
“Non esiste niente che non abbia importanza”. Per Marina Cvetaeva, che perse tutto
Poesia
Isabella Serra
La magnifica versione firmata agli arbori del nuovo secolo dal regista lituano Eimuntas Nekrosius de “Il gabbiano” di Cechov ha avuto il duplice e intrecciato merito di donare una vera vita a un testo che quando debuttò, nel 1896, registrò un clamoroso insuccesso tanto da indurre l’autore ad abbandonare la platea rifugiandosi dietro le quinte e a rinunciare a scrivere ulteriormente ma anche quello di “riattualizzare” un dramma che sembrava “contemporaneo” solamente nel testo drammaturgico. Uno spartiacque quindi che, alla “rimodernizzazione” rivista e al “taglio” dato alla messa in scena – gli spettacoli-maratona di Nekrosius non “mostrano” bensì “evocano” – ha aperto anche il problema del “dopo”: come frequentare ancora una volta, o una volta di più, “Il gabbiano” dopo la lectio magistralis del regista lituano? Quali “corde” toccare, pizzica, far suonare? E soprattutto, come far digerire al pubblico del Teatro Nuovo di Dogana un testo particolarmente lungo e verboso oggi che si vive tendenzialmente e tendenziosamente nell’era della velocità dei tweet?
Semplicemente mettendo in chiaro sin dall’inizio le intenzioni dello spettacolo. Una voce fuoricampo, che funge da “coro” dell’antica tragedia greca (e quindi ha il compito di spiegare e introdurre l’antefatto), annuncia che la mise en scene de “Il gabbiano” – che si è fermato al teatro Nuovo di Dogana venerdì 7 dicembre – è un omaggio allo spettacolo portato in tournée 20 anni fa dalla compagnia “La Fabbrica dell’Attore”, fondata da Giancarlo Nanni e Manuela Kustermann. Il suo valore è quindi, inizialmente, filologico. In realtà c’è qualcosa di più: il regista Nanni, scomparso nel 2010, ha unito le sue due passioni, la pittura e il teatro, ponendo le maggiori attenzioni alla prima. Il testo di Cechov e la scenografia dello spettacolo vengono destrutturati in maniera netta, diventano cioè una tavolozza e una tela su cui dipingere la pièce. A partire dall’ubicazione, non la Russia cechoviana ma una nowhere land, una terra di nessuno, una città “pittorica”. In un quadro. La patina triste che accompagna i personaggi “originali” viene spazzata via: forse non è terreno di indagine ma solo l’appiglio per dare il via a una storia altra, fatta non tanto di parole ma di pigmentazione.
Così tutto il background pittorico di Nanni, dalle avanguardie storiche (futurismo, dada e surrealismo) alla Pop Art, il New Dada, l’happening e l’action painting americani, entrano in scena come un’onda, e poco importa se il primo atto risulta, dal punto di vista recitativo, eccessivamente manieristico: il circo, la farsa napoletana, i burattini, la commistione di un linguaggio intersecato e distante (russo, inglese, italiano) si accavallano, prendono traiettorie autonome, quasi a voler distrarre il pubblico. Quello che sembra voler dire Giancarlo Nanni è che la trama e il pathos devono essere l’argilla iniziale per modellare un’opera autonoma e personale.
Il secondo atto la compagnia, sorretta da una dignitosissima Kustermann, abbandona l’apparente divertissment sopra le righe per entrare nel testo: e qui “esce” la parte più teatrale, più intensa, che non abbandona comunque l’anima pittorica del regista. In chiusura il fondale diventa un attaccapanni verticale su cui appaiono una fila di vestiti colorati da donna, un “cimitero” di Spoon River originale che “parla” non attraverso gli epitaffi ma lasciando al pubblico una libera interpretazione.
La regia di Giancarlo Nanni ha dato colore a un testo in bianco e nero. A un gabbiano, il suo, che probabilmente non è quello di Cechov, che probabilmente è altro, che ha una serie infinita di probabilità, di pregi e di difetti. Ma che vola comunque, perché è sinceramente soggettivo.
Alessandro Carli