
“Là, oltre il nulla, oltre il confine estremo”. I discorsi di Iosif Brodskij
Politica culturale
Davide Pugnana
Abbiamo avuto un uomo incredibile. Erede di Marco Polo, allievo di Giuseppe Tucci, più affascinante di un Indiana Jones spalmato in grande schermo. “Tu non comprendi, Topazia, la spaventosa tragedia dell’aver cento anime ruggenti in una!”, scrive, nel dicembre del 1932, a Topazia Alliata, che sarà la donna di un bel tratto della sua vita, “Accanto all’artista c’è in me un ragionatore freddo e implacabile, accanto al sognatore un uomo d’azione che non tollera indugi e mezzi termini, accanto al pagano inondato di sole l’asceta che ha sete di rinuncia e di sacrificio… ed in fondo a tutto, sopra tutto, con tutto, domina il tratto principale di Fosco; la sete inestinguibile di creare, di fare, di dominare, d’affermarsi, di essere”. Fosco Maraini, quell’anno, aveva vent’anni – cinque anni dopo sarebbe partito insieme a Tucci nell’epica esplorazione del Tibet, intruppato come fotografo (nella fotografia in copertina, inedita, pubblicata per gentile concessione di Mieko Namiki: Giuseppe Tucci al centro in basso con a sinistra il colonnello Regolo Moise e a destra il prefetto di Yatung; in alto Fosco Maraini e alla sua destra Piero Mele), nel 1951 sarà pubblico Segreto Tibet – frutto anche di quell’altro viaggio, compiuto nel 1948 – il libro assoluto di Maraini, dove sapienza storica e antropologica si fondono con la lucentezza narrativa, il primo di una serie, magnetica, di libri d’impenetrabile meraviglia (Ore giapponesi, Paropamiso, Gli ultimi pagani…). Maraini muore nel 2004, lasciando in dono ai dolenti una lettera gravida di domande (“Ecco, mi chiederete, dove stai? In quale posizione spirituale ti sei sentito di lasciare il pianeta, per l’enigmatico viaggio che tutti ci attende?”): tre anni dopo, nei ‘Meridiani’ Mondadori, è pubblico Pellegrino in Asia, a cura di Franco Marcoaldi, che raccoglie alcuni titoli di Fosco e ne consacra il genio specificamente letterario, di speleologo della lingua italiana. Il primo vero libro di Maraini – dopo l’occasionale Guida dell’Abetone per lo sciatore (1934) – era stato pubblicato da Vallecchi settant’anni prima, s’intitola Dreng-Giong. Appunti di un viaggio nell’Imàlaia (1939), con un incipit già da scafato, divertito narratore (“A scuola, ricordo, ero un cannone in geografia; sapevo perfino dove si trova il Sikkim”). Il libro, a festeggiare il centenario dalla nascita di Maraini, fu ripubblicato da Corbaccio con una serie di “ricordi dei suoi amici”. Il primo di questi ricordi lo firma Claudio Cardelli (Fosco Maraini, un vero CIT.LU.V.I.T.), che è presidente dell’Associazione Italia-Tibet, ed è un amico. Dunque, sobbalzo. Contatto Claudio, il quale, in risposta, mi invia una fotografia dove è lui in pellegrinaggio sulla tomba di Maraini. Che cavolo c’entri tu con Maraini, leggenda sorridente, emblema di spericolate scorribande narrative? Siamo stati amici per quasi venticinque anni, mi fa lui. Allora è in quell’istante che lo forzo all’intervista. (d.b.)
Intanto. Dettagliaci i tuoi rapporti con Fosco Maraini. Vi incontrate nel 1981: in che circostanza? Cosa ricordi di lui, quale aneddoto puoi spendere per noi?
La mia idea di un incontro con Fosco nasce alla biblioteca Gambalunga nei primi anni ’70. Dopo il mio primo viaggio “far away” in oriente nel 1970 si scatenò in me una specie di vorace desiderio di approfondire quello che avevo solo sfiorato per pura curiosità esotica a bordo della mia R4, in linea con i viaggi in Asia dei “figli dei fiori” di quel tempo, per le strade della Turchia fino ai confini con l’Iran. Non sapevo dove attingere cultura se non nella mia enciclopedia Il Milione e soprattutto non sapevo come organizzare il mio caos mentale per iniziare ad acculturarmi con un minimo di criterio. L’Himàlaya e il Tibet erano già mete molto vagheggiate per cui finii per cercare qualcosa alla Gambalunga dove era disponibile solo una copia di Indo-Tibetica del Tucci e Segreto Tibet di Maraini.
Già dalla prefazione di Berenson capii che quell’uomo era il mio modello di viaggiatore. Il Cittadino Luna in Visita Ispezione sulla Terra. Il Citluvit… Fantastico acronimo. Divorai il libro in poche sedute fiume e sentii proprio quella sensazione potente e incontrollabile dell’innamoramento. Di lì a poco il primo viaggio via terra in India e poi Nepal, Ladakh, Zangskar. Proprio alla vigilia del viaggio nello Zangskar nel 1981 decisi di provare a cercare Maraini. Semplicemente chiesi un incontro, come farebbe un fan alla sua rock star del cuore. Tramite due amici di Roma avemmo un suo contatto e di seguito la disponibilità a vederci. Fui tremendamente patetico nel mio entusiasmo. Ricordo, emozionato, l’ingresso nella sua sobria ma magnifica dimora di Poggio Imperiale. Una dimora stracolma di libri e reperti asiatici. Ero stordito ed eccitato allo stesso tempo. Travolsi Fosco con tante domande e citando spesso passi del suo libro. Fosco rideva di gusto “ma hai studiato bene allora….”. Ma evidentemente mi prese subito in simpatia visto che saremmo dovuti stare un’oretta dalle 15 del pomeriggio e alla fine fummo invitati a cena, mettendo la deliziosa moglie di Fosco, Mieko Namiki, ai fornelli per preparare un monumentale piatto di spaghetti in bianco. Ricordo che ad un certo punto Fosco iniziò a mangiarli col pane suscitando la riprovazione di Mieko… Al che lui rispose semplicemente “perché no? sono buonissimi….”. Un mito!
Quel giorno presi “possesso” della casa di Fosco che frequentai assiduamente nei 23 anni successivi assieme alla sua dimora “fuori dal sistema” in Garfagnana. Dimora con modello di vita arcaico che lui amava forse più della casa fiorentina. La mia ammirazione per lui cresceva man mano che scoprivo oltre che la mole di libri e articoli pubblicati, le analogie anche esistenziali che ci accomunavano. Una infanzia metà cittadina e metà agreste, una certa inquietudine sentimentale… la moticicletta! Fosco si era fatto Firenze Palermo negli anni ’30 con una BMW su strade ancora non asfaltate. Di lui ricordo l’entusiasmo perenne con cui mi mostrava le sue foto, come le commentava. Sembrava fosse tornato dal viaggio in Tibet o da una spedizione in Himalaya da pochi giorni. Ricordo anche la sua profonda tristezza quando, appena rientrato dal Tibet nel 1987, corsi a Firenze per relazionare al mio guru cosa avevo visto sul Tetto del Mondo. In quel momento tutti i giornali del mondo mostravano le violente repressioni cinesi. Fosco aveva una rassegna stampa imponente. Italiana e straniera. Guardavamo insieme quelle immagini di Lhasa in fiamme e della polizia che randellava i manifestanti. Fosco era distrutto.
Di Fosco veneri “Segreto Tibet”: come mai? Quel libro – ormai antico – cosa ci dice del Tibet, e perché ha una sua salutare immortalità, pare?
Venero anche “Paropamiso” e “Ore Giapponesi”… così come “Gasherbrum IV, la splendida cima”… C’è poi il surreale e inarrivabile “Gnosi delle fanfole” dove Fosco scrive poemetti in una lingua inventata “linguaggio metasemantico” su personaggi inventati in cui non era più la parola a dare un significato alle cose, ma le parole ad assumere forma solo attraverso stimoli esterni, suoni, colori, musica. Straordinaria, infatti la versione musicale delle “Fànfole” composta da Stefano Bollani e recitata da Massimo Altomare…Torniamo però a “Segreto Tibet”. Non sono l’unico a pensare che “Segreto Tibet” sia il più bel libro mai scritto sul Paese delle nevi. “Segreto Tibet”, accompagnato da fotografie straordinarie, penetra e racconta l’animo tibetano ben oltre gli stereotipi tanto vagheggiati in occidente. Fosco, pur da laico convinto, descrive il mondo monastico, l’arte tibetana, i rituali nei templi e i dettami del buddhismo tibetano, in modo ben più intrigante e fascinoso di qualunque ponderoso e accademico testo di filosofia, di arte o di Dharma. Dunque leggendo il libro finisci per essere magnetizzato da questo mondo tibetano cogliendone sì la profonda spiritualità, lo spessore culturale, la raffinatezza delle arti, ma anche la vigorosa, affascinante e in qualche modo misteriosa umanità. I ritratti dei personaggi in “Segreto Tibet” ti fanno vedere la persona, la senti parlare, la vedi muoversi nelle stanze buie dei Gompà, nelle caverne degli eremiti, nelle case dei villaggi…Ormai sono quasi miei parenti. Il lama Ngawang, con cui Fosco ingaggia una memorabile tenzone dialettica sulla morte… Il sarto Tobchen, notabile del viallggio di Yatung e gran maestro del Lhamo, il teatro tradizionale tibetano… il piccolo incarnato Trommo Tulku, che passa col suo piccolo corteo regale in un villaggio tra lo stupore ingenuo dei bambini e la venerazione forse un po’ cieca degli adulti… Il prefetto di Gyantse col suo aristocratico orecchino di turchese, il medico, Amchi, di Gyantse… e tanti altri fino alla sublime, vibrante, spiazzante (“sono sciocca se penso che un lama debba essere anche bello per portarti alla fede..?”) principessa Pema Chokyi fotografata sulle nevi del Natu La, con quella piccola mano sulla fronte mentre getta uno sguardo, diremmo un ultimo sguardo, verso un Tibet ancora libero, assolato e spazzato dai venti, prima della tragedia dell’invasione cinese.
Maraini è, da ciò che scrivi, uno dei padri dell’Associazione Italia-Tibet. Eppure, sul futuro del Tibet mi pare che avevate idee differenti. Ce le spieghi? Come interpretava Maraini l’ingerenza prepotente del governo cinese su quello tibetano?
È vero. Proprio riferendomi a quanto raccontato prima sui nostri incontri dopo la insurrezione di Lhasa del settembre 1987, ricordo molto bene la sua frase “noi amici e cultori del Tibet dobbiamo organizzare un’associazione, un qualcosa di strutturato e su tutto il territorio nazionale, che difenda I diritti dei tibetani, racconti la loro tragica vicenda, faccia pressione sui cinesi perché abbandonino la loro crudele politica di colonizzazione, repressione ed spoliazione del territorio tibetano…”. Ne parlai con Piero Verni che a sua volta con un pugno di amici a Milano stava pensando un po’ la stessa cosa. Decidemmo di fondare l’Associazione Italia-Tibet. Era l’aprile del 1988. Sugli obiettivi del sodalizio e in generale sulla questione tibetana Fosco aveva una specie di pensiero fisso che riguardava l’applicazione del famoso trattato dei 17 punti siglato tra le autorità cinesi e i delegati tibetani portati a Lhasa nel dicembre del 1951. Questo trattato, pur sancendo definitivamente la fine del Tibet come stato indipendente era, sulla carta, garante di diverse forme di autonomia sul fronte religioso, culturale e amministrativo e sembrava assicurare ai tibetani una forma accettabile di esistenza pur sotto il governo della PRC. Fosco era assolutamente convinto, anche in senso storico e documentale e non solo sentimentale, che la occupazione del Tibet fosse un sopruso illegale di “stampo coloniale ottocentesco”. “Il comportamento bestiale dei cinesi nei confronti dei tibetani” diceva ”lascia capire come essi si sentano profondamente colpevoli nel profondo delle loro coscienze”. Ciò nonostante non era altrettanto convinto che, dato lo strapotere cinese crescente, fosse ormai possibile riottenere l’indipendenza del Tibet. Ne parlavamo spesso. Ho anche una sua intervista, gliene ho fatte molte, in cui afferma proprio che la dichiarazione di Indipendenza del XIII Dalai Lama del 1912 era perfettamente legittima e che il Tibet nel 1950 godeva di uno status di totale indipendenza “de jure e de facto”, così come lo era stato per lunghissimi periodi della sua storia. Purtroppo negli anni ’80 i “17 punti” erano per i tibetani della diaspora ancora un vero nervo scoperto; uno dei momenti più intollerabili e dolorosi della loro storia recente, in quanto il Tibet cassava di esistere come stato sovrano, e gli stessi 17 punti erano stati estorti ai delegati tibetani che di fatto avevano firmato in uno stato di segregazione e coercizione. Ovviamente io, giovane ed entusiasta, parteggiavo per il ramo “indipendentista” degli attivisti tibetani mentre Fosco, anziano e saggio, continuava a ripetermi che con la Cina non ci sarebbe stato nulla da fare e che gli sforzi dovevano essere rivolti almeno al rispetto di un accordo firmato peraltro anche dai cinesi stessi. Fosco non voleva però ammettere che la insurrezione di Lhasa del 1959, culminata con decine di migliaia di morti e la fuga in esilio del Dalai lama e di 150mila tibetani negli anni successivi, fu causata in gran parte dal mancato rispetto da parte di Pechino praticamente di tutti i 17 punti del cosiddetto ”accordo”. Dopo nove anni di impossibile convivenza l’esasperazione dei tibetani, unita alla paura di un rapimento del Dalai Lama, era scoppiata in tumulti repressi in maniera bestiale dai cinesi. Io sostenevo, e sostengo, che i cinesi hanno una particolare predisposizione a non rispettare qualunque cosa firmino. Basta guardare la costituzione cinese nel campo dei diritti umani e del rispetto delle minoranze e vedere come sono trattati i tibetani, gli uighuri, i seguaci della Falung Gong. Sarei curiosissimo di sapere cosa penserebbe Fosco oggi mentre il nostro ministro dell’economia Tria è a Pechino a chiedere soldi per le nostre voragini finanziarie… Altro che 17 punti…
Che insegnamento ti ha dato – ci dà – Maraini? A me pare che sia stato lo studioso che più a fondo ha penetrato l’Oriente e le sue estremità, pur restando – perfino nel gioco linguistico – consapevole di essere quello che è, un occidentale, figlio di Dante e parente di Marco Polo… Sbaglio?
Vero. Non ho mai visto Fosco cedere, ad esempio nei confronti del Tibet, a suggestioni clericali, spiritualiste, tanto meno new age. L’ho visto però colto da un malore al cinema, guardando Kundun di Scorsese, nel momento in cui compare l’immagine dell’incubo del Dalai Lama in piedi, in mezzo ad una selva di monaci insanguinati massacrati dai cinesi. Il suo rapporto con la cultura tibetana in senso lato era proprio quella del CITLUVIT, un uomo di un altro pianeta spedito sulla terra per relazionare le abitudini, le manie, i segreti, i culti, gli amori di questi strani abitanti, abbattendo però i “muri delle idee” (il suo insegnamento più importante a mio avviso) e lasciandosi totalmente abbandonare al loro stile di vita, penetrandolo, scandagliandolo, rispettandolo e amandolo sinceramente e raccontandolo senza la spocchia dell’accademico, ma neppure l’ingenuità del cacciatore di “esotico” e tra l’altro immedesimandosi mirabilmente nell’“esotico inverso” ovvero il mondo occidentale visto dagli altri. Nonostante la sua penna micidiale, che gli poteva facilitare la scrittura immediata di qualunque tematica a lui minimamente congeniale, Fosco prima di di affrontare un tema soprattutto culturale, sentiva il bisogno oltre che il dovere di documentarsi in maniera rigorosa e profonda. Per fare un esempio in “Paropamiso” c’è un capitolo sull’Islam di una chiarezza impressionante. Quando gli feci i miei umili complimenti per come avesse spiegato bene tutte le sfaccettature della religione di Maometto, Fosco mi confessò di avere letto almeno un centinaio di libri prima di affrontare il tema Islam in modo letterario. Peraltro non in un corposo trattato ma in un solo capitolo di un libro di viaggio. In questo era facilitato oltre che dall’essere poliglotta, dal poter accedere immediatamente alla sua monumentale biblioteca. Ogni stanza un tema. Una stanza per il Tibet, una per il Giappone, una per l’India, una per l’Islam…Una per il resto dell’Asia… Credo che in quel suo rimanere figlio di Dante e parente di Marco Polo ci sia quel senso di importanza data all’identità; culturale, spirituale, storica; bagaglio fondamentale per viaggiare attraverso altri mondi e altre identità e traendone come vantaggio o come riflessione le infinite sfaccettature. Fosco certamente ammirava molto la filosofia buddhista nella sua essenza, mentre non era troppo preso dall’eccesso di ritualistica nella versione tibetana, pur comprendendone culturalmente i sofisticati simbolismi. Credo che avrebbe apprezzato molto la posizione attuale del Dalai Lama sull’importanza di un’“Etica Laica” comune al di là delle religioni. Ricordo una sua magnifica conferenza al Centro San Fedele sull’“Orrido e il Terrifico nel buddhismo tibetano”. Era molto preoccupato dell’insorgenza radicale dell’Islam. Lo scrive già alla fine nel capitoletto di Paropamiso dedicato al tema. Nel 2001 dopo la distruzione dei Buddha di Bamyan mi scrive una lunga lettera da New York dove si dice veramente allarmato della piega che sta prendendo lo scacchiere medio orientale. Fino all’ultimo sono stato vicino a Fosco Maraini. Al suo funerale vennero dei monaci tibetani chiamati da Mieko nonostante lui avesse chiesto un funerale laico. Ma penso che quello lo avrebbe accettato. La bara era sistemata nella limonaia della grande casa fiorentina. Amici passavano a salutare il grande Fosco Maraini. C’erano le figlie Dacia e Toni. Un funerale laico e senza fronzoli come lui aveva espressamente voluto. Pochi giorni dopo Mieko mi fece avere le disposizioni di Fosco al medico curante: “…in caso di aggravamento dei mali e di una perdita di conoscenza prego chi mi curerà e chi mi sarà vicino di evitare qualunque forma di accanimento terapeutico. Quando la morte busserà alla porta ch’ella sia benvenuta! Non si creino ostacoli al compimento dei suoi processi naturali. La morte non rappresenta forse un rientro nelle arcane orologerie del cosmo? Attraverso di essa partecipiamo allo svolgersi, misterioso e sublime, dell’essere, ci tuffiamo per così dire nei reami del tempo-spazio, i cui limiti trascendono maestosamente la brevità della nostra vita terrena…”.