26 Febbraio 2024

“Al centro di un mistero”. Il “mondo-altro” di Cristina Campo

“Io non so la via ma tu la sai: è il solo ragionamento possibile quando si cammina al buio” scriveva Cristina Campo a Margherita Pieracci Harwell, la sua cara Mita, nel maggio del 1972. Le tachicardie la sfiniscono, vorrebbe scrivere – cioè pregare – ne avrebbe più bisogno che mai, confessava a Mita il 9 novembre 1971.

“Preghi perché io possa riprendere a scrivere, cara. Ne ho un bisogno da piangere. Più che della salute. Più che della pace. È la mia preghiera, quella – e come vivere senza pregare?”

Troppa è la debolezza del cuore e dei nervi. Elémire Zolla non regge la situazione, è sempre più lontano, il loro rapporto fluttua come sospeso ad un filo sottilissimo che pare sempre sul punto di spezzarsi. Cristina sente un “orribile nodo” che la stringe alla gola, eppure, il suo “sguardo-ape” continua a tessere la tela dell’invisibile e a distillarne miele per lo spirito. “Da un mese sono nati alla mia gatta Paki-paki quattro gattini;” dice ancora a Mita “e io vorrei imparare da loro il meraviglioso abbandono col quale piccoli, inermi, incapaci di tutto, si lasciano prendere da me, sollevare in luoghi altissimi (la mia spalla), trasportare in terribili deserti (la cucina o la terrazza), manipolare in cento modi… È il segreto della loro forza e anche della mia tenerezza – come non trattarli con immenso riguardo? Forse a noi tutti è chiesta questa cieca, temeraria fiducia. Le dico queste cose perché ne ho bisogno anch’io, più di lei forse in questo momento. Le parlai, un anno fa circa, di prove angosciose. Non sono finite, al contrario. E a volte – come in questo momento – io muoio letteralmente di paura, come il gattino sollevato improvvisamente su un’altissima spalla. Che fare? Nulla. Chi mi solleva così sa quel che fa. Lasciarlo dunque fare… È immensamente difficile ma è l’unica cosa che abbia un senso”. (8 maggio 1972).

In un paesaggio fitto di nebbia si avverte, potente, l’ingresso in un “mondo-altro”, di cui le Lettere a Mita sono preziose testimoni. Secondo Cesare Galimberti esse costituiscono uno dei tre maggiori carteggi della letteratura italiana, assieme a quelli di Tasso e di Leopardi. Sono l’inestimabile, accorata testimonianza di una lunga e profonda amicizia, nata nel 1952, tra due donne che si incontrano grazie alla comune passione per l’amata Simone Weil e che proseguirà ininterrotta sino alla morte di Cristina, nel gennaio del 1977.

Le ultime lettere a Mita ci restituiscono tutta la “luce” di una fede che, camminando nelle tenebre della “prova”, si allarga oltre misura e diventa cieco abbandono, “temeraria fiducia”, come ebbe a dire tempo addietro, con parole profetiche, Leone Traverso “quell’impeto raccolto, quella perseveranza oltre la speranza, quel respiro anche nell’angustia più tremenda…”.

Dalla fine di aprile del 1971 il cammino di Cristina si fa sempre più impervio, le prove si moltiplicano: “Luce”, scriveva a Mita il 16 luglio 1971, “nel linguaggio di Dio, significa “prova”: un modo di oscurità più alta e imperscrutabile. […] Non sto a dirle di questa prova, la più oscura e misteriosa che io abbia mai traversato, anche perché P[adre] Benedetto (il mio vecchio confessore domenicano, che credevo una colomba ma in questa circostanza si è rivelato un’aquila) mi ha proibito di farne parola. E sarebbe, del resto, impossibile, questo tipo di tempesta non ha parole, un racconto forse potrebbe darne un’idea ma non c’è nessuno abbastanza grande e delicato e terribile per scrivere un racconto di questo genere. Quello che importa è che durante l’intera discesa agli Inferi […], non mi ha mai abbandonata la certezza di trovarmi – e non sola – al centro di un mistero, e di un mistero di grazia. Il tappeto sa, l’altro lato – che si era fatto talmente percepibile nella assoluta inesplicabilità degli avvenimenti da sostenermi veramente sull’abisso come un ‘tappeto volante’”.

Tra le tante costellazioni che Cristina ci ha mostrato, luminosa spicca quella “Luce-prova” che sfida l’incapacità a reggere la geometria della croce, gli immensi pesi che ci spezzano le ginocchia, incatenati come siamo alla terra, senza poter chiaramente vedere ciò che sta lassù e ovunque, imprigionato a sua volta nell’incompreso, nell’inaccessibile. Ma in quel piegarsi delle ginocchia, in quella caduta, vi è anche l’ingresso nel “nudo, ardente deserto”, l’esilio da questo mondo e l’accesso in un “mondo-altro”, quello dei Padri del deserto, cui Cristina dedicherà le sue ultime energie, assieme alle sette celebri poesie liturgiche. “Due mondi e io vengo dall’altro” ripete nel Diario Bizantino, celebrando il nuovo spazio/tempo che le si è rivelato.

Due mondi – e io vengo dall’altro.

Dietro e dentro
le strade inzuppate
dietro e dentro
nebbia e lacerazione
oltre caos e ragione
porte minuscole e dure tende di cuoio,
mondo celato al mondo, compenetrato nel mondo,
inenarrabilmente ignoto al mondo,
dal soffio divino
un attimo suscitato,
dal soffio divino
subito cancellato,
attende il Lume coperto, il sepolto Sole,
il portentoso Fiore.

Due mondi – e io vengo dall’altro.

La soglia, qui, non è tra mondo e mondo
né tra anima e corpo,
è il taglio vivente ed efficace
più affilato della duplice lama
che affonda
sino alla separazione
dell’anima veemente dallo spirito delicato
– finché il nocciolo ben spiccato ruoti dentro la polpa –
e delle giunture dagli ossi
e dei tendini dalle midolla:
la lama che discerne del cuore
le tremende intenzioni
le rapinose esitazioni.

Due mondi – e io vengo dall’altro. […]

Se solo ciò che si dice è, come sosteneva Rilke, allora (cercare di) dirne – ed affidarvisi – è tentare di levarsi in volo in quel “mondo-altro”, “celato al mondo, compenetrato nel mondo,/ inenarrabilmente ignoto al mondo”, attraversarne la soglia, “sino alla separazione/ dell’anima veemente dallo spirito delicato/ – finché il nocciolo ben spiccato ruoti dentro la polpa –” sapendo di essere sostenuti sull’abisso da invisibili mani.

Marilena Garis

Gruppo MAGOG