13 Maggio 2020

Stiamo soffrendo, siamo stanchi, esausti: bisogna prendere la morte sul serio e cominciare una revisione della vita interiore. Bisogna morire per risorgere… Un editoriale di Giuseppe Conoci

Siamo destinati a stare male, molto male, se non cominciamo ad ascoltare seriamente e con maggiore determinazione la nostra voce interiore, le nostre molteplici voci interiori. Chi sono io per affermare ciò e per esserne certo? Osservo questo processo in me e immagino che la stessa cosa stia accadendo anche in voi in misura maggiore o minore.  È come se il mondo che conosciamo sia giunto al limite, al suo orlo e nulla dall’esterno può rinnovarlo, nessuna azione potrà essere veramente efficace se tale azione non sorge nelle profondità che sono in noi. 

Al mondo che c’era prima di questa crisi/pandemia non possiamo tornare, non è bene tornare perché altrimenti ci predisponiamo a una crisi ancora più grande. Non possiamo fare finta che nulla sia accaduto in questi mesi e tornare alla solita vita come se niente fosse. Ci troviamo dentro a un processo di radicale trasfigurazione della coscienza, un processo di morte/rinascita che non riguarda solo l’esterno, la società, il mondo, riguarda anche la nostra identità singola, intima, personale – la coscienza non conosce distinzione tra individuale e collettivo.

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C’è una parte di noi esausta, stanca, che non ne può più di questa vita, che sta di fatto morendo e desidera intensamente morire. Questa parte dentro la nostra vita personale va ascoltata, non va rimossa con l’ossessione del lavoro, con distrazioni continue. Va compresa e “aiutata a morire”. Nella misura in cui non ascoltiamo questa parte di noi che vuole morire, in maniera proporzionale ci predisponiamo ad un esaurimento delle nostre forze e infine anche a desiderare o fantasticare il suicidio. Siamo stanchi, molto stanchi, questa stanchezza non può essere curata solo con due mesi di quarantena, o con una vacanza; non possiamo andare avanti mungendo all’infinito le risorse del nostro copro come mungiamo quelle della terra.

Bisogna prendere la morte sul serio, la morte e la minaccia di morte sono gli sproni più grandi che abbiamo a cambiare, ma se non sappiamo cogliere questa spinta radicale verso il cambiamento individuale e collettivo cosa accadrà? Dobbiamo imparare a dare ascolto agli impulsi di morte in noi che possono assumere tante forme diverse.  Essere continuamente stanchi e sfiniti è un segnale forte di morte. Essere depressi, angosciati o tristi, è un segnale forte di morte che chiede un ascolto profondo, radicale.

Non è sufficiente ricorrere alle benzodiazepine, alla valeriana, o ai serotoninergici. Ci è richiesto di fermarci, uno stop e di cominciare a porre un ascolto serio alla nostra vita interiore, non è sufficiente neppure meditare mezz’ora al giorno. Qui si tratta di un vero e proprio trasloco in corso, lungo e paziente, da uno stato di coscienza a un altro; stiamo cambiando casa, stiamo cambiando forma, stiamo mutando pelle, la nostra fisionomia antropologica sta mutando, deve mutare. È necessaria una revisione radicale di noi stessi e del mondo. Non è uno scherzo. Pensiamo davvero di ritornare alla solita vita di sempre, alla “normalità”, a breve?

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Il mondo esterno ha raggiunto il punto limite e per essere rinnovato è necessario che noi ci rivolgiamo all’interno di noi stessi e permettiamo a qualcosa che è più grande del nostro io volitivo di rinnovarci. Questo qualcosa non ha nome, anche se ogni partito religioso si affanna a dargliene uno e a tirare l’acqua al proprio mulino. È un lavoro interiore lungo, continuo, incessante, ma anche liberatorio nella misura in cui ci dedichiamo a farlo. Non basta fare un corso di meditazione nel weekend o nel tempo libero. Non basta una seduta di psicoterapia una volta alla settimana o due. C’è tanto materiale che attende di essere traslocato, dobbiamo farci traghettatori, andare e venire continuamente da una sponda all’altra.

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Dentro di noi in questo momento c’è qualcosa che desidera morire, che soffre terribilmente, che grida in silenzio, che sta male, che non c’è la fa più. Potrei dire dentro di me ma dico dentro di noi poiché sono certo di non essere l’unico a sentire questo disagio estremo, questa pazzia, questa sofferenza; poiché credo non c’è una reale distinzione tra il dentro e il fuori, tra il me e il voi.

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Dobbiamo dare ascolto a questa voce interiore, dalla quale siamo continuamente distolti, ipnotizzati dalle notizie mediatiche a ogni ora del giorno. Dobbiamo interrompere questa ipnosi collettiva, e cominciare pazientemente a dare ascolto a questa voce interna, farci devoti di tale voce, ascoltarne il sussurro o il grido lacerante, traghettarla, articolarla, portarla fuori, darle una forma. Per questo scrivo. Scrivere è un modo di stabilire un dialogo con le nostre forze interiori, da minacciose farle diventare alleate.

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Io non voglio tornare al mondo di prima perché quella corsa folle è insostenibile, inumana, angosciante. Non ci sto. Non solo la mia anima grida, anche il mio corpo si oppone, è in fiamme, da cinque anni soffro di dolore pelvico cronico (nevralgia del pudendo) e non ne posso più, non ne posso più, non ne posso più! È come avere un fuoco perennemente acceso nei genitali, dentro l’ano. È una condizione insostenibile non potersi sedere mai. Non sono l’unico a soffrire per questa condizione, che in realtà è molto più diffusa di quanto se ne parli. Smettiamola allora di fare finta di nulla. Parliamone. Diciamoci i nostri dolori, le nostre sofferenze. Questo dolore fisico urla di fermarmi e io sono spesso sordo a tale grido, non so ascoltare. Vi dice qualcosa questa riluttanza? Questa perenne inimicizia con il proprio corpo e con il proprio dolore? Non sono l’unico ad avere questa sordità credo.

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È necessario, adesso più che mai, iniziare una riabilitazione della nostra vita interiore perché il dolore di cui soffre il nostro corpo è il risultato di un grido inascoltato nella nostra anima. Questo mondo interiore disabitato, questo luogo pieno di fantasmi e di ombre, ha bisogno di essere ripopolato. Cominciamo a frequentarlo, cominciamo a portare l’attenzione a questo essere moribondo in noi, accompagniamolo a morire, diamogli assistenza, assistiamo questa triste, paurosa, dolorosa morte. Poniamoci in ascolto del corpo che muore e anche del corpo che rinasce, che vuol rinascere. Questa quarantena non è servita a nulla se non comprendiamo il senso profondo dell’isolamento, l’importanza di isolarci periodicamente e intenzionalmente dalla vita esteriore, dal rapporto con gli altri, dalle domande, dalle pressioni, dalle richieste sempre troppe, sempre invadenti, dalle responsabilità e permettere alla nostra vita interiore, sempre soffocata, ai nostri desideri, sempre taciuti, alla nostra fantasia, ai sogni sempre tenuti al guinzaglio, di fiorire, di emergere.

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Sono la fantasia, l’immaginazione, il sognare che possono ricreare il mondo, tanto la vita singola quando giunge a un punto morto quanto quella collettiva. Esercitiamo la nostra fantasia allora senza pensare che stiamo perdendo tempo. Questo distacco dal mondo, questa esperienza della morte al mondo, dell’inabissarsi nel più profondo di se stessi è cruciale e va compiuta ciclicamente e deliberatamente, senza arrivare a essere costretti da agenti esterni. Ogni crisi (come ogni conflitto) altro non è che una forzatura a tornare in ascolto, una forzatura a fare una radicale reVisione delle nostre vite, delle nostre azioni, delle nostre intenzioni, dei nostri progetti.

Artisti, poeti, guaritori, sciamani, conoscono bene questo processo poiché il loro destino li colloca in una crisi perenne che è anche un perenne stato di creatività. Crisi e creatività non sono scindibili, ma affinché la crisi possa tramutarsi in creatività bisogna viverla, abitarla, non fuggirla. In questo momento siamo chiamati un po’ tutti a essere artisti allora; siamo chiamati a morire e a rinascere continuamente, a entrare e a uscire dalla paura, dall’angoscia, dal dolore, dal panico. Siamo chiamati a cogliere in quel senso di asfissia, di soffocamento, di mancanza d’aria, o di depressione non solo il segno di una personale inadeguatezza ma ben di più, il segno di una profonda radicale chiamata a rigenerare noi stessi, le nostre relazioni e il mondo.

Giuseppe Conoci

*Giuseppe Conoci è responsabile di AnimaMundi Edizioni

**In copertina: Dean Martin e Jerry Lewis fotografati da Philippe Halsman nel 1951

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