Tradotto nel 1987 negli Stati Uniti (ma era apparso in Francia, per Fayard, quattro anni prima), divulgato da Penguin dal 1989, The Velvet Prison, saggio aggraziato e pieno di unghie, che narra il destino degli “artisti in uno Stato socialista”, è un inno all’individualismo assoluto, lotta a cielo aperto – a perdere – contro ogni coercizione statalista. Ne parlarono, all’epoca, un po’ tutti. Il 20 novembre del 1987 il “New York Times” lo elegge Books of The Times:il libro ottiene un generico plauso – è il primo studio, dalle maglie del regime, a mettere in guardia contro le ‘aperture’ dei regimi socialisti, che puntano, sempre, all’“integrazione sociale”, cioè a neutralizzare la forza eversiva dell’arte. Il giornalista, tuttavia, si mostra perplesso di fronte alle posizioni estreme dell’autore, pur sostenute brillantemente, che stigmatizza le ipocrisie della “nuova sinistra” di Herbert Marcuse, “cita Bertolt Brecht come esempio di quanto una mente indisciplinata possa diventare ‘domestica’ quando gode dei piaceri del potere”, è certo che Aleksandr Solženicyn “se fosse nominato presidente dell’Unione degli scrittori, comminerebbe l’espulsione dell’autore di Arcipelago Gulag”. Soprattutto, l’autore criticava Gorbačëv e l’epica della glasnost’, un tentativo, scrive, “di avvolgere nel velluto le sbarre della prigione sovietica”. In sostanza, gli artisti sono cullati dal potere per farsene servi: cosa non si fa per la fama, per il quieto vivere, per il ‘bene comune’…
L’autore di The Velvet Prison, Miklós Haraszti, nato a Gerusalemme nel 1945, scriveva dall’Ungheria. Poeta, giornalista, cofondatore di un periodico sovversivo, “Beszélő”, aveva studiato a Budapest, era stato espulso, costretto al lavoro in officina. Il suo studio sul “Lavoratore in uno Stato operaio” gli aveva garantito l’arresto. Negli anni, preferì l’impegno giornalistico e politico a quello poetico: membro del parlamento ungherese negli anni Novanta, ha lavorato, fino al 2010, all’Osce. Il suo libro, che circolava nel sottosuolo dei paesi socialisti, specie di manuale per i dissidenti dell’Est, è finito in oblio. Lette oggi – qui traduciamo il capitolo “L’estetica della censura” – le sue tesi si attagliano perfino a noi, al nostro mondo: l’educazione coordinata dallo Stato non ci farà buoni cittadini, ma ha forgiato inconsapevoli burocrati del pensiero unico, pallido, anestetizzato. L’arte, in effetti, ha senso, ora, purché sia utile, socialmente impegnata, comprensibile, semmai divertente, mai diversa. Ogni ribellismo è proclamato a favore di pubblico, ha la banalità delle urla sguainate per confortare un’opaca idea di reazione, che rivela il più bieco servaggio all’oggi; d’altronde, tutto è in vendita, tutto è venduto. Come scrive Haraszti, il criterio è sempre quello dell’“integrazione sociale”: l’artista, che dovrebbe praticare le asperità della solitudine, primeggia tra i conformisti.
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L’estetica della censura
Esistono due modelli ideali che definiscono l’estetica della censura: ciascuno impone o alimenta il consenso culturale. Uno può essere chiamato stalinista, l’altro post-stalinista, ma poiché spesso entrambi i sistemi coesistono potremmo dire che uno è “duro” l’altro “morbido”. In Unione Sovietica, ad esempio, il breve periodo di effervescenza artistica, seguito alla rivoluzione bolscevica, fu presto eclissato sotto il rigido dogma di Ždanov. Così, a un periodo tollerante (morbido) seguì un’era brutale (duro). Con la destalinizzazione, la politica estetica socialista si arricchì delle virtù “civili” promosse da Chruščëv. In Cina le fluttuazioni sono più spettacolari e drammatiche. L’era dello slogan “Sboccino cento fiori” riguarda già la reazione a un periodo di ferocia estetica: è stato sostituito dallo spirito intollerante della Rivoluzione culturale. Finora, lo yin e lo yang delle politiche morbide e dure si sono alternati.
Durante lo stalinismo, lo Stato si è impegnato a reprimere i propri oppositori, reali e immaginari. La paranoia è il tratto distintivo di quell’era: tutti sono sospetti, sono potenziali eretici. Lo Stato si sente sotto assedio. La società è militarizzata, si costruiscono bastioni, si impartiscono ordini. Gli artisti sono soldati da arruolare nella battaglia necessaria a consolidare la vittoria del socialismo. L’arte è una sorta di musica marziale, un richiamo che accompagna le truppe in guerra. Gli artisti devono agire come portabandiera, devono incoraggiare, dotati del piglio del fanatico occupano un ruolo preciso nella battaglia. I dipinti si tramutano in manifesti, il teatro è agit-prop, i film diventano cinegiornali, la letteratura pura propaganda. Essere neutrali è tradimento, l’ambiguità è un tradimento.
Man mano che lo Stato socialista si consolida, però, questo sistema diventa inutile. Lo Stato può rilassarsi. La repressione palese non è più necessaria, perché tutti sono sottomessi. Allora, è l’era delle riforme, si frenano soltanto gli “eccessi”, si condannano i reati. Tuttavia, si tratta di una libertà apparente, che non deve essere confusa con un’autentica diminuzione del controllo statale o da parte del partito; quella libertà esiste nella misura in cui i cittadini hanno accettato di essere assimilati. Lo Stato non deve imporre l’obbedienza a cittadini obbedienti: costoro hanno imparato a vigilarsi.
La politica estetica della censura inizia a cambiare – spesso con glaciale rapidità – e diventa “morbida”. Gli artisti, entro certi limiti, possono perfino sperimentare. I confini di ciò che è consentito si dilatano. Naturalmente, l’arte è ancora a servizio dello Stato, è utile a rinforzare il socialismo, ma l’artista può imporsi dei compiti specificamente propri. Tuttavia, non è ammessa alcun tipo di arte che si riferisca soltanto a se stessa, a ossessioni proprie: tale arte sarebbe accusata di solipsismo, egocentrismo, autoindulgenza. L’arte, comunque, deve rispettare gli scopi pubblici. Solo in questo senso l’arte è “privata”: purché sia asservita allo Stato, priva di sé, dunque, anche perché soltanto lo Stato sovvenziona la produzione di arte e la sua distribuzione al pubblico.
In altre parole: l’artista-soldato armato di penna e di pennello durante lo stalinismo, viene smobilitato e ridotto allo stato civile. Resta, tuttavia, in servizio attivo. L’arte “privata” è necessaria a giustificare le pacifiche conseguenze del post-stalinismo, ma non significa la rinascita dell’individualismo. Al contrario, è il segno dell’assimilazione permanente dell’individuo alle convenzioni sociali. L’artista poststalinista è il modello del nuovo individuo: lo Stato indica la via per esplorare il proprio talento, e il poeta intona il canto. Anche laddove l’arte poststalinista sembra manifestare segni di protesta, questa non è in opposizione al controllo statale ma alle vestigia staliniste: è una pura reazione alla nostalgia per la cultura della legge marziale. Tale arte chiede che lo Stato riconosca i suoi progressi, tutto qui.
Gli artisti di Stato, in fondo, si sentono minacciati dai dissidenti che lottano per la restaurazione dell’individuo. Nell’era dell’estetica della censura “morbida” si lavora duramente per convincere lo Stato che non esistono più nemici. L’individualista, un romantico, compromette questo progetto, minaccia il ruolo dei consulenti che regolano i bisogni culturali del momento, sovverte la solidarietà civica, non accetta.
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I tempi difficili sono tramontati
Riconosciamolo, è chiaro a grandi e piccoli: viviamo nell’era aziendale. Il segreto della nostra felicità è nel coinvolgimento totale e incondizionato con la corporation in cui siamo impiegati. Abbiamo un lavoro fisso; ci muoviamo se c’è un appuntamento; il nostro ruolo è risolto nel lavoro. Ognuno di noi, a proprio modo, è persuaso di aver stipulato alla nascita un contratto sociale vincolante, forse conveniente. L’artista, in questo contesto, è il grande intrattenitore, è il mistico dell’etica aziendale. Non è che un professionista, il possessore dell’estetica del bene comune, del prestigio dell’azienda statale.
L’arte poststalinista condivide un aspetto dell’arte stalinista: consolidare l’integrazione sociale. La differenza è che l’estetica della censura “morbida” è progettata per un pubblico incorporato da tempo nello stato socialista, per cui la socializzazione non è uno scopo ma il fondamento della nuova estetica.
Gli artisti, dunque, sono parte integrante della cultura di Stato. Come noi, sono il prodotto del genio di quella cultura. Anche noi, in effetti, abbiamo raggiunto i nostri privilegi grazie al sistema educativo statale. Le selezioni agli esami mettono alla prova la nostra fedeltà, perfezionano la qualità del nostro lavoro. La selezione si basa su criteri che pertengono a principi strutturali, senso dello stile, conoscenza della tradizione, consapevolezza della realtà, apprezzamento del pubblico, sensibilità verso il contesto sociale. Politicamente, l’artista poststalinista non ha più bisogno di dichiarare la propria fedeltà: essa è conclamata, la si presume, è un dato di fatto. Durante lo stalinismo, tutti, fino a prova contraria, erano colpevoli; oggi è il contrario. Siamo formati per diventare esperti di critica sociale. Anticipiamo le riforme, leggiamo tra le righe, critichiamo la società con un acume non dissimile da quello dei membri del Politburo. Se abbiamo rotto con le restrizioni della tradizione stalinista è per realizzarne con più accuratezza le intenzioni. Ogni opera d’arte, dunque, non si oppone al primato della pianificazione statale, non fomenta una visione propria, in contrasto con l’ordine esistente. La neutralità è costruttiva.
La classe media organizzata, quella che mantiene l’economia, i servizi e la cultura di Stato, i dipendenti con un equivalente background educativo, la futura élite, la comunità dei pianificatori statali, ama i cantori pacificati e apatici, i poeti che traggono ispirazione dalle lamentele sussurrate dagli assimilati. L’arte, ormai mansueta, non glorifica l’élite, la addomestica, la conforta, la contiene, facendo della sincerità un culto. Non siamo autorizzati a determinare l’estensione della libertà, dicono tali artisti, ma finché accettiamo la giurisdizione generale e generosa dello Stato, accordiamo i nostri sogni ad esso. Gli artisti di Stato sono felici che la libertà promessa sia quella che si sviluppa entro i vincoli della cultura statalista. Costruiscono la cultura statale con i mattoni del libero arbitrio. La coscienza si sostituisce alla coercizione; il consenso è modellato da principi non scritti, da divieti volontari, da un’autocensura inconscia. Durante lo stalinismo, la nostra situazione era quella del pesce in un acquario chiuso a chiave dal proprietario, terrorizzato dalla possibilità che il suo animale voglia fuggire. Passato lo stalinismo, il proprietario è diventato più saggio, il pesce più felice. L’acquario è lo stesso.
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Il divieto dell’arte solipsistica
Il principio estetico più duraturo e istintivo del socialismo è il divieto dell’arte per l’arte. Questo divieto permea tutte le sfere del lavoro creativo, anche dopo l’abbandono del marxismo-leninismo come pensiero unico. È più profondo, intrinseco, specifico del terrore per la polizia. Qui non s’intende, va da sé, soltanto il rifiuto di una famigerata filosofia artistica, l’art pour l’art. A differenza dell’artista-esteta, l’artista di Stato si sente sempre in debito con il mondo, si assicura che l’opera non sia accurata, ma illuminante.Inammissibile che un capriccio, una folgorazione narcisistica metta in discussione l’oggettività consolidata dei valori “reali”. Che tra le leggi del mondo interiore e quelle del mondo esterno ci sia sempre un ponte, come tra le passioni private e quelle pubbliche, tra il piacere artistico e il bene comune, dice l’artista di Stato.
Non si tratta solo di estetica elitaria o esoterica: soprattutto, è il solipsismo a essere condannato. La cultura statalista considera solipsistiche tutte le aspirazioni autonome, spontanee, incontrollabili, individuali, sfuggenti. Il divieto dell’arte solipsistica è equivalente all’orrore che si prova al cospetto della follia: normalizza l’arte. L’arte che riflette sul proprio mezzo è mero “formalismo”; solipsista è l’artista che nega il primato del “contenuto”. Anche il “contenuto”, in effetti, può essere bollato come solipsistico se non si connette a uno qualsiasi dei miti della cultura statale, ad esempio, “il collettivo è bello”, o “la verità è unica”.
La formazione culturale imposta dallo Stato è completa soltanto quando l’artista interiorizza il divieto dell’arte solipsistica. Questo divieto è il cardine dell’arte di Stato, come il principio di autonomia era quello dell’arte antica. Le ambizioni individuali minacciano di separare il pubblico dal privato, vanificano il processo di integrazione sociale, sono in contrasto con il bene comune. Lo Stato, dunque, si oppone a ogni forma di arte solipsistica, opponendosi, così, a ogni forma di individualismo.