10 Settembre 2018

Che fine fanno i suicidi, come si vive con il marchio di “figlio di un suicida”? Discorsi intorno a Simone e alla parola magica, “Effathà”

La domenica parlano – con sperabile ispirazione – i preti. Il lunedì, da incosciente, metto il cranio dentro la liturgia domenicale. Screziando, da dis-graziato, i testi. La liturgia la trovate, per comodità, qui. Io uso il Nuovo Testamento interlineare, bisciando tra italiano, greco e latino. Pigliate questi come appunti sul margine sfinito, come punti d’appoggio – o di rovina – sulla roccia.

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La Bibbia è un contenitore di parole magiche. Una di queste, tra le potenti, è Effathà, che significa ‘apriti’ e la dice Gesù, secondo l’evangelista Marco, per aprire orecchi e labbra al sordomuto. La parola fa apparizione nel capitolo 7, versetto 34. Effathà ha qualcosa di persuasivo, di soffice, ha suono di torrente e di serpente.

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Perché la parola faccia effetto, va composto un rito – di per sé la parola è involucro vuoto, parziale. Qualcuno deve portare a Cristo il malato (“gli portarono”, Mc 7, 32), qualcuno deve fare richiesta di estirpare il male (“lo pregarono di imporgli la mano”, idem), perché senza un uomo che interroga Dio non risponde. Poi, per evitare la tagliola del clamore, occorre la solitudine (“presolo in disparte, lontano dalla folla”, Mc 7, 33). Inoltre, è necessaria l’intimità del corpo, il contatto (“gli mise le dita nelle orecchie e con la saliva gli toccò la lingua”, idem). Mentre il corpo si lega al corpo, gli occhi vanno al cielo (“alzati gli occhi al cielo”, Mc 7, 34): a quel punto, può esplodere la parola.

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Ma Effathà, apriti, è una richiesta che Gesù fa a Dio, non è la formula magica che disintegra la malattia del sordomuto. Apri le orecchie alla mia richiesta, dice Gesù a Dio, in speciale monologo d’abisso, abuso d’intensità. Dio deve aprirsi alla richiesta dell’uomo: il sordomuto è Lui.

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Gesù realizza la profezia di Isaia (“Allora si spalancheranno gli occhi dei ciechi/ si schiuderanno gli orecchi dei sordi”, Is 35, 5), ma la domanda è altra. Se il creato è giusto, perché esistono gli zoppi, perché esistono i sordomuti, perché “scaturiranno acque nel deserto” (Is 35, 6)? Dio ha permesso la stortura, la corruzione, il male per far vedere quanto a bravo a sanare? Il creato è teatro, il palco su cui Dio, a suo piacere, assolve o condanna?

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Dio regna nel paradosso – è per scombinare i piani dell’uomo. “Dio non ha forse scelto i poveri agli occhi del mondo, ricchi nella fede, eredi del regno?” (Gc 2, 5). Il problema non è il denaro, ma pensare che il denaro sia il fine – pensare che il denaro sia, in sé, un valore.

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Gesù è alieno alla fama, non vuole il clamore, ma lo stupore dei pochi. “Comandò loro di non dire niente” (Mc 7, 36): per questo si corre dietro a Dio nella solitudine. La folla desidera re, maghi, rivoluzionari – per contattare Gesù bisogna incendiare le pretese, attenersi a una promessa di cui si è scordato il senso, il motivo.

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Marco è molto preciso nel localizzare il miracolo compiuto da Gesù (“Uscito dalla regione di Tiro, venne da Sidone al mare di Galilea, in mezzo al territorio della Decapoli”, Mc 7, 31), come se i luoghi facessero parte del rito. Sono indimenticate le profezie di Geremia, “perché è arrivato il giorno… e saranno abbattute Tiro e Sidone/ con quanti sono rimasti ad aiutarle” (47, 4). Gesù passa a sanare la devastazione, a ricongiungere i vivi ai morti, a far risorgere nel cuore ciò che era condannato.

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Effathà, apriti. Chissà se Dio apre almeno una narice per far transitare nei mondi altri i suicidi. Che fine fa il suicida? Il suicidio rende sordomuti i vivi, perché chi subisce lo schianto è chi resta. Il suicida, sordomuto all’amore, rende sordomuti gli amici, le persone che lo hanno amato. Per tutti gli anni delle scuole ho vissuto con il marchio di ‘figlio di un suicida’, in un piccolo paese alla periferia di Torino, dove tutti sanno tutto degli altri senza sapere nulla di sé. Il suicida vince un tabù – e relega nella colpa i parenti prossimi. C’è sempre qualcuno che non ha fatto qualcosa, che è stato sordomuto di fianco al dolore. Nel mio caso, il figlio di un suicida porta impresso un marchio di morte – chi vuole avvicinarsi a un bimbo che odora di morte? Il figlio percorrerà le orme del padre anche nell’ultimo salto, il suicidio? Hemingway, figlio di un suicida, si spara in bocca con un fucile. Troppo tardi, in una specie di filiera macabra, ho scoperto che anche il nonno di mio padre, il mio bisnonno, il padre della madre di mio papà, si è ucciso, a Milano, con la sua ninfetta, la sua giovane compagna. Si sono uccisi nello stesso modo. Mio padre e il mio bisnonno. Con il gas. Io, mi domando, salterò il turno generazionale o mi ammazzerò? E come?

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Se Dio regna sui paradossi, forse ha una particolare delicatezza verso i suicidi. Secondo il Catechismo della Chiesa cattolica (norma 2281) “Il suicidio contraddice la naturale inclinazione dell’essere umano a conservare e a perpetuare la propria vita. Esso è gravemente contrario al giusto amore di sé. Al tempo stesso è un’offesa all’amore del prossimo, perché spezza ingiustamente i legami di solidarietà con la società familiare, nazionale e umana, nei confronti delle quali abbiamo degli obblighi. Il suicidio è contrario all’amore del Dio vivente”. Il suicida è colpevole – e chi gli sopravvive sconta, in vita, questa colpa. Eppure, la norma 2283 adorna di fiori il corpo tumefatto del suicida: “Non si deve disperare della salvezza eterna delle persone che si sono date la morte. Dio, attraverso le vie che egli solo conosce, può loro preparare l’occasione di un salutare pentimento. La Chiesa prega per le persone che hanno attentato alla loro vita”. Di cosa ha da pentirsi il suicida, di cosa dobbiamo dirgli grazie?

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Penso al breve appartamento, settimo piano, del mio amico Simone Cattaneo, a Saronno. Non dico altro se non che nel volo Simone mi ha strappato una placca di carne dalla faccia. Non avere paura di nulla è una condanna, ora. Effathà, questa parola soffice come un agosto di farfalle. Apriti, Dio, vinci la ritrosia, spalancati al suicida.

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Poco prima di morire, nel 1992, fra’ David Maria Turoldo torna al suicida. “Ci sono troppi scoraggiati nel mondo, e siamo tutti responsabili gli uni degli altri. Proprio in questi giorni il figlio diciassettenne di una mia amica si è suicidato, sparandosi un colpo di pistola: a 17 anni!… però il dolore, la sofferenza ti ammazza in maniera ancora più crudele che non il suicidio”. Come si sconta la responsabilità del suicida?

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In realtà, dal giorno della Caduta si continua a cadere. Anzi, desideriamo la caduta, il cadere. Come quando il prete ostenta l’Ostia e non puoi far altro che piegare le ginocchia e abbandonarti, come se il pavimento della Chiesa fosse un salto. Desideriamo cadere, cadere, cadere, sdraiarci sul pavimento, che tutti ci passino sopra, non desideriamo altro che sentire l’odore freddo dell’abbandono – abbandonarci – perderci – finalmente. E qualcuno, forse, con misericordia crudele, che ci sollevi – senza rialzarci. (d.b.)

Gruppo MAGOG