23 Agosto 2022

Amare è un serial killer. L’ultimo romanzo di Joyce Carol Oates

Tra il 1976 e il 1977, a Oakland County, nei dintorni di Detroit, agisce un serial killer soprannominato dalla polizia “The Babysitter”. Colpisce soltanto ragazzini, s’insinua nei quartieri dell’alta borghesia. L’assassino – responsabile di quattro omicidi di ragazzi tra i 10 e i 12 anni, sospettato di altrettante morti – non sarà mai trovato, il caso resta irrisolto. Intorno a questo fatto di cronaca nera si sviluppa l’ultimo romanzo di Joyce Carol Oates, Babysitter, appena uscito nel mondo anglofono. La quarta ne dice come di “un romanzo sull’amore e sugli inganni, la lussuria e la redenzione, sullo sfondo degli omicidi che hanno sconvolto i ricchi sobborghi di Detroit”.

La scrittura della Oates – qui traduciamo un estratto in anteprima – è come sempre rapinosa e onirica, ha il passo del noir e del vangelo gnostico, cupo. L’uomo è ridotto a puro corpo, corrompe ed è corrotto; le relazioni, scoperchiata la putrida glassa sociale, si reggono su vita e morte, ricatto, minaccia, sudditanza e sadismo, predominio e etica del desiderio convulso. Tra i grandi scrittori americani viventi, Joyce Carol Oates è autrice, tra l’altro, di Acqua nera, Blonde, La figlia dello straniero; questo è il suo romanzo numero 59. Secondo Julie Myerson, che ne ha scritto sull’“Observer”, il romanzo è crudo, “selvaggio”, “magico”. Soprattutto, la cronachista culturale sottolinea una cosa che ci convince: “Che la Oates sia determinata ad andare oltre i limiti dell’oscuro, nelle zone politicamente scorrette, per sondare le motivazioni del comportamento umano, non sorprende chi già la conosce. In questo libro, però, va oltre i suoi standard… Razze, classi sociali, abusi sui minori. Qui c’è tutto. E anche la religione…”.

Nel brandello tradotto, la protagonista, vista ‘in presa diretta’, è Hannah Jarrett, ricca, desiderabile casalinga di 39 anni, con due figli, che ha un appuntamento, nella stanza di un hotel ultramoderno, con YK, “un uomo incontrato durante una raccolta fondi, che dopo averle sfiorato il polso con le dita, l’ha avvinta al suo primo adulterio dopo undici anni di matrimonio”. Ovviamente, è la tigre blu dietro il divano, l’emozione inattesa, l’inappropriato che ci affascinano.

***

Babysitter

Non disturbare.

Al sessantunesimo piano dell’hotel, l’aspetta lì.

Nessun nome che corrisponda a un nome vero. Poco di lui risponde al vero. Basta che lei lo sappia.

È sola nell’ascensore, un cubo di vetro lucido che sale silenzioso, rapido, come nel vuoto.

Sotto, sprofonda l’affollata hall dell’albergo. Di fianco a lei, pavimenti spalancati e ringhiere precipitano in basso. Un modo nuovo, elegante, per elevarsi, ben diverso dall’epoca degli ascensori lenti, pachidermici, della sua infanzia. In quegli ascensori c’erano degli inservienti in livrea; oggi sei l’inserviente di te stesso.

Nell’ascensore aleggia un debole aroma di sigaro. Dicembre 1977. Non è ancora vietato fumare nelle aree pubbliche degli alberghi. Brivido di vertigini, nausea. Fumo di sigaro flebile come la memoria. Chiude gli occhi, si concentra.

Non porta l’elegante borsetta in pelle italiana al polso destro, come al solito, ma aderente al braccio, ferma, sorretta dalla mano sinistra: è più pesante del solito. Tuttavia, la borsa è posizionata in modo da far scintillare l’etichetta in ottone verso l’esterno: Prada.

Inconsciamente, per istinto, per vanità – Prada.

Forse è l’ultimo giorno della sua vita, forse è l’ultimo giorno di una vita.

Ovviamente, ha memorizzato il numero: 6183.

Potrebbe tatuarselo al polso. La sua rivendicazione. La pretesa di un destino.

Rivendicazione. Destino. Non è una poetessa, non è una persona a suo agio con le parole, non è abile a usarle, eppure proprio quelle parole le sembrano rassicuranti, come pietre lisce e umide posate sopra gli occhi chiusi dei morti per impetrare la pace sul loro viaggio.

Al sessantunesimo piano quell’incunabolo di vetro si ferma, con un sibilo e un lieve sussulto. La porta a vetri si apre. Non può fare altro che uscire. Qualcosa è stato deciso, non ha scelta.

Stringe la borsa sotto il braccio. Non ha davvero scelta?

Si chiede se la stia aspettando vicino all’ascensore. Desidera il suo arrivo?

Non c’è nessuno, in nessuna direzione, nessuna figura umana.

Puoi ancora tornare indietro.

Se lo fai ora, non lo saprà nessuno.

Di fronte all’ascensore, la parete di vetro domina sul fiume, il sole è bianco e feroce. Vista obliqua su Woodward Avenue, in basso, il traffico è silenzioso.

Non le è chiaro. Perché sia venuta fino a qui, rischiando così tanto.

Non chiedersi mai il perché. La sfida è eseguire.

Percorre un corridoio senza finestre, i numeri delle stanze si susseguono, 6133, 6149, 6160… i numeri crescono, prova tremori di sollievo, non arriverà mai al 6183.

Sotto i piedi, uno spesso tappeto di peluche, roseo, come se camminasse all’interno di un polmone. L’estremità più lontana del corridoio si dissolve.

Si sente trascinata, inesorabilmente. Se ascolti un indovinello, l’unico modo per risolverlo è andare fino in fondo.

Tenue odore di fumo di sigaro tra i capelli, nelle narici irritate da una nausea così remota da sembrare il residuo di un ricordo.

Cosa indossa? Un vestito scelto con cura, lino bianco discreto, camicia di seta, sciarpa Dior di seta rossa al collo. Tacchi alti, elegantemente impraticabili, Saint Laurent, pelle di capretto che affonda nel tappeto. Se dovesse voltarsi e correre per mettersi in salvo, le scarpe e il tappeto la ostacolerebbero.

Uno di quei sogni in cui è di nuovo bambina. Corre, corre. I piedi affondano in qualcosa di simile a sabbia. Sembra morbida – non lo è. Non procede mai, ogni volta che è scappata. Ogni volta, qualcosa incombe dietro di lei. Le mani forti di papà, minacciose, la stanno sollevando per le costole…

Rivendicazione. Destino. Un uomo.

I numeri delle stanze accelerano. È un dato di fatto: la realtà non si muove alla velocità assegnata dai nostri desideri. Si avvicina alla 6183 e inizia a tremare. Sempre la stessa, quella, la sensazione eccitante di guidare una macchina ad alta velocità, sotto una pioggia che acceca, sprofondando dentro pozzanghere che si squarciano come onde.

La testa su un tavolo di acciaio molto freddo. Gli occhi aperti non vedono. Solo quando gli occhi non vedono, vedi tutto.

Eppure, procede. Con i tacchi Saint Laurent, è ancora il dicembre del 1977, non è ancora entrata nella stanza per l’ultima volta. Deve giungere alla fine dell’enigma.

La targa in ottone sullo stipite della porta segna 6183, ogni volta 6183. Il cartello appeso alla maniglia della porta, lettere d’argento su nero laccato, il solito segnale: Non disturbare.

Sono

sono una bella donna, ho il diritto di essere amata.

Sono una donna desiderabile, ho il diritto di desiderare.

Quando saremo morti

Quando saremo morti i nostri (bellissimi) (nudi) corpi diventeranno materia inerte.

Quando saremo morti le nostre estreme urla intrappolate in gola.

(Si potrebbe pensare che, se giacessi di fianco a noi, nella morte, ponendo un orecchio alla nostra gola, se ne fossi degno potresti sentire la debole eco di questo grido estremo).

Quando saremo morti, finirà il nostro tormento. La misericordia attende tutti.

Quando saremo morti, nessuno di chi ci ha generato sarà al nostro fianco.

Moriremo da soli, nel terrore. Tu non eri vicino.

Quando saremo morti, chiediti perché hai avuto dei figli se non ci amavi.

Chiediti il perché.

Quando saremo morti, i nostri corpi saranno curati amorevolmente come nessuno li ha mai curati prima.

Quando saremo morti, i nostri corpi saranno amorevolmente lavati, i più piccoli frammenti di sporco rimossi da ogni fessura del corpo, dalle unghie (rotte), dalle unghie tagliate, arrotondate, uniformi; i capelli lavati con uno shampoo delicato, pettinati, ordinati, in modo tale da suggerire che chiunque ci abbia curato con tale tenerezza dopo la morte lo ha fatto perché non ci ha mai conosciuto da vivi.

Quando i nostri corpi saranno puri e purificati come le nostre anime, verremo commemorati con amore: fotografati.

L’occhio umano ci tradirà presto, ci dimenticherà: la macchina fotografica ci rende immortali.

Joyce Carol Oates

Gruppo MAGOG