01 Febbraio 2024

Lui è un genio e voi siete dei vili! Sul trattamento riservato a Émile Zola in Italia

Il tema

Si prova una vertigine di sbigottimento leggendo nella lunga e istruttiva introduzione di Henri Mitterand, decano “in zolibus”, ai Taccuini di Émile Zola, che questi è uno dei «dieci autori più tradotti al mondo»: non tanto per il dato nudo e crudo e di cui ci si può anche fidare; ma soprattutto per l’entusiasmo e l’ottimismo del tutto mal riposti sottesi a questa dichiarazione, almeno in Italia.

Indubbiamente le persone ben istruite e curiose leggono Zola oltre alla solita manciatina di titoli più celebri, Germinal o Nanà ad esempio; e altrettanto indiscutibile è la presenza di Zola nei programmi scolastici – almeno lo era ai tempi miei, in che la scuola pur già disastrata manteneva ancora dignità e serietà. Così è anche vero, che molti editori ne hanno in catalogo diverse opere, che è facile immaginare escano da magazzini e librerie.

Tuttavia, ritengo di essere nel giusto dicendo che Émile Zola, se pure nel tempo suo era tanto celebre, forse uno dei due o tre più celebri scrittori d’Europa, al contempo amato ed esecrato, oggidì egli sia tenuto bensì quale uno dei tanti scrittori europei classici ma qualche gradino, talora parecchi, al di sotto dei giganti reali o presunti, e la cui circolazione sopravvivente si debba a fattori di pura casualità e per “onor di firma”. Un quadro oltremodo desolante a petto della sua indiscutibile e magistrale grandezza.

A dimostrazione di questa lettura, snocciolerò alcuni esempi ragionati di rara eloquenza, trascelti dai plurimi che potrei addurre, principiando proprio dai Taccuini.

Émile Zola (1840-1902) e famiglia; © Musée d’Orsay

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Per l’alto mare di detriti in burrasca

È pacifico che si tratti d’un lavoro per studiosi, letterati, sociologi e “filologi zoliani”, quindi non destinati al grande pubblico foss’anche colto; ciò tuttavia non ne giustifica la malasorte.

Essi furono pubblicati da Bollati Boringhieri nell’estinta collana Pantheon – per intenderci la stessa in cui comparvero i Viaggi di Tocqueville e l’Epistolario di Leopardi – nell’ormai lontano 1992 e, come gli altri, a prezzo proibitivo (aggiornato a oggi, oltre sessanta euro). Svaporarono però subito, senza nemmanco un’edizione economica in appoggio, rifugiandosi mogi mogi nei così detti “remainders”, ovvero sulle bancarelle.

Tale presenza di fatto fantomatica ci dice quanto anche chi non sarebbe esonerato dall’interesse, dagli studiosi di letteratura agli studenti d’università, sia negligente con Zola: ci sono infatti testi analoghi di altri autori, e persin più “tecnici” e freddi, tuttora in catalogo e a giro; e ciò può significare soltanto che questi vendono, i Taccuini invece fetono e crepano di solitudine. Questo però non è l’esempio maggiore: ne arrivano subito di assai più urtanti.

Come qualcuno sa, Zola compose nella seconda parte della sua vita il ciclo di romanzi sulle Tre città, Lourdes, Roma e Parigi, ai cui primi due si legano un Diario romano e un Viaggio a Lourdes, analoghi dei Taccuini. Furono tradotti oltre un secolo fa per Sten di Torino e poi caddero per decenni in un fosco oblio, di che frequentatori del mercato dell’usato hanno contezza per la difficoltà di reperirli anche lì, e il prezzo assai basso (parlo dei commercianti onesti) è segno della poca richiesta generale.

Solo da pochissimo due editori, ai quali va tutta la nostra riconoscenza, hanno riproposto Roma (Bordeaux 2012) e Lourdes (Medusa 2023).

Purtroppo, Roma è la vecchia traduzione solo un po’ rinfrescata; invece Lourdes ha ricevuto il meritato onore di una nuova versione e di un utile commento d’apertura. Ma i ripescaggi abbisognano di ben altre soccorrevoli e amorose cure, storiche e critiche, e soprattutto Roma ne è esente, portando inoltre l’aggravante d’una prefazione di Emanuele Trevi, inutile come sempre, imbuto in che scivolano le solite banalità. È vecchio e insopportabile vizio rifilare un ronzino per far trainare la carrozza, dovuto in parte a scelte autonome degli editori, in parte alla dabbenaggine dei lettori, i quali si fanno infinocchiare dal nome contemporaneo e strombazzato su giornali e in televisione, anziché badare alla sostanza. È possibile e credibile che Émile Zola necessiti d’un volano o di un garante, come quello poi? Suvvia! Se un lettore si fa attirare da un Trevi anziché da uno dei massimi scrittori della storia, allora che legga altro. Ma il mercato richiede questo genere di stratagemmi, o meglio: “scoperti sotterfugi” per sopravvivere. E se per leggere Roma dobbiamo tenerci in casa Trevi, pazienza.

Poiché abbiamo evocato Medusa, è piacevole segnalare con forza che essa, oltre ad aver pubblicato il fondamentale Viaggio a Lourdes, è l’unica casa editrice ad averci regalato niente meno che Il dottor Pascal, romanzo geniale e conclusivo dei Rougon-Macquart, la cui prima e ultima edizione risaliva al 1920.

Ecco, i Rougon-Macquart. Per capire meglio la faccenda, va subito sottolineato, pur coi debiti distinguo, che si tratta di uno dei pochissimi cicli artistici dell’Ottocento – gli altri sono La Comédie humaine, L’anello del Nibelungo e i Vinti – e sono a mio avviso una delle quattro o cinque epopee più straordinarie sotto ogni rispetto concepite nella storia artistica universale. Tenendo conto di questo (e non solo), date un’occhiata: prima al suo complessivo progetto di ben venti romanzi, indi ai cataloghi librari, ai prestiti bibliotecari, alle case dei vostri amici. Lo iato è davvero lampante e rilevantissimo. Mancano da anni e anni parecchi titoli; altri hanno avuto destini da clochard; nessun editore ha mai pensato di proporre il ciclo in veste unitaria e integrale; alcuni titoli pur in circolazione da diversi anni portano traduzioni, in taluni casi già nate guaste, ma in generale stravecchie e stantie come formaggi mal conservati. E a spigolar dettagli si rabbrividisce sovente.

Ci sono titoli con traduzioni vergognose e impresentabili anche se provenissero da uno studentello al prim’anno di liceo linguistico: vittima paradigmatica ed eccellente è L’Assommoir, conosciuto anche come Lo scannatoio, senz’altro uno dei vertici dell’intero ciclo e della letteratura dell’Ottocento.

Mi ripugna dovermi talora intrigare in una mia pagina, ma spero di essere utile dicendo di aver raramente provato lo sconquasso mentale ed emotivo regalatomi o, se preferite, inflittomi, da questo romanzo, tanto da provare, più che in altre occasioni, un  misto di desolazione entusiasmo e ubriachezza dalla prima all’ultima pagina, con l’aggiunta della tristezza insorta alle ultime battute: di là delle vicende, benché opera non breve, stava già finendo, che era però il segno della pagina rapinosa. Da qualsiasi punto di vista lo si prende, L’Assommoir è uno dei massimi capolavori di tutta la letteratura ottocentesca, e ben oltre, e uno dei peggio serviti.

L’utilizzo dell’argot può costituire uno scoglio non dappoco per una resa dignitosa ed efficace, e implica difficoltà non dissimili ad esempio da Morte a credito, ed è tutto dire. (A margine: il capolavoro céliniano porta un’ottima traduzione ma del 1964 – censurata: la versione integrale uscì solo nel 1997 – e sarebbe quindi da ripigliar daccapo). Ma è sospetto e avvilente constatare che le prime e uniche traduzioni serie, meditate, esperte, oneste efficaci, direi anche esemplari, dell’Assommoir siano recentissime, e vengano dopo quelle di editori di rilievo ma in questo caso fallimentari, compresa quella Garzanti di Ferdinando Bruno affiancato dal pur valevole Lanfranco Binni. Persino questa è sideralmente distante dai livelli offerti da Pierluigi Pellini (Mondadori 2010 e 2014) e da Luca Salvatore (Feltrinelli 2018), entrambe per di più dotate di un apparato critico utilissimo e necessario, in particolare la seconda.

Gettiamoci ora sulla Preda, ovvero La curée, secondo pannello dei Rougon-Macquart, e conosciuto in èra paleolitica anche come La cuccagna, titolo non del tutto improprio ma d’una scanzonatura affatto inadeguata (credo però voluta; dirò meglio più oltre) alla durezza e alla spietatezza dell’opera. Fu destinataria anche di altri titoli, uno in particolare alquanto pertinente (Orgie [sic] dorate); e la traduzione d’autore di Maria Bellonci lascia l’originale (Club degli Editori 1973). Ma La preda è senz’altro il migliore, anche se abbiamo atteso il 2018 per avere una traduzione dignitosa del romanzo, che dobbiamo a Clichy, già artefice d’Una pagina d’amore. Gli è però, a dimostrazione di quanto stiamo illustrando, che ben pochi sono corsi dietro alla “preda”, tantoché Clichy ha ritenuto necessario vendere tutto il pacchetto, traduzione e introduzione, a Mondadori, che quest’anno l’ha infilata negli Oscar Classici, senza aggiungere o togliere alcunché.

È stato un buon modo, benché coartato, per dare una seconda vita a un autentico capolavoro, sul quale ricadrebbe la mia scelta se dovessi indicare un romanzo relativamente breve a titolo esemplare per Zola. Ma il peccato, che proprio per il passaggio commerciale raddoppia, è l’introduzione. Non è da buttare e ogni tanto è persino utile; ma ha qualche irritante difetto, che mostra anch’esso la poca attenzione e il poco amore per Zola, nonché la pochezza della critica in generale. La curatrice ha infatti il pessimo gusto di spifferare esiti fondamentali della trama. Lo so: è importante il viaggio, soprattutto se compiuto sui magnifici veicoli forniti da Zola, e non la meta. Ma non bisogna esagerare codesta “massima”, ché davanti a molte vicende svelare i destini dei personaggi – destini talora imprevedibili e, non scordiamolo mai per Zola, sempre realistici e soventissimamente scioccanti – guasta il godimento estetico e molesta la comprensione intellettuale. Sicché non sorvegliare il proprio zelo o, più tosto, la propria vanità, per tacer del peggio, suscita scatti di fastidio. Lo dovrebbero sapere anche nelle redazioni delle case editrici e agire di conseguenza; e anche solo da simili scivoloni si capisce che l’editoria odierna è ormai quasi alla débâcle.

A incrudire la magagna ci troviamo a sorbirci una prosa gelida, di linguaggio burocratico, il classico e noioso compitino in classe ben svolto: tutto in stridente contrasto con la prosa del romanzo. Se un lettore un poco distratto, pigro o impreparato ma col desiderio di elevarsi, si dovesse accostare alla Preda attraverso codesta introduzione, sono certo che invece ne sarebbe respinto.

Le prefazioni scritte da chi non sia l’autore dell’opera, fatemelo per cortesia dire, sono già di per sé moleste e talora inopportune, perché o tendono a essere dei rimorchiatori o delle stampelle superflue (vedi sopra il Trevi), oppure delle passerelle su che mettersi in mostra, ovvero, ancora e insieme all’eventuale traduzione, un lasciapassare per qualche concorso o direttamente per la cattedra. Dovrebbero essere regolamentate da una legislazione draconiana, tale che se a qualcuno proprio scappasse o gli necessitasse, essa dovrà essere così accattivante utile e brillante da indurre il lettore a chiedere il bis. Non ha queste caratteristiche? Marsch, raus! Fogli nella carta straccia ed estensore in un campo di… concentrazione.

Perdonate la vanità (farò penitenza rileggendo un paio di volte qualche oscena introduzione, promesso), ma mi diede molto piacere sentirmi dire da un’intelligente collega che dopo aver letto i miei saggi d’accompagnamento alle mie traduzioni di Dinu Pillat, uno scrittore romeno, si sentiva «avvilita perché erano finite».

Un altro dettaglio significativo. È meritorio aver citato nell’introduzione alla Preda un frammento di Francesco De Sanctis, tratto dallo Studio sopra Emilio Zola. Dalla nota bibliografica al piè della pagina, sappiamo che esso proviene dall’edizione Morano dei Nuovi saggi critici, stampati a Napoli nel 1879.

Ora, l’introduzione risale al 2018, quando ancora la sola edizione di questo De Sanctis su Zola risaliva a cent’anni e mezzo avanti. Oggi però le edizioni Ecra (2022) hanno avuto l’intelligenza di ristampare il saggio, mandandolo al suo destino, in differente volumetto, coll’Edmondo De Amicis su Émile Zola. L’uomo, il polemista, lo scrittore. E questa sì che è una boccata d’aria fresca e forse qualcosa di più, poiché l’uno e l’altro sono tra le rare voci, e che voci, ad aver accolto Zola senza cincischiamenti, né imbarazzi, e con la piena coscienza morale e letteraria della sua decisiva importanza. E oggidì non è inutile dire, che si trae maggior giovamento da De Sanctis e De Amicis, che non da certi critici ancora vivi. Ma Mondadori avrà avuto in quest’occasione gli orifizi altrimenti occupati, poiché se invece di limitarsi a proporre una fotocopia della versione Clichy si fosse degnata di metterci il naso, avrebbe tra l’altro potuto aggiornare quella nota, come usa. E perché non lo ha fatto la stessa Clichy prima di consegnare il malloppo a Segrate? Sicché adesso il lettore, dell’uno o dell’altro editore, dovrà o rinunciare ovvero sudare sette camicie prima di trovare il testo di De Sanctis nei cataloghi delle biblioteche; eppoi sperare di persuadere il bibliotecario a fotocopiarlo. È scorretto opporre internet a questa polemica. Una volta per tutte: possedere una connessione o potervi accedervi non è obbligatorio. Lo vogliamo capire? Eppoi ci sono persone ignare persino dell’esistenza della “rete” e viaggiano coi metodi tradizionali. È vietato? Tagliamo fuori dalla società i non “aggiornati”? Se “tanto c’è internet” allora a che stampiamo ancora libri? Perché affidare ancora curatele e pre e postfazioni, note, chiose, apparati etcoetera se poi siamo costretti ad arrangiarci? La verità è che anche i pretesi addetti ai lavori culturali molte volte sono privi dell’equipaggiamento adatto alla ricerca, ovvero pigri che navigano a vista, tanto stipendio e gloria se li portan lo stesso a casa. Ma torniamo a Zola.

Sui Rougon-Macquart ci sarebbe ancora molto da dire; ma la strada è ancora lunga e accidentata, sicché passiamo ad altro.

Giacché siamo in tema di rilanci, sentiamo la Confessione di Claude, il primo romanzo di uno Zola venticinquenne. Esso risale infatti al 1865 e in Italia fu pubblicato in prima battuta nel 1880, Zola era celebre, e in seconda nel 1908. Poi, il silenzio più profondo; sino a quando, nel 2011 e nel 2022, Robin Edizioni non lo estrae dagli ipogei, sebbene anch’esse adoperando la vecchia traduzione. Manifestiamo ancora una volta la nostra personale gratitudine; epperò siam daccapo, e anzi peggio. È infatti in agguato la solita prefazione, di tale Lilli Monfregola, che spero sia un nome d’arte – ignoro di quale arte – perché firmare col proprio nome un testo come questo significa essere incoscienti oppure accecati dalla vanità.

Tutto il contributo è una concione senza né capo né coda, scritta in modo assai approssimativo, vanesia e che per giunta riporta una cantonata da squalifica: Il sentiero dei nidi di ragno sarebbe un’opera niente meno che di Borges. Monfregola aveva appena citato Il castello dei destini incrociati, stavolta con corretta attribuzione, e, presa dall’entusiasmo, ha confuso Calvino con il Borges del Giardino dei sentieri che si biforcano.Ma è un errore grave, soprattutto per chi abbia la pretesa di allungare le mani su di un classico e in questo caso più d’uno. Inoltre non si capisce, quando cita le due precedenti edizioni della Confessione, se si tratti della medesima traduzione o differenti, né di dove con precisione tragga la presente: dopo i misteri di Parigi, i misteri di Monfregola, che ci dona soltanto la cruciale informazione per cui è stato faticoso trascrivere a video.

Tale introibo – mica è finita – si intitola «Chi uccise Émile Zola?», ma è una turlupinatura o l’effetto d’una severa distrazione, dacché il tema enunciato, estremamente serio importante e oscuro, è praticamente assente, salvo qualche notiziola verso la fine, che par scappata dalla penna per accidente.

Possiamo infine dire che questo intervento è come la coda dei montoni: che non serve né a scacciare gli insetti, né a coprire le pudenda, ed è anche bruttina. Oppure come le zanzare, che sono urticanti, portano malattie e di cui nessuno ha mai capito né capirà mai l’utilità.

Visto il cataclisma, è lecito chiedersi che significhi, ben evidente sin dalla copertina e grande quasi quanto il titolo, «a cura di Maurizio Barletta»: costui non si è accorto degli scempi compiuti dalla sua collaboratrice? Ma forse la curatela si limita al confezionamento editoriale, anche se non usa proclamarlo dai balconi, e inoltre è stato temerario, a giudicare dal resultato tristanzuolo e scombicchierato. Siamo davanti a un’autentica occasione mancata, ché proporre il primo romanzo di Zola, sebbene con la traduzione vecchia d’un secolo, è di per sé encomiabile. Ma è stato come invitare a casa propria un vecchio e caro amico perduto di vista da tempo e poi rifilargli brodaglia riscaldata e uno sgabello sgangherato e appiccicoso per sedersi, quasi che in verità ce lo si volesse togliere dai piedi al più presto e lo si sia invitato solo per mostrargli la vostra nuova dimora. Sono sempre più di questa idea: certe persone fingono di amare qualcosa o qualcuno. In realtà lo odiano ma non hanno il coraggio di dirlo. Solo che ogni volta che gli mettono le mani sopra si vede. Non occorre aver studiato troppa psicoanalisi per capirlo.

Oltre a questo ciclo e a quello delle Tre città, Zola ne compose un terzo, dedicato ai «Quattro Vangeli», di cui fanno parte Fecondità, Lavoro, Verità e Giustizia, quest’ultimo incompiuto per sopraggiunto assassinio dell’autore, e sono ovviamente gli ultimi suoi lavori letterari. Se non mi sfugge qualcosa, i primi tre sono stati bensì tradotti ma una volta soltanto, agli inizi del Novecento. Il quarto invece giace negletto, e a poco varrà opporre, come ho già sentito dire, che Zola non l’ha portato a termine e quindi non vale la pena volgerlo nella nostra lingua. Con lo stesso (s)ragionamento dovremmo allora trascurare ad esempio L’uomo senza qualità, Il castello, Il disperso e L’arte della fuga. Beninteso che queste sono momenti imprescindibili dell’arte e l’estrema produzione zoliana non ha la magnificenza e la profondità dei Rougon-Macquart o delle Tre città. Ma sarebbe come non diffondere la nona Sinfonia di Bruckner perché, oltre a essere anch’essa incompiuta (l’unica e vera sinfonia incompiuta), non è all’altezza della settima o dell’ottava. Sono opinioni da tangheri.

Passiamo adesso a un punto dolentissimo, ossia alla biografia, dicendo subito che è peggio che andar la notte. In Italia infatti non esiste, salvo qualche cosa molto datata e del tutto inesaustiva. Nessuno ha pensato di scriverne una, ovvero almen di tradurre quella di Mitterand. Eccheddiamine! Critici storici ed editori si lagnano talora per la biografia d’uno scrittore o d’un filosofo con una vita, dicono, piatta ma snobbano uno Zola, dall’esistenza affascinante e movimentata, nonché altamente significativa per tutto il secolo e anche oltre. Paradosso e vergogna aumentano quando poi si pensi che la voragine riguarda uno scrittore che ha consacrato l’intera opera a descrivere e raccontare la vita delle persone.

E se ci spostiamo dalla biografia all’epistolario, occhio a non precipitare nel vuoto: salvo qualche disiecta membra e nonostante in Francia lo abbiano pubblicato per la più parte, se non addirittura integralmente, non c’è alcunché. Ma tout se tient: se la biografia è snobbata, le lettere, che ad essa servono e si subordinano, non potrebbero goder di miglior trattamento. Anche questo è uno “strano” destino per il filologo pratico Émile Zola.

Circa le biografie in generale, fatemi per cortesia aggiungere qualcosa.

Trovo stucchevole e irritante considerare solo le esistenze piene d’avventure d’alcova, viaggi, duelli, guerre, malattie, inopinate svolte della sorte et similia. Chi ama il movimento a tutti i costi ha sempre a disposizione Salgàri (ahimè sottovalutatissimo). È finzione? Sta bene. Allora leggete o scrivete la biografia d’un alpinista o d’un marinaio e lasciate perdere arte e filosofia: non fanno per voi. Se non capite che anche una vita di solo pensiero – che in realtà quasi non esiste se non nelle teste di rapa che se la rappresentino – sia immeritevole d’essere indagata, siete dei capiscarico o delle madame annoiate. Ci sono sovente più momenti avvincenti e istruttivi, mettiamo, nella vita di certi matematici che di certi scatenati avventurieri: almeno per chi cerchi di elevarsi un po’ al di sopra dell’abitudine iniettata nelle vene dalle pellicole hollywoodiane. E se non ne siete convinti, mi proverò a dimostrarlo in un prossimo contributo sulla vita d’un personaggio ritenuto noioso per antonomasia: Immanuel Kant. Ma ora ripigliamo il nostro argomento.

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Lo schermo muto

A inconfutabile dimostrazione della tesi che sto tentando di esporre, c’è la cinematografia. Ma qui dobbiamo allargare lo spettro visuale oltre l’Italia.

Come ognun sa, se anche il più straccione tra gli scrittori, di ieri e di oggi, è spinto dalla critica e/o dal pubblico, quasi senza dubbio le sue opere finiranno sul grande schermo e magari anche in televisione, non di rado per la mano di registi celebri e attrezzati. Oppure accade il contrario, cioè che uno scrittore di media popolarità riceva un importante impulso grazie a un film ben strombazzato. Ci sono poi scrittori, e temo sia la più parte, che compongono i romanzi sperando nella trasposizione cinematografica, e altri ancora che apparecchiano la pagina quasi come una sceneggiatura, e ciò o per speranzosa ruffianaggine, ovvero perché scrivono su committenza di cineasti o case di produzione. Ma queste sono altre faccende, che però era giusto sottolineare.

Émile Zola, che non può ovviamente aver pensato alla cinematografia come la conosciamo noi, è adattissimo a essere portato sullo schermo. E invece il rapporto tra Zola e la settima arte è pessimo. Quasi tutti i romanzi di Zola, soprattutto della fase matura che è la maggioritaria, sarebbero invece adattissimi al grande schermo, soprattutto se sceneggiati e girati da calibri. E invece la filmografia è scarsa e non sempre di elevata qualità, soprattutto se raffrontata alla quantità di opere uscite dalla penna dello scrittore e allo svettante livello letterario psicologico e sociale. È un segno eloquente: se non tira come scrittore, non vale la pena di farne una pellicola. Tutto qui.

In Francia su Zola, Stellio Lorenzi, francese a dispetto del nome e peraltro una figura assai singolare, girò nel 1978 un pregevolissimo docufilm di ben otto ore, reperibile su youtube ma non in commercio, che va dall’affare Dreyfus insino alla morte dello scrittore; ma nessun ha pensato di produrlo anche da noi o almeno di sottotitolarlo. Sarei felice di poter entrare nel merito delle singole pellicole uscite dagli anni Dieci insino all’ultima del 2013 tratte o ispirate dall’opera zoliana, ma occorrerebbe un intero saggio. Mi preme però mettere in rilievo una produzione contemporanea della nostra televisione di Stato (di Stato si fa per dire: ché infatti è feudalizzata dai partiti, che, come non tutti sanno ma possono divinare, sono organizzazioni private), ossia Il Paradiso delle Signore, una fiction o soap opera, che come recita la sua brava voce Wikipedia, è «vagamente ispirata» all’omonimo romanzo di Zola.

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Lo schermo balordo

Sull’estinta rivista «L’Intellettuale Dissidente», qualche anno fa pubblicai un articolo di raffronto e non voglio qui ripetermi, anche se, chissà perché, il contributo non è più disponibile sulla pubblicazione che avrebbe sostituito l’altra; eppoi non voglio metterla troppo per le lunghe ulteriormente.

Sarà bene però in questa sede spiegare al pubblico e ai dirigenti Rai quanto meglio affrettarsi a togliere ogni riferimento a Zola, ché da ogni punto di vista codesta produzione non ha un fico secco a che fare con Au bonheur des dames, anzi: è più corretto dire che Zola non ha niente a che fare con codesto programma. La poetica è abissalmente divergente, i personaggi idem con patate, le intenzioni imparagonabili, il senso ugualmente, e via elencando. E tutto ciò, ovviamente, per tacer della bravura artistica. Diciamolo con forza: anche se con la cautela di quell’ipocrita e paraculo «vagamente ispirato», qualsiasi accostamento è inopportuno volgare e offensivo per Zola, e indica o che dirigenza e produzione della televisione così detta pubblica sono composte da irrimediabili indotti (nel possibile duplice senso della parola), ovvero che sono talmente arroganti e sicuri dell’ignoranza e della superficialità del pubblico da potersi permettere di arpionare il sommo scrittore a fini commerciali ovvero, non da ultimo, di propaganda nazionalsentimentaldemocratico. Signori, imbrattate le menti del pubblico come vi aggrada, questo è il vostro mestiere per cui siete lautamente ricompensati, ma lasciate in pace la grande e nobile arte, perdio!

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Saggistica e saggezza

Se il lettore ha ancora un poco di pazienza, spenderei due parole anche per la saggistica, ricordando ancora una volta che sto soltanto spigolando e non raccogliendo l’intera messe.

A parte le innumeri e persin troppe edizioni del J’accuse, tali che per certi versi pare Zola non abbia fatto altro in politicis et socialibus che difendere il calunniato militare, gli articoli e i lavori teorici firmati dal titanico genio scarseggiano assai. Si pensi al Romanzo sperimentale, un testo strategico per capire Zola e vasta parte dell’Ottocento: è stato pubblicato solo nel 1980 e poi nel 1992 (Pratiche Editrice, peraltro ormai estinta). Io faticai non poco per riuscire a procurarmene una copia perché è ormai molto raro.

Una felicissima eccezione in questo dominio è la scelta di scritti su Manet e il naturalismo nell’arte (titolo editoriale) stampata per ben tre volte da Donzelli tra il 1993 e il 2017, sempre col solito ritardo; una “intensità”, diciamola così, però dovuta soprattutto al soggetto e non all’interesse per Zola. Se infatti, come stiamo vedendo, questi susciti poca fascinazione e scarso interesse là dove e perché dovrebbe, figurarsi per i suoi interventi in un dominio pretesto “estraneo”. Ma qui casca l’asino, o meglio: gli asini, di che si possono riempire cent’arche di Noè. Gli articoli su Manet e su altri pittori, in quel torno di tempo ancora faticosamente emergenti e largamente osteggiati, sono parte integrante dell’uomo e dello scrittore Zola, una sonda umana di rarissima sensibilità ad angolo giro. Si legga ad esempio questo significativo passaggio:

«Sapete quale effetto producono le tele di Manet al Salon. Bucano le pareti, semplicemente. Tutt’intorno ad esse si spandono le dolcezze dei confettieri artistici alla moda, gli alberi di zucchero candito e le case di timballo, gli uomini di pan pepato e le donnine fatte di creme alla vaniglia. Il negozio di caramelle diventa più rosa e più dolce, e le tele vive dell’artista sembrano assumere una certa amarezza in mezzo a quel fiume di latte. Bisogna anche vedere le facce nauseate dei bambinoni che passano nella sala. Mai farete loro ingoiare due soldi di autentica carne, che abbia la realtà della vita; ma si rimpinzano come disgraziati di tutti i dolciumi stomachevoli che vengono loro serviti.

«Non guardate più i quadri vicini. Guardate le persone vive che sono nella sala. Studiate i contrasti dei loro corpi sul pavimento e sulle pareti. Poi, guardate le tele di Manet: vedrete che lì è la verità e la potenza. Guardate ora le altre tele, quelle che sorridono stupidamente intorno a voi: scoppiate dal ridere, no?»

(Manet al Salon del 1866)

E quest’altro ancora:

«La formula di Manet è del tutto candida: si è messo semplicemente di fronte alla natura, e, come unico ideale, si è sforzato di ritrarla in tutta la sua verità e forza. La composizione è sparita. Solo scene famigliari, uno o due personaggi, qualche volta delle folle, prese a caso, col loro brulichio. Lo ha guidato un’unica regola, la legge dei valori, il modo in cui un essere vivente o un oggetto si comporta sotto la luce: l’evoluzione è partita da qui, è la luce che disegna e colora nello stesso tempo, è la luce che mette ogni cosa al suo posto, che è la vita stessa della scena dipinta. Allora apparvero quei toni autentici, di singolare intensità, che sconcertarono il pubblico, abituato alla falsità tradizionale dei tono dell’École; allora le figure si semplificarono, vennero trattate solo per larghe masse, secondo il loro piano, e la gente si sbellicava, perché era stata abituata a vedere tutto, fino ai peli della barba, negli sfondi bituminosi dei quadri storici. Non c’è niente di più incredibile, di più esasperante del vero, quando negli occhi si hanno secoli di menzogna».

(L’esposizione di Manet del 1884)

Sono parole perfette, anche per ritrarre lo stesso Zola.

Questa preziosa raccolta ci dimostra ancora una volta il coraggio morale e l’acume di Zola, il quale dove posava l’occhio vedeva oltre e in profondità, nello spazio e nel tempo, anche in pittura, e ci introducono bene a trarre delle conclusioni sul nostro tema, in che tenterò di offrire in ordine sparso qualche motivo dell’esecrabile ed esiziale trattamento riservato a Émile Zola. Ma prima dobbiamo ascoltare, per correttezza e completezza, cosa ne ha detto altrui.

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Stringiamo la mano a Pierluigi Pellini; anche se…

Pierluigi Pellini, il critico italiano contemporaneo (tra i pochissimi) più attento a Zola, riferisce nell’introduzione al primo volume dei Meridiani dedicati allo scrittore, che «l’autore di Germinal sconta i paradossi di una ricezione quantomeno singolare: salutato con tempismo da Francesco De Sanctis (…), promosso con deferenza dai veristi a modello ineguagliabile (…), acclamato dal pubblico colto e dalle élites laiche di fine Ottocento, è coinvolto nel discredito che colpisce la cultura positivista a cavallo dei due secoli, per opera convergente di spinte diverse – dall’estetismo dannunziano all’idealismo crociano, non smentito, più tardi, dal marxismo di Gramsci».

In Italia Zola «otteneva riconoscimenti più lusinghieri che sulle rive della Senna», dov’era invece attaccato, tra l’altro, per «pornografia» a causa ad esempio dell’Assommoir e Nanà. E all’epoca del J’accuse, «fra le testimonianze di solidarietà provenienti da tutto il mondo, quelle italiane spiccavano per mole e calore». Ma «pochi anni dopo la sua morte Zola [1904] è relegato dalla cultura ufficiale italiana – non dagli scrittori, che continuano a leggerlo: Svevo e Gadda in primis – fra le anticaglie dello scientismo ottocentesco». Egli era «ricordato più meriti civili (J’accuse) e demeriti teorici (Le Roman expérimental; [altra minchiata della critica]), che per la grandezza dell’opera narrativa».

Per il solito don Benedetto, riferisce sempre Pellini, Zola era, testualmente, «pochissimo poeta» e anzi un «oratore e pedagogo», che poi significa demagogo o poco meno; e, sottolinea ancora Pellini, che tali giudizi saranno ripetuti «da generazioni di critici», come è facile aspettarsi in un contesto camorristico e ruffiano.

Il referto critico non fa una grinza, salvo che per i toni un po’ troppo blandi. Gli è però che Pellini, da bravo intellettuale, trascura chi davvero alla fine può conferire a un artista i meriti che gli spettino, ossia la persona comune. E ciò è strano per un critico assai notevole ma che tende a forzar parecchio la mano sinistra di Zola, come emerge chiaramente dalle pur belle introduzioni delle edizioni Oscar Classici dell’Assommoir e soprattutto di Germinal, su cui è possibile torneremo in un prossimo contributo.

Mi è del tutto estranea la rettorica sul “popolo”, l’uomo della strada, il nostro vicino di casa; ma bisognerebbe essere oltremodo guardinghi a conferire alla critica un soverchio potere sulle scelte dei lettori. Essa dura come i fiori di zucchino: sboccia la sera e crepa la mattina, salvo le eccezioni, come la crociana o marxista, di cui ancor oggi sebbene in gran parte per sola inerzia fatichiamo a liberarci. Sicché imputare al solo intervento ovvero silenzio della critica un successo o un fallimento è quantomeno esagerato.

Detto ciò, è poi vero che, per parafrasare uno dei guastafeste della nostra cultura, le idee dominanti sono espressione di quelle classi dominanti, in che rientrano appieno critica e storiografia, sovente anche le più così dette “controcorrente”. Ma ci sono autori, quale sia il dominio loro, che s’impongono e restano, per dirla con Totò, a prescindere. Potremmo esser prodighi di esempi, ma questa non è la sede adatta. D’altra parte lo stesso Zola, in Francia, fu subissato da improperi e anatemi, ma i suoi romanzi seguitavano a esser così letti da farne lo scrittore principe del suo Paese e non solo.

Ancora Pellini trova un’ulteriore spiegazione per la scarsa accoglienza di Zola in Italia nella sangheratezza delle traduzioni. Ne accenna così nella Nota all’edizione del secondo volume dei Meridiani:

«Se i romanzi di Zola, in Italia, sono poco letti, mentre in Francia non hanno mai smesso di essere best seller, è anche perché da noi continuano a circolare versioni datate, o comunque non adeguate».

Che, come abbiano rilevato anche qui, le traduzioni di Zola siano per la più parte invereconde, è indubbio. Ma ciò non è sufficiente a spiegare, e men che meno a giustificare, l’attitudine del pubblico italiano – e, non dimentichiamolo mai, della critica – verso Zola. C’è pieno di scrittori tradotti coi piedi (anche se non proprio quanto Zola) che però godono di vasta popolarità. Dirò di più: proprio un Dostoevskij, letto quasi anche da chi non legge, non solo per decenni è stato tradotto malino, così mi dicono alcuni conoscenti slavisti, ma per soprammercato, e questo lo sanno tutti, la sua pagina è quasi sempre scandalosamente scartellata e i dialoghi, in particolari quelli delle opere maggiori, inverosimili e illeggibili. Lo dice anche Tolstoj. Io stesso la prima volta che mi accostai all’Assommoir dopo venti pagine tirai il libro contro il muro a causa d’una schifosissima traduzione. Sicché suggerisco di non trascinare sul banco degli imputati i traduttori, ai quali basterebbe solo vietare di scrivere, ma, insieme alla critica, quel pubblico su cui adesso ci concentriamo.

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Tentativi di spiegazione

Il lettore medio, anzitutto; cioè a dire bensì preparato, forte, ma non assiduamente dedito a lettura e studio, cerca evasione aulica, innamoramento, sogni, magari anche crudezza ma pur sempre fantastica o almeno lontana dal suo spazio vitale e mentale quotidiano; cerca i contenuti impossibili e improbabili: tutto ciò, a parte qualche vecchio titolo di Zola poco o punto zoliano, nel nostro scrittore è assente. Egli inoltre non sforna nemmeno eroi o antieroi.

A sinistra e a esclusione dei pochissimi marxisti intelligenti ancora a giro, Zola è guardato di storto, con sospetto e ubbie, ché per quanto egli in alcuni romanzi ritragga con onestà le miserabili condizioni del proletariato, non è marxista, né comunista. Anzi, ad esempio dall’Assommoir, che è tra le svettanti cime della catena montuosa, i proletari ne riescono tutt’altro che il futuro radioso, ovvero affettuoso e partecipe: altro che «l’erede della filosofia classica tedesca». E, giustappunto, il comunista Lantier è un personaggio squallido e odioso (ma, come tutto e tutti in Zola, vero, reale). In Germinal vien pur citato Karl Marx, ma senza il rispetto la deferenza e l’attestazione di celebrità, e ciò giusta la prospettiva sia di Zola sia tout court storica. A suscitare la liberatoria catastrofe finale, è un russo, nobile, sottile, elegante, determinato, seguace niente meno che dell’arcinemico dei marxisti, Bakunin. Étienne, il protagonista, marxisteggia con fatica, capisce poco di ciò che legge, si imborghesisce presto e quasi nel senso più deleterio del termine, e infine è uno sconfitto e adombra segni di ciò che qualche comunista autentico bollerà di opportunismo. Trascuro altri dettagli, ma aggiungo che tutto ciò si manifesta proprio nel romanzo politico proletario di Zola per eccellenza, o meglio: gabellato per tale, e uno dei pochissimi del xix secolo. (In parentesi, tengo a precisare che lo scrivente non è affatto ostile al marxismo; ma non per questo intendo tacere).

Zola inoltre stigmatizzò fortemente l’evento per un marxista e in generale un libertario politicamente più significativo della seconda metà del secolo, cioè a dire la Comune, la cui sanguinosa repressione egli vide sì con disgusto per il sovrappiù di violenza ma nella coerenza con le leggi sociali pubbliche.

Quanto ai borghesi (lettori critici e storici tutt’insieme), che sono il vero obiettivo zoliano, a Zola non perdonano di averli circondati di grandi e lucidi specchi, che ne rimandano a loro stessi e al mondo la fosca e soventissimamente ignobile figura, l’abominevole morale pratica, e lo accusano d’essere un pericoloso sovversivo e agitatore, nonché pornografo. Quarto e ultimo motivo, che riassume ed esalta i precedenti: la scabrosità universale. Zola non descrive “soltanto” la società della sua epoca, ma l’essere umano in sé, per come lo vede e registra, credo non poco sorretto da Schopenhauer, anche se qualche stupido va berciando all’intorno d’uno Zola alieno da predisposizioni filosofiche, né genericamente teoriche.

Insomma, si è messo contro l’universo mondo, o quasi.

Nonostante tutto questo, non si ha tuttavia il coraggio d’intimargli passi indietro o di obliterarlo fino in fondo; ma se proprio egli si ostini ad aggirarsi nella repubblica delle lettere e a tratti s’imponga per l’evidente e possente intensità sua e l’onestà di qualche critico o lettore, che se ne stia ai confini.

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Pagine di verità, e congedo

Ascoltiamo ora un esempio dell’acume di Zola, quando interviene, ancora nella raccolta dei saggi d’arte, sui Realisti del Salon (11 maggio 1866):

«Io sono del mio partito, del partito della vita e della verità… Ho qualche somiglianza con Diogene, che cercava un uomo; anch’io, in arte, cerco uomini, temperamenti nuovi e potenti. Non mi curo del realismo, nel senso che questa parola non significa niente di ben preciso per me. Se intendete con questo termine la necessità per i pittori di studiare e di ritrarre la natura vera, senza dubbio tutti gli artisti devono essere realisti. Dipingere sogni è un gioco da donna e bambini; compito degli uomini è dipingere la realtà. Prendono la natura e la ritraggono, la ritraggono vista attraverso i loro temperamenti particolari. Ogni artista ci darà così un mondo differente, e accetterò volentieri tutti questi diversi mondi, purché ognuno di essi sia l’espressione viva di un temperamento […].

«Soltanto, ecco che cosa accade nei nostri tempi di analisi psicologica e fisiologica. La scienza ha il vento dalla sua; siamo spinti contro il nostro volere verso lo studio esatto dei fatti e delle cose. Proprio nel senso della verità si affermano anche tutte le forti individualità che si manifestano. Il movimento dell’epoca è certamente realista, o piuttosto positivista. Sono dunque costretto ad ammirare uomini che paiono avere qualche parentela tra loro, la parentela del tempo in cui vivono. Nasca pure domani un genio diverso, uno spirito che reagirà, che ci darà con potenza una terra nuova, la sua gli prometto i miei applausi. Non lo ripeterò mai troppo: io cerco uomini e non manichini, uomini di carne e ossa, che si confessano a noi, e non mentitori che emettono solo suoni».

Si potrà dissentire dalla pur libera adesione ai dettami del positivismo o del darwinismo, e sarà lecito reperire teorie più precise e funzionali all’indagine sull’esistenza; ma si dovrà riconoscere a Émile Zola il coraggio e l’intelligenza d’aver declinato la scienza teorica in un’arte capace di parlare della vita agli stessi abitatori di quest’ultima, e per soprammercato con una prosa rutilante e perfetta, tra le massima della storia letteraria universale. E che il tempo nostro sia così schivo di Zola è un segnale fortissimo della nostra miseria, tale da poter diventare il tema proprio d’un romanzo, ma che potrebbe scrivere soltanto un altro, improbabile Zola.

Quanto a noi, noi che almeno tentiamo d’esser uomini onesti, seguitiamo a confrontarci con la sua opera e ad essere eternamente grati al suo autore.

Luca Bistolfi

Gruppo MAGOG