Giuseppe sta in silenzio perché la sua vita interiore è ricca. Obbedisce, certo, ma è inondato dagli angeli. Secondo Matteo, “un angelo di Dio” appare all’uomo per spiegargli la nascita miracolosa di Gesù (Mt 1, 20). Altri angeli, altri segni, altre voci, vengono in visione durante la fuga della famiglia in Egitto (Mt 2, 13; 19), per evitare il massacro ordito da Erode. In tutti i casi, l’angelo appare a Giuseppe “in sogno”. In ogni caso, Giuseppe dà fede ai propri sogni – è un uomo dall’attività spirituale incessante, potente. Tale da zittirlo.
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Giuseppe in ebraico è yoseph, ed è nome fondato sul verbo yasaph, ‘aggiungere’. Giuseppe significa “Dio aggiunge”. Già, ma cosa aggiunge? Alla famiglia, Dio aggiunge un figlio. Al figlio, aggiunge la capacità di riconoscere il vero nel sogno, il talento di setacciare segni dalla vita onirica, intrisa di veleni.
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Le parole sogno ed Egitto, nella vicenda del Giuseppe evangelico, mi portano a quell’altro Giuseppe, il figlio prediletto di Giacobbe. Con la storia di Giuseppe si chiude il libro del Genesi, proprio sul legame – perfino esoterico – tra Israele ed Egitto (“Giuseppe morì all’età di centodieci anni: fu imbalsamato e messo in un sarcofago, in Egitto”, Gn 50, 26). Come si sa, Giuseppe è il penultimo dei dodici figli di Giacobbe, il primo avuto dal patriarca con Rachele. Adorato dal padre, è invidiato dai fratelli: a lui è data la capacità di sognare e di intendere i sogni degli altri (“All’età di diciassette anni” Giuseppe comincia sognare e a svelare, ingenuamente, i suoi sogni: Gn 37, 2 ss.).
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Giuseppe è spogliato di tutto dai fratelli, gettato in una pozza, poi venduto agli Ismaeliti, gli uomini del deserto, la stirpe sinistra di Israele. Dio ha ‘aggiunto’ a uno qualcosa e gli altri se ne sentono defraudati. Anche in Egitto Giuseppe, per eccesso di rettitudine, vive gli inferi della prigione, della fossa, dell’oscurità. Giuseppe vive nell’altra vita del sogno e nel sottosuolo delle prigioni; egli aggiunge luce all’oscuro. È oscuro il senso della vendetta e della giustizia, è oscuro il senso dei sogni. Una pozza, in effetti, funge da ventre.
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Naturalmente, è Giuseppe a denudare chi gli è di fronte: egli sa l’intimità che è sconosciuta a chi lo osserva. Noi siamo questo corpo e siamo i nostri pensieri – ma siamo, soprattutto, ciò che accade nell’al di là del sogno, nell’imprevisto.
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La Sura XII del Corano racconta la storia di Giuseppe, “la più bella delle storie”: “il tuo Signore ti trasceglierà, t’insegnerà l’interpretazione dei detti oscuri, e compirà su di te la Sua grazia” (uso la traduzione di Alessandro Bausani). Giuseppe è detto “cercatore del Vero”.
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Tra il 1933 e il 1943 Thomas Mann compie l’impresa romanzesca, pubblicando la quadrilogia “Giuseppe e i suoi fratelli”, a cui lavora dal 1925. Il racconto biblico viene decuplicato di significati: alla facoltà narrativa – solare, erotica, totale – Mann somma la disciplina saggistica. Ironia, sapienza, vezzo culturale, qualità storica – per perfezionare i suoi studi lo scrittore inaugura un lungo dialogo con Károly Kerényi – convergono in questo capolavoro, tradotto in Italia quasi subito dal bravo Bruno Arzeni (si tratta, però, appunto, di una traduzione vecchia di sessant’anni, pur “riveduta” nel 2000 da Elena Borseghini: forse si potrebbe azzardare una ri-traduzione). “Ho raccontato la nascita dell’Io dalla collettività mitica, la nascita dell’Io abramitico che pretende che l’uomo possa servire unicamente l’Altissimo, dal quale atteggiamento consegue la scoperta di Dio. La pretesa dell’Io umano di occupare una posizione centrale è il presupposto per la scoperta di Dio e fin dall’inizio il pathos per la dignità dell’Io è legato a quello per la dignità dell’umanità”, dirà Thomas Mann in una conferenza – come sempre velatamente ambigua – nel 1942, chiudendo, “La ‘pace’ ha sempre un’eco religiosa e il suo significato è un dono dell’intelligenza di Dio”.
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Thomas Mann è una fiera dell’intelletto. Nel ciclo romanzesco racconta la passione carnale e la tracotanza teologica, narra Israele affascinato dall’Egitto (“L’interesse di Mann per la scrittura geroglifica è attestato da alcuni schizzi autografi, come quelli conservati all’Università di Yale, raffiguranti fra l’altro un segno di vita, un disco solare alato, gli occhi di Horo e Osiride rappresentato con un trono e un occhio”, Fabrizio Cambi). Racconta gli abissi del passato (incipit de Le storie di Giacobbe: “Profondo è il pozzo del passato. Non dovremmo dirlo insondabile? Insondabile anche, e forse allora più che mai, quando si parla e discute del passato dell’uomo: di questo essere enigmatico che racchiude in sé la nostra esistenza per natura gioconda ma oltre natura misera e dolorosa”) e mette il naso negli affari celesti (incipit di Giuseppe il Nutritore: “Nelle sfere e nelle gerarchie celesti regnava allora, come sempre in occasioni simili, una soddisfazione lievemente perfida, una dissimulata gioia maligna… Ancora una volta la misura era colma, esaurita la mitezza, l’ora della giustizia era suonata e l’Ente Supremo, molto contro voglia e contro i suoi stessi progetti, sotto la pressione del Regno del Rigore… si vide costretto in regale accoramento, per ripristinare una volta ancora l’antico ordine”).
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Sorprende – ma questo è Mann – l’ampiezza del progetto, l’accuratezza nella composizione, la compostezza, la pazienza, il credito al tempo, al dolore, alla gioia, che è dei rari. Nello stesso libro, Mann simula il soliloquio di un nomade palestinese, l’audacia di un cantastorie veterotestamentario, la sagacia di un filosofo contemporaneo.
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Il capitolo centrale della quadrilogia, secondo me, si intitola Il Sommo ed è nel cuore di Giuseppe in Egitto. Qui Giuseppe ascolta visioni della vita diverse dalla sua, ne vaglia le profondità, senza giudizio. Sa chi è Dio e ne dice. Racconta la sua vita: “Io morii la morte della mia vita e una nuova vita mi venne concessa al tuo servizio… Uomo del dolore e insieme uomo della gioia debbo io chiamarmi. Il colmato di doni venne cacciato nel deserto e nella miseria, fu rapito e venduto. A sazietà dopo la gioia si abbeverò di dolore, e afflizione fu il suo nutrimento. I suoi fratelli, infatti, lo perseguirono con il proprio odio e tesero lacci ai suoi passi. Scavarono una tomba davanti ai suoi piedi e cacciarono la sua vita nella fossa così che la tenebra divenne la sua dimora”. Chi lo ascolta, Potifar, a servizio del Faraone, lo comprende. “Il confine tra il terreno e il celeste è fluido, e basta che tu posi l’occhio su un fenomeno perché esso si rifranga in una duplicità di aspetti”. Eppure, nel caos della vita notturna, dove i sogni, larve del venturo, vampiri, svaniscono accecandoci, groviglio di geroglifici, soltanto Giuseppe sa estrarre la spina alfabetica di Dio, la visione a cui obbedire ciecamente. (d.b.)