A Riccione, in macelleria. La sera lascia il suo strascico, gelsomini di luce, pezzi di ferro, ansietà di luna senza lama. Mi si fa addosso un amico, si chiama Alessandro, architetto, è alto. Trivella di versi:
“Quando ripari in qualcosa
tu cessi di tendere al tutto,
perché per giungere del tutto al tutto
devi lasciare del tutto il tutto”.
E poi:
“Per arrivare a sapere tutto
non voler sapere nulla in nulla…
Per arrivare a essere tutto
non voler essere nulla in nulla”.
Giovanni della Croce. Il mio amico ordina della carne, del pollo, credo. La traduzione di Giovanni della Croce è di Cristina Campo, accolta nei Mistici dell’Occidente, sotto cardinalizia curatela di Elémire Zolla. Le traduzioni sono firmate Giusto Cabianca. Il mio amico ripete verseggiando: “per giungere del tutto al tutto/ devi lasciare del tutto il tutto”. Ripete ancora, chiosa: cos’altro ci serve? Qualcuno ci guarda, nessuno pare pronto a rinnegare tutto. È il mio turno. Cos’è il tutto, qual è il suo lascito? Prendo un pacco di piadine. Alla fine, tutto si riduce a questo, gli dico. Ridiamo.
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Alla stazione di Bologna. Attraverso la strada. Luce come bandiere di preghiera appese a un filo: le ombre sono sanscrite e l’alfabeto in cui si esprime il giorno mi è ignoto. La cronica libreria di libri vecchi, sorpassati, felicemente fuori catalogo, non c’è più, sostituita da una libreria di libri nuovi, che non mi interessano.
Nell’incavo di un edificio, residui d’accampamento di un senza dimora. Corpi in sgombero. C’è una scritta, con pennarello nero. Occupa l’intero codice del muro. Probabilmente, chi ha scritto era seduto, poi sdraiato – era rabbioso. Ricorre la parola “AIUTATEMI!”, in maiuscolo. Segue, più piccolo, il dettaglio di una storia dai tratti schizoidi. Ci sono i nomi di alcune persone che avrebbero sottratto a chi scrive la casa, i soldi: per questa ragione, ora, l’uomo non ha nulla. Ripete, con scalpitante, sudaticcia ossessione, i nomi di queste persone, le cifre, la storia. Ogni angolo di quell’angolo di muro è ricoperto da quella storia. Per lo più è un anatema, formula da messa contorta. Immagino, per analogia, le scritte dei carcerati, le pitture parietali, steli cinesi, papiri egizi, colonne romane. L’uomo testimonia ovunque ciò che è – si incorpora in una testimonianza. Maestà dell’implorazione, accuse, il giusto ingiustamente perseguitato.
Resta quella parola, a galleggiare nel delirio, “AIUTATEMI!” – avrei potuto scriverla io, esserci lì, io, conficcato a rombo, in quel covo metropolitano. Nelle meteore, invece, non scrivere nulla, scritti da Dio: ripetere.
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Nel suo canone sugli scrittori adriatici, Cabine! Cabine! – in: Ricordando Fascinosa Riccione, 1990 – Pier Vittorio Tondelli antologizza, tra Alberto Arbasino e Giovannino Guareschi, Raffaello Baldini, Tonino Guerra e Giorgio Bassani, anche Valerio Zurlini, il regista. Il testo antologizzato da PVT s’intitola La prima notte di quiete di un Lord Jim casalingo, e attacca così:
“Di Daniele Dominici personalmente ho solo un vago ricordo. Lo avrò incontrato sì e no quattro o cinque volte, durante quel breve e rigido inverno che lui trascorse a Rimini, in occasione delle periodiche visite che facevo ai miei genitori sempre più vecchi e soli. Una volta lo vidi al Tempio Malatestiano. Se ne stava a contemplare naso all’aria il Sigismondo di Piero della Francesca e parlottava fra sé e sé: aveva l’aria svagata distratta e appassionata di quelli che amano e capiscono la pittura”.
Il testo, di fatto, è il soggetto del film più bello di Zurlini, La prima notte di quiete, appunto. L’accenno a Lord Jim, però, mi fa pensare che questo tratto di costa, rosicchiato da nebbie madornali, non sia diverso a uno di quei porti di Giava o del Borneo, assonnati sulla prima colpa, narrati da Conrad. Non è raro trovare dei Conrad spiaggiati per caso quaggiù; gente che fissa quel mare lacustre, latrina azzurra, angusta, frenando ogni istinto al viaggio: gettano il viso a terra, raccolgono le vongole quando le acque, lunari, si ritirano, con brama d’addio e barba bianca.
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Zurlini ha istanti da scrittore autentico. Nei fondali della Biblioteca di Riccione è custodita la sua prima sceneggiatura, s’intitola Senza titolo, ovvero: I mostri. Sembra un romanzo esistenzialista francese. Nessuno la conosce.
Ai registi dona il genere diaristico. Il libro dei sogni di Federico Fellini è il palinsesto di tutti i suoi film, erotica wunderkammer di un regista Minotauro, un mostro. La storia editoriale del libro è accidentata: le edizioni Mondadori Electa l’hanno pubblicato fino al 2020, ora risulta irreperibile. Dieci anni fa l’editore visionario Mario Guaraldi – che di Fellini fu amico, curando il lancio ‘mondiale’ di E la nave va – pubblicò, insieme al semiologo Paolo Fabbri, Il libro dei miei sogni di Fellini in versione digitale, in tre tomi e più lingue. Idea troppo bella per durare.
Il diario di Andrej Tarkovskij passa sotto il titolo di Martirologio. L’onirico ha paramenti sacri, qui.
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Non so giudicare i libri di Paolo Sorrentino, regista di grido, felliniano. Non mi piacciono. Al Compromesso, il romanzo più bello di Elia Kazan – edito in Italia da Mattioli 1885 – antepongo il romanzo di uno dei suoi sceneggiatori, Budd Schulberg – pigliò l’Oscar per Fronte del porto –, I disincantati (stampa Sellerio).
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Ai libri, David Lynch preferisce, come attività secondaria, l’arte figurativa, pittorica. Ha fatto tante mostre, qua e là. Gli piacciono Francis Bacon ed Edward Hopper: gusti condivisi con qualche migliaio – o milione – di altri esseri umani. Non ha scritto romanzi o aforismi. Il fatto che abbia realizzato alcuni film straordinari, da The Elephant Man a Una storia vera e Mulholland Drive – per non dire del ciclo di “Twin Peaks” – non significa che sia un grande artista usando altri mezzi.
All’apparenza, Essere artisti – da poco pubblicato da il Saggiatore – pare una raccolta di testi o di aforismi di David Lynch. Invece – ma lo capisci solo alla fine – “i testi sono tratti da interviste di Chris Rodley a David Lynch”. Le interviste di Chris Rodley a David Lynch sono state pubblicate proprio da il Saggiatore nel 2016, come Io vedo me stesso. Insomma: Essere artisti è un taglia-e-cuci. Non sempre accattivante – d’altronde, si tratta di interviste. Essendo un genio, nel suo campo, David Lynch può permettersi di fare il cretino: “Credo che se si cresce in città si è terrorizzati dalla campagna, e se si cresce in campagna si è terrorizzati dalla città”; “Il cinema è perfetto per comunicare emozioni, ma richiede precisione”; “Non è una questione di talento, ma di destino”; “Ritengo che il marketing sia importante, ma credo molto di più nel fato”. Frasi da soffocare in pellicola trasparente, inutili.
Qualcosa, qua e là, da sottolineare:
“C’è bontà nei cieli blu e nei fiori, ma ci sono anche altre forze – il male selvaggio, la decadenza – che accompagnano ogni cosa”.
Naturalmente, Lynch spiega che gli adulti soffrono di “restrizione dell’immaginazione”, mentre da bambini “tutto è così misterioso”. Lo dicevano anche Paul Klee e Picasso – lo dice il Nazareno. Quando si parla di rispetto delle norme e delle forme, dobbiamo capire quali norme e quali forme – il formalismo è l’abominio della forma, a volte lo è anche la formalità; la norma non riguarda la normalità.
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Di scrittori-registi ce ne sono tanti: lo scrittore, di solito, ammattisce il film, vuole far vedere – a differenza di Lynch – quanto è intelligente, che la sa lunga, che vede meglio di tutti. Il film di uno scrittore, a volte, è sfoggio d’intelletto. Cesare Zavattini mantiene sempre un equilibrio obliquo, in cui germogliano purezze. Ha realizzato un solo film, La veritaaaà, nel 1982, dopo averne scritti decine, spesso bellissimi.
Nel 1974 Vanni Scheiwiller pubblica “nella mia collana di ‘Narratori’”, in duemila copie numerate, Un paese. Libro delicatissimo e crudo, ad impasto di requiem. Nella nuova prefazione – il libro, in origine, esce per Einaudi nel 1955 – Zavattini vira l’elogio di Luzzara verso i meandri del moderno, mondi scomparsi entro i paraventi del progresso. E scrive frasi bellissime:
“Essere dentro a questo vuoto di pianura che palpita all’unisono coi nostri polmoni in tutto, anche il nitido apparire e sparire delle lucciole ha del palpito, anche gli occhi dei gatti che balenano come le gemme rosse sul parafango dietro le biciclette, essere dentro a questo nero serale lunghissimo, un tunnel materno, è così bello quando si ama che tutte le cose diventano di un valore enorme, non c’è bisogno di possedere più di una bicicletta di una veste di un cappello, in questo momento avere di più sarebbe una pena, un fastidio”.
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Tra i registi che scrivono, amo Werner Herzog. Non avanza con i vezzi da scrittore in pectore: i suoi libri sono canovacci, poco più che soggetti, con tonsura di aggettivi.
“No, dice Fitzcarraldo, trasporteremo la nave scavalcando la montagna… eccoli, dunque, i due fiumi, in quel punto tanto vicini l’uno all’altro, e tra loro le colline di Camisea, soffocate dalla foresta vergine, ecco il monte che è il destino di Fitzcarraldo. Qui dunque è il posto della SUA SFIDA: la sfida dell’impossibile”.
Scrivere non è vedere bensì sentire: prima senti il coltello in pancia, poi lo vedi, ne riconosci il manico, l’ombra che lo ha conficcato, la stanza in cui morirai.