23 Luglio 2019

Quando Graham Greene flirtava con Fidel Castro e faceva lo scalpo a Kipling, “il ragazzo straordinario che venne dall’India per appiccare l’incendio al mondo letterario”. Un inedito del nostro scrittore all’Avana

Personaggio: un uomo dal nome un po’ lungo, 59200/5.

Prima apparizione del nostro uomo: Africa occidentale, in particolare Sierra Leone, 1941, dove il nostro fomenta la rete di comunisti mentre il suo Servizio Segreto MI6 gli fa spallucce.

Seconda comparsa di 59200/5: nel romanzo Il nostro uomo all’Avana del 1958.

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Scena: Graham Greene nel 1934 sta volando in Estonia e durante il viaggio c’è l’abboccamento con il diplomatico X dell’ambasciata di Tallinn. Oggi sappiamo che X si chiamava Peter E.J. Leslie, viceconsole a Tallinn dal 1931.

Ancora adesso la sede londinese delle ambasciate baltiche è presso il ponte di Vauxhall, dall’altra parte c’è il palazzo di finto vetro del Servizio. Segno di interessi di lungo corso.

Ian Thomson ci fa una proposta da venditore di almanacchi con un pezzo su Greene che ha firmato per New Statesman: questo Leslie è il vero reclutatore di Greene per il Servizio, altro che la panzana della sorellina di Greene che fa la spia e raccoglie il fratellino decadente. Il vero iniziatore sarebbe questo rivenditore d’armi che certi fogli del Foreign Office ci dicono essere “uno dei migliori rappresentanti del Servizio in Europa Orientale”.

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Tratto di simpatia umana che lega Leslie a Greene: entrambi convertiti al cattolicesimo. Fin qui tutto bene. Aggungiamo: questo Leslie è stato la pezza d’appoggio di Greene per creare il carattere protagonista de Il nostro uomo all’Avana. Come dire: il primo amore non si scorda mai. Questa almeno è l’opinione di Thomson che sa di cosa sta scrivendo: ha adunato, infatti, una serie di elementi interessanti che lasciano intravedere il filo rosso dall’Estonia a Cuba.

Il filo rosso parte dalla sceneggiatura approntata da Greene nel 1944 per il film rimasto incompiuto Nothing to blame che racconta di un rappresentante industriale in Estonia (nella finzione Latesthia) per le macchine da cucire Singer. Questo signore passa a lavorare per il Servizio e non se ne fece nulla, troppo scoperta e mordace la satira contro l’istituzione e soprattutto troppo esposto Greene. Trascorrono gli anni, tra 1939 e 1983 Greene tocca Cuba in almeno dodici occasioni censite ed entra a far parte di quel gruppo singolare che fiancheggiava Castro pur appartenendo all’Occidente.

Come scrisse Greene per lettera nel 1988 a Thomson: “già provavo simpatia per chi stava con Fidel sulle montagne, era difficile che la simpatia non nascesse dal momento che dalle nostre parti eravamo impegnati con Hitler”. Una bellissima presa in giro, saltano gli anni e i riferimenti, il romanziere rimane il più incantevole creatore di scenari virtuali.

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In effetti, ha senso che Greene non sia stato selezionato dalla sorella, sa troppo di agiografia a senso unico e va tenuto conto che la famiglia di Greene era delle più strampalate. Immaginatevi che suo fratello Herbert aveva passato informazioni ai franchisti durante la guerra civile spagnola, e questo basta per mettere una pietra tombale sul suo nome, lassù ad Albione. L’unica soddisfazione, per il fratello malvagio di Greene, fu comparire come personaggio nel romanzo del fratello buono England made me 1935).

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Mentre l’Italia con prontezza si avvia a rileggere Greene (grazie Sellerio!) il mondo anglosassone sta andando in ebollizione per la questione di Cuba. Apriti cielo, è ridiventata un bordello a cielo aperto, stanno scoprendo ora i pudibondi di Miami.

Chiaro che Castro era riuscito a moralizzare il suo popolo e che invece il capitalismo sfrenato non ha molte alternative al binomio sesso-denaro. Scopriamo davvero l’acqua calda. Ma lo sappiamo, noi europei siamo più stanchi di storia, più scafati degli USA e i problemi ci toccano da lontano.

Mentre in USA si pubblicano libri eloquenti come Our woman in Havana di Sarah Rainsford e Our man down in Havana di Christopher Hull (recensito da Thomson), da noi c’è stato giusto Yasmina Khadra a spiegare cos’è diventata Cuba dopo la fine del sogno comunista. Il libro è pubblico per Sellerio e porta il titolo Dio non abita all’Avana, un incubo pericoloso dove i malinconici riti d’Africa si mescolano agli orizzonti senza speranza dell’isola. Una storia apparentemente leggera, in punta di jazz, ma che lascia scornati.

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Nel 1961 Greene chiamava “Principe di Las Vegas” il divo Kennedy e lo invitava a grandi gesta sull’isola cubana dopo i fatti della Baia dei Porci.

Prince of Las Vegas, Cuba calls! / Your seat’s reserved on the gangster plane, / Fruit machines back in Hilton halls / And in the Blue Moon girls again 

Insomma il principe non avrebbe trovato più in abbondanza i prodotti che i ricchi yankee andavano a cogliere sui suoli inariditi da Batista – macchine per spremuta e donne formose come la luna. Dillo oggi e ti querelano…

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Non finisce qui. Anche l’università si agita, negli USA. Harvard ha stampato See Paris and die di Eleonory Gilburd dove si spiega a un pubblico di curiosi cosa leggessero i giovani sovietici degli anni Cinquanta, Hemingway e ancora Hemingway. Guarda un po’, anche lui passato da Cuba. Continua a divertire, insomma, questa fascinazione per Hemingway da parte dei comunisti ‘intellettuali’. Certo, Per chi suona la campana è un libro adatto al comun-americanismo, i cattivi sono tutti di là, c’è la democracy da salvare, il nationalism e il fascism futuro da sedare e sopire. Interessante poi l’ideologia dello scrittore, che si spara, a Cuba, dopo aver detto di fare spionaggio per la CIA, nel frattempo fondata.

Il vitalismo, magari qualche aperitivo di troppo a Calle Vallaresso da Cipriani, insomma: nemmeno in Italia i rossi riuscivano a risolvere il loro problema con USA e con la modernizzazione americana. Che poi lascerà il campo al solo sogno dell’opulenza, a qualche sensazione di razionalizzazione economica e di laicismo radical. Forse è meglio Greene…

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Nel suo articolo su Greene, Thomson viene a dire che il nostro fu fedele solo al tradimento. Occidente e Oriente, una volta di qui e un’altra di là. Manco stessimo parlando del traditore numero uno, quel Kim Philby che il passo in Unione Sovietica lo fece davvero. E Greene ha sponsorizzato fino alla fine Philpy sui media occidentali, mentre era le Carré a demonizzarlo.

Solo in un’intervista del 2017 le Carré si è lasciato andare a un rigurgito di buoni sentimenti: “Ero in Russia dopo il 1989 e potevo incontrarlo ma non volevo dargli questa riabilitazione. Se potessi farlo ora, lo incontrerei ma solo per curiosità umana. Però sento di avere un buon ritratto di lui. Molto più fine e raffinato di quanto fosse ragionevole, e anche stregato. Il tradimento era il suo elemento”.

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Philpy come Greene era un privilegiato, avevano studiato nelle università che contano e si dilettavano nel vedere l’alternativa rossa al nero feroce del continente europeo. Avevano capito che il comunismo era nato da un golpe, da un tradimento, erano soggetti molto passionali.

Uno squarcio di Greene, sposato, in fuga a Capri con una donna anche lei sposata. The little peace fu stampato in pochissime copie ma oggi lo leggiamo: “Amore è come una breve tregua, / una morte non percepita / e la nostra spinta cesserà tra un’ora / immobili come il respiro / i nostri corpi buttati come vestiti sulla sedia / abbandonati quasi per scelta / lo vedi, persino il cuore lo diceva / anche noi abbiamo motivi per essere allegri / in questo paradiso”.

Tra le lettere alla fortunata, spicca quella che sentenzia senza pietà: “riesco a credere soltanto nell’amore che colpisce all’improvviso e a ciel sereno: non credo nella lenta maturazione dell’amicizia, o in quel punto dove uno si chiede il perché e il percome – perché il nostro amore è stato un attimo selvaggio, improvviso, come un attore che andasse alla guerra, e non riesco a immaginarmi un amore che se ne venga su bello sereno e ne venga fuori senza nemmeno una cicatrice”.

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Quanto è lontano questo Greene decadente dal modello di cittadino che spia nei romanzi di le Carré: “L’intelligence affascina perché è un riflesso della società che si impegna a servire. Se vuoi esaminare la psicologia nazionale, starai al sicuro nel mondo segreto. Penso infatti che l’ipocrisia sia il vero sport nazionale. Nella mia era e per la mia classe, la public school brutalizzava il processo che ti separava dai genitori, e questi genitori facevano la loro bella parte. Ti agganciavano alle ambizioni imperiali e ti facevano smarrire nel mondo col senso di una élite – il tuo cuore bello che raggelato. Quando sei diventato quel bambino di ghiaccio, sei un tipo che finge, tutto charme, e c’è dentro di te un territorio desolato che attende di essere coltivato”.

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Ma allora davvero il territorio comune a invenzione e spionaggio fatto bene è lo stesso? Ancora con le parole più recenti di le Carré: “i libri di Maugham, Greene, Priestley e Fleming sono viscerali. I loro autori provano a creare un mondo artificiale, migliore e realistico, affidabile emotivamente – fanno il meglio che possono, scrittori o spioni che siano. Creano certi caratteri che riannodano il passato con il presente e immaginano il futuro. E tengono in considerazione tutte le varietà umane. Lei potrebbe funzionare? E lui? Posso tramutare lei o lui in un’altra persona? Tutte queste sono preoccupazioni serie dello scrittore”.

Allora vediamolo, Greene scrittore e critico, mentre fa corpo a corpo con la vacca sacra dei suoi anni, con Kipling. L’articolo apparve nel 1956 a vent’anni dalla morte dello scrittore e non era ancora stato tradotto dai Collected essay.

Andrea Bianchi

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Kipling tra capre e incenso

La mia generazione ha vissuto per così tanto tempo con Kipling anziano che ci risulta difficile catturare il primo sobbalzo dei suoi contemporanei, quella sensazione provocata dal ragazzo straordinario che venne dall’India per appiccare l’incendio al mondo letterario. Uno dei pregi della biografia di Kipling che Mr. Carrington ha appena pubblicato è che tramite un discorso attento e sobrio auscultiamo di nuovo una leggenda che incomincia a battere, come un cuore. Dopo duecento pagine non siamo ancora arrivati al Kipling trentenne: quello che scrisse Storie semplici dalla montagna, Il terzo soldato, Wee Willie Winkle, La luce che si spense, Ballate della baracca, Molte invenzioni e Il libro della giungla. Con queste opere egli fu posto allo stesso livello di Stevenson e James. Nessuna sorpresa quindi se a sessantun anni Kipling sembrasse a Hugh Walpole come un vecchio uomo sul ciglio di una nuova infanzia: “Mattina stupenda col vecchio Kipling all’Athenaeum, lui sedeva circondato dai recensori per il suo ultimo libro e si trastulla come un fanciullo”. Era stato alla guida degli scrittori per una spanna di tempo maggiore di quella che solitamente è concessa alle vite letterarie.

La biografia di Mr. Carrington non contiene nessuna sorpresa sensazionale. Un completo resoconto del mitico litigio con Balestier, il suo fratellastro americano, e la storia fantastica di come un lunatico omicida lo inseguì dall’Inghilterra al Capo (e ritorno) fino ai gradini dell’Athenaeum – questi sono gli highlights inaspettati. Altri fatti che anticiparono le rivelazioni intime, come magari l’ordine Anglo-Indiano, fuorviarono il talento di Kipling per il reportage di esperienze dirette, personali. La sua prosa, diversamente dalla poesia, non ha retto bene nel tempo e i trucchi del genere giornalistico sono lampanti persino in quelle poche storie che ancora hanno la forza di esaltarci e di spingerci all’azioneL’uomo che volle essere re, Senza beneficio di clero.

I nostri ricordi ci soddisfano molto più della realtà. Persino La storia più bella del mondo non ci sembra più così vera. Uno si ricorda la descrizione della nave che perde, sopra quel mare quieto, con quella descrizione fornita da chi stava affondando con lei, e di come il livello dell’acqua si fermò per un istante “proprio qui” e poi l’uomo cadde sul ponte. Ma nessuno si accorge di come Kipling viziasse questo effetto con la sua consueta bravura. “Pagò tutto tranne la nuda vita per questo piccolo frammento di conoscenza senza valore, e dovevo viaggiare per altre diecimila, pesanti miglia per incontrarlo e ricevere questa conoscenza di seconda mano” (“He had paid everything except the bare life for this little valueless piece of knowledge, and I had travelled ten thousand weary miles to meet him and take his knowledge at second-hand”). Persino L’uomo che volle essere re pare guastato, oggi, dopo la sua apertura maestosa, con quella descrizione della libera massoneria di Re Carlo presso una tribù afgana.

Senti quasi un’incapacità di sentire veramente l’esperienza: osservazione che viene rovinata sempre e ancora da una costruzione emotiva, personale.  “L’orrore, la confusione e la separazione dell’omicida dai suoi compagni erano già concluse quando arrivai io. Solo rimaneva sulla piazza della baraccopoli il sangue di un uomo che chiamava dalla terra. Il sole bollente aveva seccato questo sangue rendendolo come la tetra pellicola del battitore d’oro, a forma di losanghe e qua e là asciugata dal calore; e come si levò il vento ogni losanga, levandosi un poco, si raccoglieva ai bordi come fosse la lingua di un muto”.

È una delle aperture più celebri di Kipling, e com’è scadente oggi, fatto salvo quel frammento di descrizione brillantemente eseguita. “Il sangue di un uomo che chiamava dalla terra” all’apparenza come “la lingua di un muto” – Kipling protesta sempre troppo con la sua prosa. È determinato “a far stare in piedi la sua storia” come un reporter su un treno espresso; va in cerca di emozioni che in realtà lì non ci sono. “Chi a parte la madre doveva rimboccargli il letto per la notte? E lei si sedette sul letto, parlarono per ore, come si deve tra madre e figlio, se ci sarebbe stato o meno un futuro per il nostro Impero. Coln l’astuzia semplice delle donne lei gli poneva le domande e gli suggeriva certe risposte che potessero causare qualche segno sulla faccia posata sul cuscino, ma non ci furono né brividi, né battere di ciglia, né respirazione accelerata, né risposte evasive o dilazionate da parte del figlio. Così gli diede la buonanotte e lo baciò sulle labbra, che non sempre sono di proprietà materna”.

Certamente Tinker Bell [Campanellino, la Trilli di Peter Pan, ndr] stava danzando per aria quando nacque Kipling. Forse, di tutti gli autori col dono della scrittura, i due che abbiano composto con più falsità sulle relazioni umane sono Barrie e Kipling. Dei fallimenti personali di Barrie sappiamo molto: di Kipling sappiamo pochissimo riguardo quel lungo faida col fratellastro Balestier, e dell’incapacità di comprendere i sentimenti di un altro uomo. Poeticismo falso, impiego esagerato di frasi tecniche che rendono incomprensibili alcune delle sue ultime storie al lettore che non abbia lo stesso cervello di chi progetta le navi e pone mano ai loro motori, o al lettore che magari non sappia quei frammenti di Bibbia inglese e non sia munito di quella timidezza prevaricatrice dell’intellettuale che è ancora un ragazzo di scuola e non vuole ammettere agli amici più cari nella sala del prefetto che sì: lui prende la letteratura sul serio. Mentre trascorrono gli anni vediamo come il giovane uomo non crebbe mai e come la sua promessa si compì nella prosa in modo irregolare.

Per me qui c’è solo una storia. Il miracolo di Purun Bhagaty dove Kipling riesce davvero a controllare la sua immensa abilità di giocare, giocare con le immagini, le frasi, il suono delle vocali. La bravura da attore, le sue conoscenze, i pregiudizi di casta, le qualità che spesso gli facevano inzeppare una frase di seconda qualità per esprimere uno stato d’animo di seconda qualità – questi aspetti vi mancano. In questa storia dell’eremita indiano, già Primo Ministro del suo Stato, c’è una dignità dell’argomento che lo spinge a scrivere con la stessa semplice maestria verbale dell’insegnante che sarebbe dovuto diventare: “Immediately below him the hillside fell away, clean and cleared for fifteen hundred feet, where a little village of stone-walled houses, with roofs of beaten earth, clung to the steep tilt. All round it the tiny terraced fields lay out like aprons of patchwork on the knees of the mountain, and cows no bigger than beetles grazed between the smooth stone circles of the threshing floors”.

Si capisce che fu nella poesia – persino in quella d’occasione – che Kipling raggiunse la maturità. Anche al massimo della celebrità, in poesie come La canzone di Banjo, osserviamo i confini della sua maestria. Basta leggere i suoi imitatori per confronto. Qui ha allargato l’obbiettivo della poesia inglese per includere quel che rimaneva fuori, il mondo non-inglese. In molta poesia canadese e australiana del suo tempo, l’albero esotico, l’uccello col nome in corsivo, il mugwump (caso mai esistesse) che balza fuori dal verso, sono assorbiti dalla nostra immaginazione molto meno rispetto agli slighty toves in quella poesia senza senso di Carroll. Nella poesia di Kipling l’esotico è naturalizzato: notiamo soltanto l’estraneo un pochino dopo che questi se n’è andato via. “Nel deserto dove il campo si stratificava nel letame / una giornata lunga come un clima di diamanti / il cielo blu, inalterato, / il profumo di capre e d’incenso / e il mormorio delle fronde dei banani scostati”. (“In the desert where the dung-fed camp smoke curled / Day long the diamond weather /The high, unaltered blue, / The smell of goats and incense / And the lisp of the split banana frond”).

Ma forse Kipling non scrisse mai meglio di quando scriveva negli scoppi d’odio e la poesia è un mezzo migliore in queste circostanze rispetto alla prosa. Nella sua prosa – in una storia crudele ad esempio come Il villaggio che votò per la terra piatta – le sue vittime non sono all’altezza della sua ossessione. Perché l’odio è un’ossessione, l’odio ti mette agli angoli, è monotono – Dryden e Pope arrivarono a quel punto e forse anche qualche metro più in là dell’odio. Kipling era il loro degno successore. E ora chi si preoccupa per il soggetto di MacFlecknoe [di Dryden, 1678]?

Lo leggiamo per il resoconto accurato dello stato d’animo di Dryden. Così non ci interessa più il fatto che il Governo Inglese in qualche circostanza del primo decennio del secolo si mise in ghingheri per una prova di forza navale contro il Venezuela e insieme alla Germania. Ma la poesia di Kipling è il dipinto mentale di un uomo che odia, e ancora lo si può leggere.

Lo scandalo Marconi, per la celebrità dell’accusato, può ancora avere qualche interesse, ma cosa fu quella Dichiarazione di Londra del 29 giugno 1911, apparentemente poco dopo l’Incoronazione che provocò l’acre risentimento di Kipling contro il Governo e il Parlamento? Non conta: “la stupida vittima che si risolleva viene dopo la spada / e dopo la testa dell’assassino. / Eravamo tutti un cuore solo e una razza sola / quando suonarono le trombe dell’Abbazia. / Per lo spazio di un respiro, per un momento / ti avevamo dimenticato. / Ora torni al tuo posto onorato / imporporandoci ancora di vergogna”.

È fatale per il bravo biografo che il recensore si dimentichi di lui per riflessioni divaganti che saggino il suo argomento. Quella di Mr Carrington è una biografia molto buona – non veniamo abbandonati con quella sensazione usuale a chiusura della vita ufficiale, quel pensiero almeno c’è una fonte dove altri uomini in futuro potranno scavare con maggiori risultati. Mr. Carrington è andato a fondo e ha avuto con effetto: la fonte è esaurito e, com’era nei desideri di Kipling, gli scrittori a venire hanno solo bisogno di occuparsi del lavoro.

Graham Greene

* la traduzione è di Andrea Bianchi

**In copertina: Alec Guinness durante le riprese de “Il nostro agente all’Avana”, il film di Carol Reed del 1959

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