“Essere capiti fino al limite disumano”. Storie dal Tempio
Letterature
Veronica Tomassini
“Senza gestire l’ignoto” significa, appunto, farsi azzannare dall’ignoto. Il carteggio tra Vera e Nathan si interrompe e cambia la ‘quinta’, la scenografia – e quindi la sceneggiatura. Qui si comincia a raccontare ciò che ha portato alla scrittura di quel carteggio, quale malia o malattia. Il ‘Diario di Davide’, ambientato tra il 2018 e i nostri giorni, ovviamente, è una finzione: una nube di pensieri scritti da un personaggio fittizio che si chiama così, Davide. Perché due persone, altrimenti sconosciute, scelgono di amarsi attraverso lo spettro della letteratura, indossando prodigiose maschere? Anche questa è una delle domande. Ringrazio, va da sé, Veronica Tomassini, complice in questa nostra conversione narrativa. Questa l’ultima puntata.
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Aprile, 2019
Capisci: lo zero è la mia presenza, l’azzeramento la piscina dove allevo piante carnivore.
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L’acribia filologica con cui mia moglie, da quando ci siamo lasciati, ricostruisce la trama dei miei tradimenti, mi sorprende. Per quale arguzia del dolore? Insomma, agli occhi di tutti, ora, sono un mostro, un defloratore di vergini, un maniaco seriale, il console dello schifo, l’imprenditore delle porcherie. Ogni mia parola è usata per lapidarmi, per inchiodarmi a colpe che agli occhi di tutti, dei disonesti, sono limpide, lampeggiano. Ogni mia finzione è ritenuta conclamata ammissione, ogni difesa l’astio dell’indifendibile. Dio mio… dagli sguardi altrui trasuda una immagine di me così pietosa, così bastarda, che ho dovuto rifugiarmi in un cimitero per sconfiggermi, per tornare al mio zero.
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“Non puoi amarmi perché non mi conosci – e se mi conoscesti vedresti la razzia degli Sciti, il puzzo del suicida, che continua a marcire da trent’anni, nella stessa stanza, che è vicina al mio polmone destro, con una finestra tra le costole – ti ritrarresti, inorridita, e giustificata, perché la vita reclama la vita – piuttosto, ci amiamo per virtuosismo e per vizio formale, come i disperati, come le iene e i fiori – ci amiamo accaniti, canini, caini”, le ho scritto. E lei, visto che avevo citato, tempo fa, “l’assenzio del silenzio”, mi risponde, “ora sarà io l’assente – vedrai”. Non ho visto, ma sentito, come se avessi perduto le dita dei piedi, costretto a una dizione di vipera – queste labbra che sono spaiate in Golgota, e la preferenza matematica dello zero, sopra di me, come un grazie.
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Districandosi dal sussidiario delle flebo, rovesciando il sacco che conteneva il suo piscio – solido, sul pavimento, come la maschera di Agamennone – si erge sul letto dell’ospedale con la perentorietà di una Moira, mia nonna, dicendo, “dove mi hai portato puttaniere?, mi hai fottuto tutti i soldi, stronzo puttaniere”. L’infermiera mi guarda svagata, sono le tre di notte, per dare illusione alle mie magie ho con me il soggetto di Fitzcarraldo, la luce in corsia è algida, dolce, come un fuoco fatuo – più tardi, sufficientemente carina, inviterò l’infermiera a cena, quando non sei di turno e senza urla imbarazzanti, le dico, pregustando le forme e le sincopate sinuosità. Faccio la faccia da devoto martire – tranquilla, nonna, stai tranquilla, dico, come se le sue parole, che agiscono ovunque, perfino tra i capelli, non contino – finché l’infermiera non innaffia le vene della vecchia con una dozzina di calmanti e lei, ostinandosi al puttaniere mi hai fottuto tutti i soldi, rovescia gli occhi, ne vedo il sussurro bianco, crolla. Torno a Werner Herzog – sarà accaduto un anno e mezzo fa, sull’Everest della demenza senile la nonna non ricorda più niente se non il mio nome, Davide, il passepartout della gloria, non ricorda il marito morto qualche anno prima, crepato pure lui nella demenza, né il figlio, il suicida, per questo io sono nipote e figlio e marito e divinità e demonio – e penso che ha ragione, parola di nonna, sono un puttaniere, un laido traditore, e gli ho fottuto i soldi per rifare la casa dove ora sta mia moglie con la fioritura dei figli e io sono il virtuoso estraneo.
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Alla fine, che finale scontato, i carabinieri scassano il cancello del cimitero, non faccio a tempo a dire che i morti non perdonano chi fa irruzione in casa loro senza invito, qualcuno – faccia tonda, scema, poco più giovane di me, divisa impeccabile, lieve accenno di pancia, forse ha un figlio, riconosco nel suo sguardo la probabile moglie infelice e viziata che a giorni dispari si fa trombare dal meccanico con cui il marito esce a giocare a calcetto, il sabato – mi intima l’alt, io sono già sul muro che sfocia nel bosco, sopra la cappella della famiglia ‘Ranzoni’, salto, scompaio. Dietro al cimitero, dalla parte del campo sportivo – che in primavera si accende di migliaia di margherite, sembrano fiamme sul chi va là della candela – un trans dal corpo davvero illustre smanetta l’aggeggio davanti a una torma di ragazzini motorizzati, che ridono, lo bestemmiano, ma si vergognano a prenderlo, ha qualcosa di miracoloso, di pagano, di icastico, l’uomo dalle gambe slanciate e le tette che trionfano, all’aria.
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Dovrei chiedere perdono a Veronica – oppure partire da qui, a piedi, e chiederla in sposa, senza altra testimonianza che un’ostia di api. La immagino ripetutamente rotta da decine di umani: non c’entra la morale, ma la compassione. Se l’uomo si accontenta di un piacere così frivolo come il fato di possedere una donna, perché non concedersi? Veronica fa capitolare tutti perché ricapitola fino all’urlo la vita di tutti – non è preda ma ragione della perdita. Ci amiamo sempre da sconosciuti, come chi sa che non ha altro amore, come chi non sa amare.
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Che latitanza sinistra, sprecata… verso il fiume, si apre uno spiazzo – prima coltivavano meli, ora c’è un centro di tiro con l’arco. Nello stesso centro, un uomo addestra i falchi. Cerco di organizzare una sintonia tra freccia e falco – entrambi hanno la lineare precisione del fischio e dello scopo – mentre prova la picchiata, incitato dal premio che gli propone il falconiere – il solito tozzo di carne che splende come un monile armeno –, l’uccello si restringe fino a diventare un filo, poi un punto, può entrare nell’occhio ruvido di fame di un lupo, irradiarsi nel suo corpo, prendere le sue sembianze e lasciarlo lì, cadavere, recensione di formiche, mosche, vermi a cuspide, i veri artefici della vita e della morte. Anche da qui si vedono le spalle di cemento del cimitero, perché il vero interrogativo è la memoria dei morti, e fino a che punto, ricordando questo mondo, lo faranno esistere. In tasca ho la fotografia di mio padre e le lettere che dicono il suo nome, ‘Giuseppe Brullo’. Con una pietra, le spacco, le affilo, le sbriciolo – finalmente, per un incendio dell’eredità, mio padre muore. Getto la poltiglia metallica nel fiume, le trote roteano, mangiano, vanno via, come pezzi di un puzzle pensato all’inizio del mondo dalla divinità del tempo, che ha denti ovunque.
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Poiché la gola è un labirinto, mi ha mostrato che la voce può essere una tigre bianca, non ha bisogno di altra aristocrazia, basta la possibilità di uccidere. La sua voce, dall’ordalia delle navate, spinge qualcuno al pianto, altri saranno forzati alla conversione, qualcuno potrebbe scappare, annientandosi – stimmate, pallottola, sudario, liana d’acido, dico per dire della sua voce, di cui lei, possedendone l’astrolabio, ignora tutto. Vorrei morderla – se non altro perché si chiama come la sorellastra del Minotauro, ma non ha sangue, so, ha luce nell’arteria capitale, astri di rame, e quando la invito annunciando la parola Asterione lei mi mostra la figlia, dandomi a intendere io ho una prateria prima di te, tu sei l’ultimo, l’infimo. Dopo sei anni la mia sorellastra che ha il nome di una regina norvegese, risponde a un mio messaggio – cerco di metterla nell’incanto di un legame – si sfila, non risponde più. Una parola ogni sei anni forse è la cronologia degli innati – dovrei cercarla – ma un viso non ha la stessa infedeltà del verbo.
*In copertina: Samuel Beckett secondo Richard Avedon