Nel 1988 Franco Battiato scelse di pubblicare A Casa di Ida Rubinstein, disco miliare di Giuni Russo. Due anni prima era uscito Giuni: il singolo Alghero era stato presentato, con successo, al Festivalbar. Ora Giuni canta Donizetti, Bellini, Verdi. Ida Rubinstein, come si sa, è la straordinaria ballerina dei “Balletti russi”: era stata Salomé e Cleopatra e Sherazade; D’Annunzio scrisse per lei Le martyre de Saint Sébastien. La si ricorda come munifica mecenate di grandi musicisti.
Quell’anno, con la sua piccola casa discografica, “L’Ottava”, Battiato aveva pubblicato Juri Camisasca (Te Deum), Giusto Pio e Saro Cosentino. In quanto editore, invece, pubblicava per lo più testi di Gurdjieff & discepoli; nel 1987 aveva pubblicato Anima, un meraviglioso romanzo di Natsume Sōseki (poi ripreso da Se).
Ad ogni modo, quello è un disco di svolta di Giuni Russo. Di rivolta. Dopo la sbornia degli anni Ottanta – con dischi d’eccellenza, elaborati anche insieme a Battiato, come Energie (1981) e Mediterranea (1984) – le uscite di Giuni sono lente, miliari. Nel 1994 esce Se fossi più simpatica sarei meno antipatica con testi – ideati da Giuni insieme a Maria Antonietta Sisini – mirabili. Intanto, Strade parallele, un’“aria siciliana” intonata con Battiato, a nitor d’incanto, piena di meriggi e venturi gelsomini; poi: appaiono canzoni che testimoniano la ricerca spirituale dell’artista. La sposa, ad esempio, trae spunto dall’“Elogio della Sapienza” che s’innalza come un monolite nel mezzo del Siracide:
“Sono cresciuta come un cedro sul Libano
come un cipresso sui monti dell’Ermon.
Sono cresciuta come una palma in Engaddi
e come le piante di rose in Gerico
come un ulivo maestoso nella pianura
e come un platano mi sono elevata”.
La sua figura, invece – brano, in assoluto, tra i più vertiginosi di Giuni – è tratto – testualmente, a tratti – dal Cantico spirituale di Giovanni della Croce.
“Scopri la tua presenza,
mi uccida la tua vista e tua bellezza,
sai che la sofferenza
di amore non si cura
se non con la presenza e la figura”.
Alle parole di Giovanni della Croce, cruciali, Giuni aggiunge le sue, aggiornando il testo mistico all’oggi, a un’urgenza primigenia, all’eterna scuola della sequela:
“L’estate appassisce silenziosa
Foglie dorate gocciolano giù
Apro le braccia al suo declinare stanco
E lascia la tua luce in meStelle cadenti incrociano i pensieri
I desideri scivolano giù
Mettimi come segno sul tuo cuore
Ho bisogno di te”
Così, in una porzione del commento al Cantico, scrive Giovanni della Croce:
“Ora c’è da sapere come l’amore non raggiunge mai la perfezione, finché gli amanti non si eguagliano in maniera tale da trasformarsi l’uno nell’altro; solo allora l’amore è sano. Perciò ora l’anima scorge in sé un certo disegno imperfetto di amore, che è la sofferenza di cui si parla, bramando di conformarsi perfettamente all’immagine di cui è il disegno, cioè il Verbo Figlio di Dio, suo Sposo”.
Diversamente da altri artisti, che optano per la spiritualità – pur con genio – più che altro come una opzione estetica, come una ricerca culturale, Giuni Russo fa della scalata al Carmelo (cioè, dell’inabissarsi) la propria vita – dunque, l’ecumene della morte.
Nel 2003 l’artista pubblica Morirò d’amore, album di implacabile bellezza; tra i testi, ricordo l’interpretazione de Il Carmelo di Echt, magnifica scrittura di Juri Camisasca dedicata alla vita di Edith Stein. La canzone che dona titolo all’album sarà interpretata da Giuni Russo in una delle più brutte edizioni del Festival di Saremo di sempre, vinta da Alexia. Giuni, per la cronaca, è canonizzata settima, tra Lisa e Silvia Salemi.
Sono le interpretazioni di Giuni Russo – facilmente visibili in rete – a stritolare il cuore: ciò che è soave si mescola al feroce; la tenerezza sa di chiodi sulla lingua; reliquiario di acuti ci invoca. La donna che sapeva teatralizzarsi e travestirsi, giocando al pop colto, ora sta sul bocciolo della mistica, giunge a una purezza che annienta gli applausi, il diorama dello ‘show’ – stordisce, invece, costringe al silenzio, Giuni. Ecco: se Battiato – maestro nel gioco essoterico/esoterico – avvince e colloca nella ricerca culturale, Giuni adempie al culto. Non ci forza ad aprire un libro, ma ad obbedire; non reclama l’intelligenza, bensì la norma del cuore. Converte.
In tali ultimi testi, è letale lo sposalizio con Teresa d’Avila. In canzoni come Moro perché non moro, oppure Io nulla, straordinario inno dell’annientamento nell’Altro:
“Fai cantare alla mia lingua
Melodie sconosciute
Dell’amore che buca l’opacità del mondo e crea
Io nulla, io nulla, io nulla, io nulla
Sciamano pensieri di pura luce
La via dell’assoluto rischiara”.
In Signorina Romeo Live (2002), Giuni Russo interpreta la preghiera-amuleto di Teresa d’Avila, parole in cui trincerarsi, che cingono, in tributo di nodi, il sole:
“Nada te turbe;
nada te espante;
todo se pasa;
Dios no se muda,
la paciencia
todo lo alcanza.
Quien a Dios tiene,
nada le falta.
Solo Dios basta”.
Tutto passa, soltanto Dio è immutabile: incalzalo con pazienza. Negli estremi di questo testo-simbolo, si fa vivida la via: “Nulla ti turbi… Dio solo basta”. Fu il monito, inciso sul diario nel 1905, di Charles de Foucauld:
“Niente ti turbi
niente ti spaventi
tutto passa
Dio non cambia.
La pazienza ottiene tutto.
Quando si ha Dio, non manca niente.
Dio solo basta”.
In calce, il motto: Dilexit multum (tratto dal Vangelo di Luca, 7, 47: “sono perdonati i suoi molti peccati, perché ha molto amato”; Remissa sunt peccata eius multa, quoniam dilexit multum) e l’incarico di vita: “Amare, Obbedire, Imitare”. Nobile, militare, avventuriero, Charles de Foucauld, dopo la dura conversione, aveva posto il proprio ricovero spirituale a Tamanrasset, nell’Ahaggar. Predicava, letteralmente, nel deserto, in un Carmelo tra le sabbie. Nulla turbava il suo ardore: tentò la via del niente perché “Il nostro annientamento è il mezzo più potente che abbiamo per unirci a Gesù e per fare il bene delle anime”. Lo uccisero, con violenza, il primo dicembre del 1916, i Tuareg a cui faceva del bene.
Giuni Russo morì a metà settembre, nel 2004. Sepolta a Milano, nello spazio delle carmelitane scalze, dall’arsura del soffrire seppe trarre ardimento d’amore. La riservatezza è la riserva di chi accetta l’invito dell’incontro e di sé dunque si spoglia. Una libertà che fa deporre il proprio nome davanti al prossimo – perché marcisca, ne nascano gigli, o inflorescenze di mosche.