due cose. Primo: per i poeti non esiste la morte, non c’è distanza tra i vivi e i morti, un morto può essere più espressivo di uno pieno di vitalità. Secondo: la bella poesia in Italia, oggi, si legge nel sottobosco degli ignoti, in un sottosuolo che brulica di bagliori, un humus così fragrante che, siamo certi, darà fresco nutrimento al Dante del millennio venturo. Non importa tanto scrivere il ‘capolavoro’ – quasi sempre opinabile – ma creare le condizioni perché esso accada.
130 mq per Iosif Brodskij
Amatissimo Iosif,
l’opera è compiuta.
La piccola proprietà di cui ti parlavo,
la mia isba italica, giace puntuta,
sul seno erboso delle morene glaciali.
L’ameresti, Iosif,
con la sua sobria species lombarda.
D’inverno è visitata dalle volpi,
s’imbianca se il cosmo non è sottosopra,
se il freddo torna ad essere freddo, se non tarda.
D’estate è ferma,
il calcestruzzo rovente.
La brezza dolciastra di ciliegie
fa pensare a contadine russe sui carri di fieno,
a piccole donne di provincia sulla vertigine del niente.
Nei tempi interlocutori,
resiste, piantata sulle fondamenta,
allo scossone delle acque e dei venti,
resiste alle paure ai vuoti improvvisi ai trasalimenti
del mio cuore innamorato e sospeso.
L’ameresti, Iosif,
quanto hai odiato i tuoi ridicoli mq.
Eppure senza tempo era la tua stanza-e mezza,
senza spazio come la sterminata steppa
le finestre spalancate sul volo ardimentoso del falco.
Saresti nostro ospite, Iosif:
abbiamo conservato per te
un Romeo Y Julieta strappato per quattro pesos
in una fumeria a L’Avana, io e la diletta fra le amate
in un’aria che avresti adorato, di pirateria e caffè.
Fumeremmo insieme,
aggrappati all’eterna sera
prealpina, giocando con la memoria su versi di Virgilio,
sparpagliandoli sulla campagna, sulla mia piccola proprietà
per farli risalire verso il bosco, per accarezzarne la chioma nera.
Amatissimo Iosif,
ti aspettiamo, come tu ci aspetti
all’apice del tempo dove non c’è tempo.
Sverneresti fra questi muri, nel decumano di letti
dove riposa il sangue del mio sangue ancora immacolato.
Verrai, Iosif?
Il tuo cuore deponga qui la sua stanchezza.
Hic manebimus optime, mon ami.
Verrai. Vedrai, questo è il mio posto,
è questo il continente della gioia, il promontorio della pienezza.