A favore di bosco, il primo istinto è quello: mollare gli ormeggi del mondo, arpionarsi al tronco, costruirsi una capannuccia. È il sole a corazzare il coraggio: scudo che pare un cranio. La sera, presto, mostrerà le armi; ogni ombra di misera bestia pare un coltello; gli insetti si coalizzano in nubi. Infine, si ritorna al focolare: viltà formicola sulle nostre gambe.
Mi vengono in mente i monaci, sazi di uomo, inabili a stare perfino coi confratelli, che hanno scelto le aspre vie del vagabondaggio. Scrivevano poesie screanzate, a volte di infinita leggiadria, a contrasto con la dura scorza del corpo. Poesia di cristallo scritte da mani di ferro. Di questi, per ostilità ai dettami dominanti, affascina la vicenda di Ikkyū Sōjun. Nato a Kyoto nel 1394, da una dama di corte di cui s’erano disamorati tutti – pare dopo una lampeggiante relazione con l’imperatore – fu spedito, fin da piccolissimo, in un tempio zen, di nobile reputazione. Il bimbo dimostrò, subito, precocità d’ingegno ed eccessiva vitalità: una volta ragazzo, mollò gli alti prelati – che a suo dire, si vantavano di sé, dei loro articolati concetti-belati – seguendo la via dei monti, alla ricerca dei maestri sudici e felici, che vivevano nelle capanne.
Insoddisfatto, roso da una taurina energia, Ikkyū migrò di colle in colle, prodigandosi nell’estremismo della rinuncia. Secondo la leggenda, ottenne l’illuminazione nel 1420, mentre meditava su una barca, lungo le sponde del lago Biwa. Il gracchiare di un corvo fece sbocciare in lui il Buddha: “Vent’anni di tormenta/ ribollire di rabbia: ma ora, ecco, il mio tempo!/ Il corvo ride, un arhat si erge dall’orrore/ al sole, la bellezza di giada”.
La singolarità di Ikkyū diventò leggenda: con il nome di “Nuvola pazza” peregrinava nelle colline di Kyoto, un po’ sapiente un po’ brigante. Frequentava uomini d’alto lignaggio e senzatetto: un giorno, rubò i soldi ammucchiati da una ricca famiglia per i funerali di un loro pari donandoli ai poveri. Desiderava, in ogni cosa, andare all’osso, al nocciolo: per questo, osteggiava i ‘dirigenti’ del buddismo del suo tempo, rei di adattare gli antichi principi alle più viete manovre di palazzo. Preferiva i folli, i monaci diseredati, i maestri obliqui, marginali. Durante i lunghi ritiri in montagna, coltivava la terra e scriveva: la sua arte calligrafica diventò, presto, un culto; era versato nella disciplina del teatro Nō e abile nella cerimonia del tè. A volte visitava l’imperatore, suo padre.
Nelle sue poesie – tradotte nel 2012 per Ubaldini da Ornella Civardi come Nuvole Vaganti; qui se ne offre altra traduzione secondo la lezione di John Stevens: Wild Ways, Shambala, 1995 – il cliché della lirica ‘monastica’ – natura; solitudine; contemplazione; rinuncia; fame – trova nuova vita, ferina. Traluce, soprattutto, l’amore esagitato di Ikkyū per i corpi, per la donna, la passione sessuale, che lo squassa. Ebbrezza del corpo e dello spirito, in questo spericolato monaco tengono convegno sullo stesso desco. La sua disciplina si riassume in questa poesia, di nero ardore:
“Quando me ne sarò andato, alcuni vivranno da reclusi
tra monti e foreste, a meditare; altri passeranno la vita
a bere vino e a godersi la compagnia delle donne. Entrambi
i metodi dello Zen sono corretti: miei nemici sono quelli che
diventano chierici di professione, blaterando dello ‘Zen come Via’”
Imprecava contro i papaveri del mondo, che regnano sparpagliando crudeltà; odiava i vili – odiava se stesso quando indugiava per notti su un verso, sulla soglia di un paio di labbra. Contemplare, ai suoi occhi, valeva come conturbare.
Infine, lo vollero alla guida del tempio Daitoku-ji, tra i più importanti del Giappone. Era stato raso al suolo, dopo un decennio di guerra civile. A Ikkyū piacque l’idea di governare sopra rovine. Portò con sé l’antica amata, Mori: eccelleva nel canto, era ormai cieca. Morì, secondo il canone, seduto, nella posizione del loto. Fioriva, dissero, mentre intorno a lui gli alberi, spogli, sembravano sbracciare, come uomini.
***
Ikkyū Sōjun
(Kyoto, 1394 – Kyōtanabe, 1481)
Eremita di monte
È un bene che nessuno mi faccia visita:
preferisco le foglie cadute e i fiori vorticanti
mia sola compagnia. Sono soltanto un vecchio
monaco: vivo secondo la regola del susino
appassito che d’improvviso esplode in mille germogli.
*
Chiuso nella cella, scrivo versi accanto
alla lampada: un monaco-poeta deve seguire
i pattuiti tratturi del suo destino. La primavera
disgela la malinconia, ma la notte è ancora fredda:
lastre di brina sulla mia calligrafia!
*
Relatività
Mentre la natura tornava alla vita
il Buddha morì: una spada separa
anima e corpo. È duro ottenere
la buddità che non nasce né muore:
i fiori appaiono e spariscono
insensati, in primavera.
*
La mia vera dimora
non ha pilastri
e neppure un tetto:
pioggia non la bagna
vento non la abbatte.
*
Di tutte le cose
nulla mi dà più
consolazione
di un decrepito teschio
esposto all’acquazzone.
*
Il mio tugurio
Il mondo è devastato e pallido, proprio come me.
La terra è decrepita, il cielo urla, l’erba è secca.
Nessuna brezza di primavera spazza l’ora tarda
ma solo nuvole invernali che inghiottono la mia capanna.
*
Poesia pari a cibo
Ancora una volta, vago affamato per le montagne dell’Est.
Quando muori di fame, una ciotola di riso vale mille monete d’oro.
Un antico maestro barattò la sua sapienza con una manciata di noci.
Quanto a me, non riesco a non cantare poesie al vento e alla luna.
*
Maestro del Dharma, maestro d’Amore
Vita devota all’amore: non rimpiango
di essere intrappolato, testa e piedi,
in contorti legacci. Non mi vergogno
di essere ciò che sono, una Nuvola Pazza:
maledico questo lungo, amaro autunno
privo di buon sesso!
*
Per dieci anni ho dimorato nei postriboli:
ora sono solo, vivo tra oscure montagne.
Trentamila leghe di nubi mi separano
dai luoghi dell’amore. Unico suono: il vento
che soffia tra i pini, pieno di malinconia.
*
Donne, fiori magnifici: appena sbocciano
appassiscono. Fioriscono volti, arrossati, belli
come sogni. Appena sbocciati, i fiori sono pieni
di passione: una volta caduti, nessuno se ne ricorda.
*
Anche se fossi un dio, dimoreresti tra i miei
pensieri. Alla luce della lampada, scrivo poesie
d’amore. Il vento autunnale mi travolge
il mio cuore è soffocato da vaste nuvole.
*
Alla figlia
Tra le bellezze, è preziosa perla;
piccola principessa in questo triste mondo.
Lei: ineluttabile risposta del vero amore
un maestro è nulla al suo cospetto!
*
Addio adorata Mori
Sotto una cupola di fiori, dieci anni fa, abbiamo
inaugurato la nostra alleanza. Ogni tappa, è stata
delizia, passione senza fine. Che tristezza, non
versare più il mio capo sul tuo grembo. Abbiamo
fatto l’amore giurando di stare insieme per sempre.
*
Dopo essere diventato abate
I discendenti di Daitō estinguono la loro luce;
dopo una notte così lunga e fredda, il gelo
non si incrina neanche di fronte alle mie canzoni
d’amore. Per cinquant’anni sono stato un vagabondo
con giacca di paglia e cappello… Adesso
mi mortificano con l’abito di porpora degli abati.
*
Autoritratto
Lunga spada che lampeggia contro il cielo:
il mio scheletro è esposto perché tutti
possano guardarlo. Io, il colonnello dello Zen,
assaporo la vita e mi do al sesso selvaggio.
*
Poesia per la morte
In questo vasto regno
chi capirà il mio Zen?
Si presentasse pure
il mio maestro: non
vale più nulla!