25 Giugno 2018

Io sono il “non sono io!”. Giovanni ci insegna che dobbiamo essere inattesi e indistinguibili, un deserto. Dio è il grande fabbricatore di nomi e la Bibbia il registro delle parole possibili

La domenica parlano – con sperabile ispirazione – i preti. Il lunedì, da incosciente, metto il cranio dentro la liturgia domenicale. Screziando, da dis-graziato, i testi. La liturgia la trovate, per comodità, qui. Io uso il Nuovo Testamento interlineare, bisciando tra italiano, greco e latino. Pigliate questi come appunti sul margine sfinito, come punti d’appoggio – o di rovina – sulla roccia.

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Dio è Dio perché conosce i nomi che configurano un destino. Da Genesi, dopo il preliminare atto della creazione (“creò il cielo e la terra”, Gn 1, 1), che distribuisce gli orientamenti, Dio è il Dio che parla (“Dio disse”, da Gn 1, 3, in modo reiterato, un rombo). Dio non assegna le leggi – Dio dona i nomi: la Bibbia andrebbe letta come un immenso regesto di nomi, il registro delle parole possibili. Le parole dette dall’uomo sono un tradimento, un pupazzo di paglia: per questo alla conversione si abbina il mutamento del nome. Indossare il nome è destinarsi a Dio. Il racconto della nascita di Giovanni il Battista segue lo schema canonico: una coppia di anziani, lei sterile, Elisabetta, inabile a dare frutto, ha un figlio. Alla meraviglia si somma l’allucinante, la rottura del codice, lo sterminio dei vocabolari. Il figlio, che secondo la norma deve avere il nome di un avo, di un parente – per far coincidere il suo destino a quello della famiglia – dovrebbe dirsi “Zaccaria, come il padre” (Lc 1, 59). Invece, “sarà chiamato Giovanni” (1, 60), che significa, pressappoco, ‘Dio è grazia’. Il nome di Dio è in contrasto con i nomi degli uomini. Zaccaria, il padre di Giovanni il Battista, che è muto per editto divino, per incredulità (Lc 1, 20), “chiese una tavoletta e scrisse, ‘Giovanni è il suo nome’” (Lc 1, 63). Scrivere il nome scelto da Dio per il bimbo, suscita il miracolo: l’uomo privato dei nomi, Zaccaria, torna a parlare, e addirittura a profetare (Lc 1, 67ss.). Dall’assenza di nomi al surplus della nominazione. L’azione di Dio procede nella parola, tutto è linguaggio: se Dio dimenticasse un nome, ciò che gli corrisponde sparirebbe. Dio parla e parlando chiama, reclama. “Il Potente mi chiama dal seno materno/ il mio nome l’ha detto dal grembo di mia madre” (Is 49, 1); “Mi ha detto…” (Is 49, 3); “ha parlato…” (Is 49, 5); “e ha detto…” (Is 49, 6); “così dice il Potente…” (Is 49, 7). Prima di preparare l’uomo, di sperperarlo nel mondo, Dio forgia i nomi per chiamarlo, raffina le lettere che, come le liane sulla mano, dicono tutta la sua vita, prima e dopo la vita. Ci sono – m’immagino – magioni di lettere non ancora accadute nella mente stagionale di Dio. Il punto, per l’uomo, è capire la chiamata. Udire l’odore della parola divina. “Visse nei deserti” (Lc 1, 80) è detto di Giovanni, per comprendere il peso del suo nome, per farsi Battista. L’essenza di Giovanni è detta in Atti, da Paolo: “E Giovanni diceva… Cosa dite che io sia? Non sono io!” (At 13, 25). Al di là dell’analogia con la domanda cardinale posta da Gesù (Voi chi dite che io sia?, come a dire: la fede, in fondo, fondamentalmente, è un uomo che accarezza e prende in custodia il Dio, la sua definizione del Dio, che dà i nomi per essere a sua volta nominato), è questo: Giovanni sfugge alla definizione, al dire umano. I nomi che mi assegni – dovevo chiamarmi Zaccaria… – non sono i miei, sono proiettili di sabbia; ciò che dici non appartiene né appare. Io sono il non sono io. Sono sempre l’altro, l’inatteso. Quello che si fa a lato, che non si distingue dal deserto. Per fare spazio all’altrove. (d.b.)

 

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