
“L’arte insegna una libertà pericolosa, antisociale”. Per Philippe Sollers
Politica culturale
Ciò che colpisce nella sua pittura è il tormento per qualcosa che continuamente sfugge, l’inquietudine di un soggetto ontologicamente alieno alla staticità, a quella fissità dell’immagine che inchioda a sé stessi. C’è una voce che si leva dai suoi ritratti e dice qualcosa di ancora più spaventoso del classico “io sono uno, nessuno e centomila”, spingendosi fino all’estremo del montaliano “solo questo oggi possiamo dirti,/ ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”. E ciò si vede immediatamente anche guardando, oltre la sua pittura, ai disegni fatti a penna, nei quali centinaia di linee si contorcono, incontrandosi, per costruire un soggetto.
Non si può non apprezzare l’opera di Giuliano Macca con quella sua attenzione così classica, quasi umanistica, verso l’uomo, ma declinata in chiave contemporanea. In previsione della sua mostra romana, curata da Michele Von Buren, che sarà aperta dal 16 al 17 maggio, siamo andati a sentire l’artista siciliano, nel tentativo di far conoscere al lettore anche un altro nome oltre quelli più noti da manuale – ovvero lì dove, tragicamente, si arrestano le conoscenze dei più.
La biografia di un artista è fatta prima di tutto dai suoi amori artistici. Ciò che siamo è sempre il frutto di ciò che abbiamo apprezzato nel tempo. Quali sono i pittori sui quali hai formato il tuo gusto e stile, e i motivi per cui li apprezzi?
Ovviamente amo tutta l’arte e tutti gli artisti, però ce ne sono alcuni, seppur molto distanti cronologicamente tra di loro, dei quali posso dire che mi hanno formato più di tutti gli altri: Goya, Alberto Sughi, Tranquillo Cremona, Guido Reni e Picasso. Il più importante per me è Tranquillo Cremona, per un fattore prima di tutto affettivo, direi. A casa di mio nonno c’era una copia di una sua opera. Il convivere con quel quadro da bambino, avendo fin da allora una propensione per l’arte, mi ha portato a sviluppare quel gusto delle pennellate nello stile della scapigliatura milanese (di cui Cremona era parte), in cui le figure sono prive di margini forti, dando quasi un senso di nebbia. Di Picasso apprezzo invece il processo evolutivo: il fatto di dipingere molto bene in adolescenza per poi andare a ricercare una scomposizione del volto che lo ha condotto alle soluzioni che tutti conosciamo, al cubismo e oltre. Per me lui è un esempio di vita perché è andato a ricercare non l’archetipo del bello, ma qualcosa di diverso, di più personale, abbandonando la tecnica classica. Goya per il sangue, gli scenari, quei cieli pazzeschi, il buio, questa notte che sembra quasi l’inconscio. Sughi semplicemente per la sua pulizia nella sporcizia, perché non è pulitissimo come artista ma la sua è una sporcizia molto raffinata. Adoro, inoltre, il modo in cui è riuscito a rendere la solitudine nel bar. Di Guido Reni, infine, adoro il rosso, il modo in cui lo usava.
C’è un’altra forma d’arte che per vie traverse abbia influenzato la tua pittura?
La musica. Io con la musica sbagliata non dipingo come dipingerei con quella giusta. Vivaldi, Chopin sono i miei punti di riferimento. Se ascolto le Quattro stagioni, anche se non ho una tela vicino, vorrei subito andare a dipingere perché colgo sempre qualcosa in quella musica che potrei trasporre su tela.
E un romanzo, o una poesia?
Le notti bianche di Dostoevskij. In quel libro ci vedo un’atmosfera nebbiosa, quei lunghi addii, il tempo che passa, le speranze vane nella ricerca dell’amore. Quel romanzo ha influenzato maggiormente i temi della mia pittura, dal senso di smarrimento al dualismo umano.
Nei tuoi ritratti, in cui il volto è sempre scomposto, mi pare predominare il senso di una identità sfuggente e tormentata, inafferrabile. Le facce si risolvono in una maschera indistinta che genera inquietudine nello spettatore. Il motivo?
Ci tengo a sottolineare che non amo parlare del mio lavoro. Lo faccio con te perché mi sento a mio agio… Non amo farlo, ma mi rendo conto che è giusto e necessario. Sai, molti aspetti sono dettati dall’inconscio. Calcolo molto poco di ciò che andrò a fare. C’è una idea di base che sviluppo, tramite la musica, il colore, i miei sentimenti e quello che mi vuole comunicare un certo volto, ma per il resto io la mia opera la sento, non la pianifico. Non sono machiavellico nella pittura. Tanto che molti miei lavori, come avrai notato, non sono graziosi ma crudi. Però la mia ricerca di base è quella di una identità sfuggente, come dici tu. Io rappresento una persona che nel tempo ha perso qualcosa, molto spesso sé stesso. Ecco spiegata l’atmosfera nebbiosa e il senso del tempo che passa. Pur conservando gli stessi tratti somatici, siamo diversi a livello morale perché il tempo ci ha cambiati; e gli occhi riflettono questo cambiamento. C’è la perdita di identità, quindi, e al contempo il tentativo costante di metterci a fuoco. Sono dubbi quelli che metto sulla tela: la lotta con noi stessi, il conoscere se stessi.
Se ti dovessero chiedere il motivo del tuo ostinarti con i pennelli sulla tela, cosa risponderesti: lo fai perché la vita è troppo bella e necessità di essere fermata, nel suo scorrere, in una rappresentazione, o perché è carente e bisogna cercare di compensare attraverso l’arte?
Opterei per la seconda ipotesi. Diciamo che faccio i conti con il contemporaneo e dipingo perché ne ho le palle piene della gente che non si rende conto del tempo che passa, che non gode di nulla, in un mondo così frenetico, dove non c’è più pazienza, in cui si vuole tutto e subito. Si è perso quel senso della conquista e della bellezza più misteriosa. Io dipingo per far capire che esiste ancora, anche se noi moderni ne stiamo perdendo il senso. Dipingo per ricordarlo e farlo ricordare. Io la vita la vivo profondamente: le notti, i rapporti umani, le gioie e i dolori. E, se colgo un sentimento, spesso sento il bisogno di correre a metterlo su tela.
Dei tuoi colleghi italiani ne apprezzi qualcuno in particolare?
Non voglio fare dei nomi, perché nel settore ci conosciamo tutti e non vorrei dimenticarne qualcuno. Permettimi, però, una considerazione generale: le avanguardie storiche magari litigavano, ma si confrontavano e così facendo si mettevano in discussione. Adesso siamo tutti un po’ chiusi nel nostro mondo, non c’è più la stessa volontà e voglia di condividere. Posso dirti, comunque, che la mia galleria ha artisti che io stimo.
Che cosa apprezzi di questi?
Il ritorno al figurativo. Da cinque anni a questa parte si sta riproponendo e ciò è un’ottima cosa. Perché, sì, va bene il paesaggio, che artisticamente è sempre intrigante, però nel rappresentare per esempio le emozioni di una donna tu ci puoi cogliere tanto da come è disturbata la visione dell’artista. Ecco diciamo che mi affascina vedere i diversi modi in cui può essere rappresentato l’umano. E mi affascina questo ritorno alla ritrattistica di cui noi italiani siamo maestri. Pensa ad Antonello da Messina…
Raccontami di questo movimento che stai creando.
Nasce da un’esigenza prettamente personale, per dare un indirizzo. L’arte deve avere disciplina, almeno nel momento in cui si crea, poi nella vita privata l’artista può fare come meglio crede. Personalmente non ritengo, per esempio, che sia vero quando si dice che Van Gogh dipingeva nella follia. Non credo che quegli effetti di colore siano un derivato della pazzia. Certo era folle, ma disciplinato nel momento in cui dipingeva. Il movimento nasce quindi per creare un collettivo trans artistico, non solo pittorico. All’inizio aveva preso il nome di Nuovo Romanticismo ma, siccome suonava già sentito, l’abbiamo mutato in Stradismo, da strada intesa come vita cruda. Io ho vissuto molto la strada, la notte soprattutto, le solitudini, l’alcol… Come possiamo non rappresentare tutto questo, non parlare degli amori che urlano per le strade?! Ci vuole un ritorno alla bellezza, al crudo. La vita è tale e noi vogliamo coniugare romanticismo e crudezza. In un periodo storico in cui vige la supremazia digitale, l’umanità fa passi avanti solo a livello tecnologico, ma non a livello umano. Ci stiamo perdendo. Di qui la necessità di un passo indietro, di rivivere il romanticismo e portarlo nel presente.
Qualcuno potrebbe dire che tu aborri il bello nel senso classico, che ne prendi le distanze. Tu pensi che questo, invece, sia presente nella tua produzione?
Sì. Mi dispiace se non arriva, ma io sono amante del bello e ricercatore di questo. Spesso parto dai grandi maestri, da quell’ideale di bellezza, su cui inserisco la crudezza che comunque non elimina necessariamente la prima. La mia non è pittura della fine di qualcosa. Casomai si tratta di un risorgere dalle ceneri, di una pittura che guarda al futuro. Solo, non avrebbe senso se mi limitassi a rifare i grandi.
Matteo Fais