21 Ottobre 2019

“I miei sono alfabeti divertenti e indecifrabili, impazziti, farneticanti, commossi, felici, disperati…”: ho parlato con Joan Miró a Napoli

Nell’ultima sala espositiva del Pan di Napoli, alla mostra su Miró, da una foto a parete di Joan Miró mentre lavora alle tele bruciate nel dicembre del 1973, di fianco ad altre foto di Joan Miró mentre lavora ai sacchi Sabreteixim nella fabbrica Farinera di Terragona, mi prende un colpetto di sindrome di Stendhal con degli strascichi bernhardiani alla Antichi maestri. Quando si ha a che fare coi catalani come Joan Miró bisogna stare attenti a come il vento sposta gli accenti dal grave all’acuto, Aldo Busi in El especialista de Barcelona mostra come anche attraverso la punteggiatura si dia vita a un romanzo e quindi all’autobiografia di una nazione, e Joan Miró è l’artista della punteggiatura, la sua arte è l’invenzione di un nuovo sistema segnico ancora tutto da pronunciare.

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Joan Miró dalla foto nell’ultima sala espositiva al Pan di Napoli comincia a parlarmi, ha ottanta anni nella foto, un grembiule nero sulla camicia bianca, ha anche la cravatta: cravatta nera e camicia bianca e un grembiulone nero da lavoro, per potersi impolverare e sporcare, grandi occhialoni neri e i capelli bianchi, il volto chiazzato dalla vecchiaia, sul volto di Joan Miró sono apparse delle macchie rosse che si possono definire mironiane, raccontano la storia di Joan Miró.  Joan Miró – ve lo diranno tutti i dilettanti che s’appassionano a Miró per la durata di un pomeriggio – comincia con le macchie: all’origine di tutto c’è la macchia, poi viene il dipinto, il senso successivo e superfluo è inserito nella descrizione che diventa titolo, il titolo che arriva dopo è un rispondersi alla domanda – Ma cosa ho fatto? Prima c’è la macchia e le macchie mironiane sul volto di Joan Miró sono una espressione dell’arte di Miró sul corpo di Miró. Il volto di Miró è un quadro di Miró. Dalla foto nell’ultima sala espostiva della mostra su Joan Miró al Pan di Napoli, proveniente o dalla Successió Miró di Palma di Maiorca o dagli archivi del fotografo catalano Francesc Català Roca a Barcellona, quello che non sta succedendo a Barcellona in questi giorni, dopo le pesanti condanne comminate agli indipendentisti catalani!, da quella foto Joan Miró mi parla con la sua voce di ottantenne e nella mia mente la traduzione è simultanea e ha tutti gli accenti all’italiana: “Quando capisci che è finita? Basta calpestare la tela solleticata col cannello o dare l’ultimo punto col dito intinto nel barattolo del giallo o del verde per fare un quadrato nel delta del rosso e del nero? Sono un simpatico vecchietto, ho un aiutante barbuto, si chiama Josep Royo, mi sento a mio agio con questi abiti da operaio, no, da artigiano: con le forbici, il punteruolo, la pennellata. Mi diverte il mio cantiere, mi chino sulla tela come su uno scavo o come su un calderone. La tela è un pentolone e i miei quadri sono i fumi e i vapori che vengono su da tutto quel ribollire. Quando sono convinto, o quando sono stufo, o quando sono stanco, porto tutto in cortile. Appoggio le tele agli alberi per farle asciugare e raffreddare. Mi gratto la testa, mi chiedo: – Ma sarò matto? Cosa mi ha preso? Ormai è fatta. E poi non sono brutte per niente. Me le accarezzo, come fa un fresatore con i pezzi passati al tornio, come fa il falegname innamorato. Passeggio nel cortile, oggi mi stanno riprendendo, mi fanno un video, mi sento come Eduardo De Filippo quando registrava le rappresentazioni teatrali e allora era come se dovesse recitare due volte: una volta come attore nella rappresentazione teatrale svolta davanti al pubblico e un’altra come attore registrato che deve fingere di essere quell’attore della rappresentazione teatrale svolta davanti a un pubblico che non c’è, e non chiedetevi come mai io, Joan Miró, stia facendo un riferimento a Eduardo De Filippo: sono pur sempre soltanto una fotografia che parla. Io non ho più nessun bisogno di parlare: ho lasciato tutto detto con i miei quadri illetterati, per tutta la vita ho dipinto la punteggiatura per quelle frasi per le quali non c’è ancora abbastanza linguaggio, manca lo strumento o spettro o frequenza o temperatura o radiazione o rumore o costrutto o ritmo o pensiero: o le dipingevo io così o non si sarebbero ancora mai potuto intuire. Mi siedo. Mi accoscio. Che giornata, ma chi vi ha chiamato? Una volta metto il grembiule da lavoro, un’altra volta il maglioncino, il fustagno per le braghe. Uso il temperino se mi va. Sono il pittore pagliaccio. Vi parrà tutto ridicolo. Qui non fa molto caldo. Forza ragazzo, diamo fuoco! Dico a Josep. Quando passo del bianco sul rosso non chiedetemi cosa sto facendo. A volte ho avuto paura di bruciare tutto! Non ve lo tengo nascosto. Sono contento che abbiano esposto le mie tele bruciate nell’ultima sala, quasi di fianco alla manichetta antincendio: potresti srotolarla e indirizzare il getto contro la foto in cui c’è la tela mentre brucia. Questo è il minuto dell’acrobata, lo scatto del pittore-che-dipinge, lo scatto del pittore-che-dipinge-bruciando-la-tela, ma dovete sapere che tutto accade prima. Accade sempre tutto prima, in un prima che non poteva avere idea che sarebbe diventato una forma, una situazione di pittura, una tela bullizzata appoggiata al gambo di corteccia di un albero in cortile, e io me la guardo come la stessi mandando in stampa dopo la correzione dell’ultima bozza. Dipingo quadri, i significati sono a parte, in un cassetto o in un armadio che non si trovano a casa mia o nella mia fabbrica. Ho dipinto tante teste e una era completamente nera tranne un pezzo di vecchia mappa e una sagoma di un qualche colore. Mi riferisco alla Tête del 31 dicembre 1973, è un olio e collage su tela, si trova qui nella stessa sala con le tele bruciate e i buffissimi Sabreteixim. Ecco, io mi immagino così la verità di ogni ritratto. Qualche ricordo di una geografia interiore, qualche resistenza di emozione, e poi tutto quel nero buono per riempirsi di stelle e uccelli, di ballerine sottili e sinuose come corde di chitarra, o di un bel niente. Come certe mie giornate nere, tutte nere. Se ne sono viste di cose, mica solo in Spagna nel ’36. Lasciatemi colorare e bruciare, tagliare e macchiare con il giallo e con l’azzurro. Vi fanno paura e allegria come a me le mie scritture? Aliene. I miei sono alfabeti divertenti e indecifrabili, impazziti, farneticanti, commossi, felici, disperati. Io sono quel pittore che non sa scrivere, che voleva scrivere con una scrittura nuova, che ha scritto tutti i giorni con l’olio, l’inchiostro, la matita, il pastello, il caolino, la lana, il cartone, il bianco, il nero, che ha scritto tutti i giorni delle frasi indicibili. Siate onesti, di fronte a queste strane tele pazze, stralunate, scombinate, ditemi: sono o non sono le più belle?”.

Antonio Coda

*In copertina: Joan Miró (1893-1983); la mostra “Joan Miró. Il linguaggio dei segni” è in atto al Pan di Napoli fino al 23 febbraio 2020

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