Mi pare di vederli i critici d’arte di fine Ottocento, mentre ridacchiano al Salon des Indépendants davanti ai dipinti di Henri Rousseau. Quelle pennellate uniformi, quelle foreste ordinate e definite come carta da parati, quelle figure intere sospese senza prospettiva e così lontane dalla realtà; tutto questo deve aver fatto sorridere parecchio gli intenditori. Il povero Henri era un autodidatta, espose le sue prime creazioni passati i quarant’anni, senza una scuola alle spalle, ma soltanto un noioso impiego all’ufficio dei dazi. Insomma, era considerato un dilettante, un pittore della domenica, un corpo estraneo nel circuito dell’arte vera. Soltanto con il passare degli anni, con l’insorgere delle avanguardie e grazie all’acume di alcuni critici, si cominciò a scoprire il valore del suo lavoro.
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Col suo carattere bonario e gentile, perfino ingenuo, egli resta forse tra i pittori meno compresi del suo tempo: c’è chi cercò di vedere in lui un anticipatore del surrealismo; c’è chi lo ha definito come un dilettante dal tratto infantile; c’è chi ha scorto in lui il desiderio spasmodico di appartenere ad un’accademia, incapace però di accorgersi che stava superando ogni tipo di scuola.
Tra i suoi dipinti più celebri ci sono le numerose scene ambientate nella giungla. Queste giungle non hanno nulla a che vedere con la realtà: non ci sono le tenebre, né i grovigli di liane e di piante. Rousseau non aveva mai messo piede in un luogo esotico o pericoloso, e per le sue palme prendeva spunto dalle serre parigine. Era naturale perciò che le sue giungle somigliassero a dei giardini botanici, giungle ordinate, definite, simmetriche, dove il cittadino può passeggiare tranquillamente senza temere alcun male. Perfino le bestie feroci come leoni e serpenti sono addormentati, o incantati in una dimensione onirica e inoffensiva. Questa distanza dalla realtà gli varrà in seguito soprattutto il nome di anticipatore del realismo magico.
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Ci sono delle eccezioni, però, che non possono essere ignorate. Alcune scene dipinte da Rousseau raffigurano una tigre feroce mentre attacca la sua preda o mentre vaga nella foresta tropicale. Come molti critici fanno notare, perfino questo animale feroce non incute alcun timore nell’osservatore. Già, la tigre sembra incollata lì come le figurine degli album dei bambini. Oppure la figura sinuosa del felino si sposa e si amalgama con le forme curve dei canneti e delle foglie al vento. Non ha la sguaiata violenza della tigre di Antonio Ligabue, che pare debba inghiottire chi si ferma ad osservarla. Le tigri di Rousseau sembrano domestiche, anche quando digrignano i denti, ma a differenza degli altri animali sono coinvolte in momenti di lotta, aggressione e violenza. Come possiamo decifrare allora questa violenza ovattata delle tigri di Rousseau?
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Dai tempi di William Blake la tigre viene eletta come la belva pericolosa per eccellenza, solitaria, cacciatrice spietata, tanto che il poeta inglese osa domandare: “Mentre gli astri perdevano le lance tirandole alla terra / e il paradiso riempivano di pianti? / Fu nel sorriso che ebbe osservando compiuto il suo lavoro, / Chi l’Agnello creò, creò anche te?” quasi che per Blake fosse impossibile che la stessa mano avesse potuto generare il bene e il male, l’Agnello e la tigre.
Anche Rudyard Kipling ne Il libro della giungla personifica il male nella tigre Shere Khan, un animale zoppo e meschino che non possiede qualità, ma che caccia bestie d’allevamento e cuccioli d’uomo anziché sfidare la natura selvaggia, una creatura che si intromette in questioni che non gli competono e non esita a macchiarsi di tremende nefandezze solo per riempire il suo stomaco. La tigre di Kipling rappresenta la malvagità del caos, l’abbrutimento e il gozzoviglio, contrapposto all’onore di chi rispetta le leggi della giungla. Questa belva che zoppica ricorda così la deformità del Riccardo III di Shakespeare, inadatto alle gioie della vita e perciò deciso a mostrarsi malvagio, così che deformità e crudeltà diventano un binomio inscindibile, l’uno causa dell’altro. Ma Kipling sembra cercare una spiegazione a questa malvagità attraverso una leggenda che ricorda il Peccato Originale. Un tempo la giungla era un paradiso terrestre dove gli animali potevano vivere pacificamente gli uni accanto agli altri, tigri incluse. Per via di un malinteso, l’antenato di tutte le tigri, la Prima Tigre, avrebbe però ferito a morte un cervo, macchiandosi così di omicidio. La Prima Tigre fuggì via, resa folle da quel suo gesto, ma la giungla la marchiò per sempre, così gli alberi gli graffiarono il manto fino a far comparire le nere striature. Ecco allora che queste righe nere, marchio dell’infamia, “agghiacciante simmetria” per Blake, hanno sancito l’ingresso del male nel mondo.
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Dopo tutto questo, cosa rappresentano le tigri di Henri Rousseau? Qualcuno vede nei suoi dipinti una rappresentazione ideale della realtà, una visione fanciullesca, non infantile, ma innocente. Le tigri di Rousseau chiedono perdono, chiedono di tornare a colorare la foresta dell’infanzia. Spesso si dimentica quanto quest’uomo ha sofferto in vita sua, costretto ad un lavoro senza qualità e a sopravvivere alla morte di due mogli e di sei figli. Le numerose lettere inviate a sindaci, giudici e sottosegretari in cui chiede col massimo garbo di acquistare qualche suo dipinto, denotano una lotta non violenta, ma paziente e tenace per la sopravvivenza; e sebbene le tragedie familiari si susseguano una dopo l’altra, Rousseau resta al riparo dentro quei paesaggi da souvenir, da palla di vetro con la neve che cade piano piano, da cui però traspare, a mio avviso, una certa tristezza. In tutti i suoi dipinti, anche quelli che raffigurano momenti di festa, c’è sempre qualcosa di malinconico, come un velo sottile che torna ogni volta a incrinare le intenzioni del pittore. Come suggerisce Elena Pontiggia, Henri Rousseau ha il merito di aver compreso “che la realtà non è una fiaba, ma si può raccontarla come se lo fosse, creando così una sorta di realismo fiabesco”. Forse una possibile cura all’orrore quotidiano. Una vita nella giungla pare cento volte più serena di una vita nella modernità.
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«Lasciate in pace questo vecchio gentile che dipinge le sue giungle armoniose, le belve addormentate o addomesticate», vorrei dire ai critici di fine Ottocento. Egli lascia trasparire dalle sue pennellate tutta la tenerezza di cui è priva la realtà. La mostruosità e l’efferatezza hanno finalmente trovato in Rousseau una conciliazione, una felicità insperata, la quiete senza sfarzo dell’Eden.
Valerio Ragazzini
*In copertina: Henri Rousseau, “Sorpresa! (o Tigre in una tempesta tropicale)”, 1891, National Gallery, Londra