Quando faccio avanti-indietro in un rettangolo di 25 metri pieno d’acqua, le piastrelle, in basso, sono le tessere di un mosaico che accerchiano un Cristo Pantocratore in assenza, e nonostante le zaffate di cloro, mi sembra di essere in cielo. Tra il nuoto e il volo c’è qualcosa di simile, al di là dell’azzurro intorno: inabissarsi, forse, significa ascendere, e il nuotatore, in fondo, afferra l’acqua come fosse una corda, una geologia del vento. Ho sempre pensato che ci sia sintonia tra il nuoto e la scrittura: la grazia come esito dell’obbedienza (allenamento!), la traccia che infine l’acqua – o il tempo in cui portare a maturazione gli occhi – assolve e divora, il corpo simile a un ideogramma. Di questo rapporto, Valentina Fortichiari – che è stata nuotatrice agonista, che ha vissuto lavorando nell’editoria, che è, parole sue, “rabdomante d’acqua” e “scrittrice d’acqua” – ha fatto la trama dei suoi libri, da Lezione di nuoto (Guanda) a Non ha mai quiete. Leonardo e l’acqua (2015), fino a quest’ultimo, edito da Bompiani, La cerimonia del nuoto, che comincia con un inno alla “magia del nuoto”, un repertorio dei rapporti simpatici tra gli scrittori e l’acqua (“Il nuoto occupava un posto significativo nella mente di Shakespeare. L’austero Goethe faceva il bagno tutto l’anno, persino di notte in pieno inverno, talvolta con pantaloni e panciotto, nel fiume che scorreva in fondo al suo giardino, a Weimar”), poi procede tra narvali (“l’unicorno dei mari”), squali, capodogli, cavallucci marini, foche (“Il vociare dei bambini la infastidiva, ma dopo tutto per lei era anche un modo per distrarsi, nel corso delle sue lunghe giornate sempre uguali e monotone. Ma il rumore no, quello no, proprio non lo sopportava”), con l’intenzione kiplinghiana d’intuire l’intimo della creatura. E poi ci sono racconti di creaturale nostalgia (Mio padre, nuotando). Così, con Valentina, dissennando lo smoking dell’intervista in muta oceanica, abbiamo giocato a fare un po’ di zoologia letteraria. (d.b.)
Intanto, cara Valentina, cosa c’entra il nuoto con la scrittura? Io penso che c’entri con il fatto che si entra in un elemento primordiale ma anche alieno – l’immaginazione è l’acqua, la mente è liquida – e che bisogna definire una disciplina al passo narrativo. Dimmi tu, però.
Sì, la tua è una interpretazione affascinante, alla quale non avevo pensato, grazie. Posso aggiungere che ‘per me’ nuotare e scrivere hanno in comune i sensi, che sono sempre in allerta, e dell’acqua fanno una bandiera di stile: rigore, essenzialità, levigatezza. L’acqua (e nuotare) mi ha aiutata ad…asciugare la scrittura, a lavorarla sino a renderla un osso di seppia, liscio, senza spigoli o scorie, levigato.
Vorrei fare un gioco. Avvicinare alcuni elementi che tocchi nel tuo libro (protagonisti del nuoto, animali marini) chiedendoti di paragonarli a scrittori o libri che ti riguardano. Cominciamo. Qual è il campione di nuoto che hai ammirato di più e qual è il ‘campione’ tra gli scrittori con cui hai lavorato, direttamente o meno?
È un gioco divertente, ci sto, proviamo. Nel nuoto ho ammirato Michael Phelps, per la sua nuotata di potenza e grazia, a farfalla (butterfly) o delfino che dir si voglia. Ma il campione americano, considerato il più grande nuotatore di tutti i tempi, era soprannominato “lo squalo di Baltimora”, forse perché non si è mai arreso, nella vita (cresciuto senza padre), nella carriera natatoria. Uno che ha lottato sempre, e anche questo di lui mi piace. Fra gli scrittori con i quali ho lavorato posso nominare solo l’indiano Vikram Seth, il più intelligente, vivace intellettualmente, divertentissimo. Era un piacere stargli accanto. È un grande nuotatore, che anche d’inverno nuota nella Serpentine a Londra, senza muta. Ha un passo lungo nella scrittura, al Ragazzo giusto (The suitable boy, il suo libro più importante e imponente), lavorò per una decina d’anni, con potenza, resistenza, grazia. Un romanzo paragonabile all’epopea dei grandi russi.
A questo punto, chi è il Michael Phelps della scrittura?
In pratica ho risposto, nominando Vikram Seth, ma se proprio vuoi un altro nome, aggiungo il nome di Jorge Luis Borges, l’incomparabile. La sua fantasia è un volo di farfalla, che si posa ovunque.
Quale scrittore, tra quelli con cui hai lavorato o che hai amato, è lo squalo? Naturalmente, il gioco funziona perché mi devi dare una sommaria spiegazione che giustifichi l’analogia.
Direi che ho amato, che continuo ad amare (ho appena divorato Serotonina) Michel Houellebecq. È uno squalo doc, le cui peculiarità – come nell’animale marino – sono la sfida, la temerarietà, la potenza di parola e d’immagine, la distruzione dei falsi miti dell’umanità, l’odio, la violenza.
E il cavalluccio marino?
E qui dovrei pensare alla delicatezza, alla grazia ancora (che a volte comunque io intendo come risvolto di garbo e carattere), alla mitezza, e persino all’inapparenza. Il cavalluccio marino deve imparare a difendersi da ogni predatore, viaggia lieve, lento, nuota e vola con le sue alucce, sa nascondersi e mimetizzarsi, è timido, non ama farsi vedere. È, fra le creature del mare, forse il mio preferito. Dunque è difficile, ma io vedo Robert Walser, che lasciò dopo pochi passi sulla neve – morendo – impronte lievi. Ma che lezione nella scrittura.
E il narvalo?
Oh qui siamo quasi nella natura preistorica degli esseri marini, il narvalo, quell’animale dotato di un grande dente che usa per combattere, e che lo rende così bello a vedersi. A me fa davvero pensare a un essere antidiluviano, e poi vive nel grande Nord. Non è facile, sai? Quale scrittore o scrittrice ha il passo del grande Nord oppure rappresenta le radici irrinunciabili delle nostre letture? Potrei dire Salgari, che a me ha dato un imprinting magico da bambina, per l’avventura, la fantasia esuberante, la presenza del mare in ogni suo libro. Ma la mole, la scoperta della letteratura da assaporare lungamente, una scrittura lenta, maestosa, che si muove come il narvalo e occupa lo spazio di lunghi giorni e continua nella testa, lasciando segni indelebili, appartengono a Flaubert, Tolstoj.
A chi pensi pensando al “capodoglio solitario” e a chi pensi immaginando Moby Dick?
Il capodoglio solitario e la balena bianca, rarissima. Spesso si muovono senza compagnia e amano stare soli. Rappresentano il mare nella sua essenza più nobile, misteriosa, sconosciuta, abissale. Non posso che nominare i grandi scrittori del mare che amo da sempre, Melville, Stevenson, con le loro sinfonie delle profondità, ma – di recente – anche due libri magnifici: Leviatano di Philip Hoare (Einaudi) e Il libro del mare o come andare a pesca di uno squalo gigante di Morten A. Stroksnes (Iperborea).
In alcuni racconti, dimostri un certo fascino per il Nord, estremo. Ecco, chi è lo scrittore italiano più ‘nordico’ secondo te, che ha la tenacia e l’abisso di un fiordo?
Si, adoro i mari e i cieli del grande Nord. Se mi dici italiano non posso comprendervi Alice Munro e i suoi racconti, che mi hanno dato una felicità di lettura simile a quella provata con Cechov. Allora vorrei dire, senza esitazioni, Italo Calvino. Non è nordico, ma ligure, eppure la fantasia, la tenacia, la follia, l’abisso, la mutevolezza, io li sento. Pensa solo ai racconti de I nostri antenati.
Lo scrittore come foca: dammi un nome.
La foca giocherellona, la vitalità immaginifica, le acrobazie linguistiche: Alberto Savinio. E gli metto vicino Cesare Zavattini, non suoni scandaloso. I due hanno molti elementi comuni, più di quanto non sembri.
Chiudo. Un giudizio sulla letteratura italiana di oggi. Siamo in mare aperto, in un oceano ignoto, o in un tranquillo lago casalingo?
Non ho nessun titolo per giudicare, ma propenderei per… un tranquillo lago casalingo. Ma tu sai che il lago ha profondità che nascondono sorprese e a volte pericoli. Le acque di un lago non sono mai tranquille, e per nuotarci bisogna stare accorti. Magari un Loch Ness se ne sta sul fondo, pronto a stupirci. Nell’attesa, io continuo a leggere e rileggere Guido Morselli, la cui ‘tenuta’ letteraria oggi è sorprendente.