“… Percorreremo assieme le vie che portano all’essenza…”
Ho sempre avuto un approccio da “archivista” nei confronti della morte: di quella di un parente, di un amico… Superato un comprensibile momento iniziale di smarrimento per la dipartita, senza perdermi d’animo, anzi con ancor più lena, ho sempre dato spazio a una conseguente opera di “raccolta e archiviazione” di tutti quegli elementi esistenziali che hanno caratterizzato un vissuto comune, un cammino condiviso: stampare il dialogo di una chat, elencare date cruciali, raggruppare foto, raccogliere materiale… per me rappresentano gesti naturali del post-mortem. Come a voler congelare non il momento della morte in sé, quanto piuttosto il percorso concreto, tangibile, che l’ha preceduto; un appiglio materialistico sull’abisso, un modo per dire a se stessi che nulla, neanche una briciola, andrà perduta di quel che è stato fatto insieme; per non darla vinta alla morte che livella – lei sì, archivista definitiva e inesorabile! –, che chiude a ogni possibilità di proseguimento di un discorso tra viventi che emettono suoni. Allora ci si affida alla stampa dei reperti per averli sottomano nei giorni successivi alla tumulazione, alla tecnologia che conserva negli hard disk pezzi di testimonianze anche frivole di ciò che è stato, alle registrazioni per quando verrà a mancare il ricordo della voce, alle immagini catturate da un vivere quotidiano senza cronaca, almeno per noi “comuni mortali” non famosi. Tutto viene sigillato in scatole, poi seppellite in armadi, in attesa di quei giorni in cui c’è più bisogno di ravvivare memorie, di ricordare fatti ricoperti dalla polvere ma non dimenticati, spostati dalla visuale ma non cancellati. Qualcuno dice che esagero a conservare tutto, che dovrei lasciar andare, che dovrei fare space clearing: ma non c’è ossessione nel mio conservare, c’è solo previdenza, cura museale per vite poco importanti agli occhi della Storia. Si conserva il passato perché il nostro cervello, giustamente, per fare spazio alle urgenze del presente, lascia andare fisiologicamente molti dati considerati “inutili” alla quotidianità.
Quando, però, ad “abbandonare il pianeta” è una persona altrettanto cara e preziosa come Franco Battiato, che non ha bisogno di “archiviazioni” d’urgenza, come nel caso del parente o dell’amico sconosciuti alle cronache, in quanto la sua stessa esistenza artistica è stata produttrice naturale di tracce non solo sonore, si finisce con l’interrogarsi sul reale significato della “presenza nell’assenza” di un personaggio pubblico di tale calibro, che ha avuto e ha un impatto umano, spirituale e artistico, diverso rispetto a quello di altri nomi altrettanto autorevoli del cosiddetto “mondo dello spettacolo”. Nomi di personaggi estinti, cari a un popolo in fila sotto il sole per salutare il feretro, osannati e pianti, certo, ma la cui essenza va ad affievolirsi, oserei dire naturalmente, nel corso del tempo: questi passanti, a maggior ragione, sono bisognosi di archivi e teche Rai da rispolverare.
Battiato, invece, si fa ricordare con una forza crescente proprio nel silenzio e nella distanza; più si lascia sedimentare l’evento umano della sua morte, più la sua essenza risale attraverso i mesi e le distrazioni come un “rigurgito spirituale”. Battiato non apprezzava gli archivisti; raccomandava sempre di non raccogliere ossessivamente tutto su di lui: interviste, foto, video, bootleg, “rubriche aperte sui peli” di Battiato e “reliquie” varie… Ci preparava, già allora, alla ricerca dell’essenza, al non attaccamento alle cose e ai corpi cantanti. Anche l’Egitto, con le sue piramidi e le sue meraviglie, prima o poi verrà ricoperto nuovamente dalle sabbie, e i musei perderanno i propri reperti custoditi gelosamente: la materia è destinata a dissolversi, come le onde in uno stagno o quelle sonore di una canzone. Ma l’essenza no, quella permane anche senza l’ausilio degli oggetti archiviati: come nel film Padre di Giada Colagrande, la presenza dell’estinto (interpretato proprio da Battiato) si fa ancor più viva e significativa – per comodità cinematografiche si identifica questa presenza attraverso la figura ormai folcloristica del classico fantasma – all’indomani della sua dipartita: ed è un esserci discreto, non spaventevole, silenzioso (silenzio a cui Battiato, per questioni private non da tutti rispettate, ci aveva già consegnati molto tempo prima di attraversare “la porta dello spavento supremo”). “Un giorno senza tramonto / le voci si faranno presenze”: è la scoperta dell’essenza nell’assenza, anche dell’assenza in vitam. Una scoperta che può essere fatta solo se si ha il coraggio, a un certo punto, di abbassare l’audio dei vari tour commemorativi, degli affollati e umanamente comprensibili concerti-evento per onorare il grande artista, e di affidarsi seppur dolorosamente alle sole registrazioni discografiche di una voce destinata a non ritornare, mai più, per come eravamo abituati a percepirla, ovvero attraverso i limitati sensi umani: la voce del padrone di un corpo disfatto, che non rivedremo mai più muoversi, cantare, scherzare, suonare, danzare su un palco come negli anni gloriosi e spensierati dei live in giro per il mondo e dei nostri viaggi in vista di concerti estivi, tra piazze e cavee.
“Spensierati” fino a un certo punto: la musica di Battiato solo in superficie lasciava spazio a un goliardico citazionismo all’apparenza slegato e al cazzeggio cuccurucucheggiante dei fine concerto sotto i palchi; in realtà i testi e la musica di Battiato, come ben sa chi l’ha musicalmente frequentato, scavavano in profondità, mutavano inesorabilmente l’animo dell’ascoltatore, si prendevano il loro tempo, disseppellivano angolazioni interiori non catalogabili, di quelle che ci invitavano e ancora c’invitano al viaggio in paesi che tanto ci somigliano: territori spirituali ma anche geografici; a volte prima geografici e poi spirituali. Viaggiare con Battiato nelle cuffie, colonna sonora di traversate solitarie in territori non per forza mistici, a volte popolari, turistici, affollati come i mercati arabi in paesi stranieri o il “suk palermitano” di Ballarò, perché Battiato rappresentava e rappresenta l’esperimento riuscitissimo di una ricerca superiore fatta con mezzi appartenenti alla cosiddetta “musica di comunicazione”, non per forza di consumo (pur essendo stata anche di consumo), e che diede vita a un inedito, colto e ossimorico “pop elitario”. Così come fanno certi vaccini di ultima generazione, veicolava “frammenti genetici” di insegnamenti sconosciuti e antichissimi attraverso l’involucro “innocuo” del mezzo sonoro: l’obiettivo non dichiarato era quello di creare un’immunità (mai “di gregge” perché Le aquile non volano a stormi, ma amano e difendono la propria individualità) agli “urlettini dei cantanti”, al facile consenso dato ai tormentoni estivi dalla vita effimera, a un cantautorato nostrano incapace di offrire strade culturali alternative o esotiche, quando non addirittura esoteriche. Ha portato, musicalmente parlando, l’Alto alla portata di quasi tutti, senza mai scendere a compromessi con il Basso, con gli istinti un po’ bestiali e i desideri mitici dei suoi stessi fan che sistematicamente – per nostra fortuna – ignorava, con i “livelli inferiori” della condizione umana che aspirano a una facile fruibilità del mezzo. Ha seguito e rispettato i propri interessi culturali e non quelli suggeriti dal mercato, pur avendo venduto milioni di copie. E soprattutto ci ha fatto comprendere che tentare di modificare i massimi sistemi – primi fra tutti quelli politici! – è inutile oltre che pretestuoso, e che è ben più arduo ma spiritualmente soddisfacente (Battiato sarà sempre il nostro “Assessore alle Meccaniche Celesti”!) impegnarsi a cambiare il proprio microcosmo interiore, a rendere migliore ciò che abbiamo a portata di mano in noi stessi. Engagez-vous!
Un’essenza privilegiata quella di Battiato, dobbiamo dircelo con sincerità, che parte avvantaggiata nel farsi agguantare, nonostante la retorica francamente ridicola dei “colleghi” che lo ricordano solo per la sua capacità di raccontare barzellette – come a voler delegittimare e sminuire il suo impatto culturale decisamente superiore alla produzione mainstream a cui loro stessi appartengono – o per le sue originali abitudini casalinghe su cui sono stati sprecati preziosi minuti di interviste e fiumi d’inchiostro; sintomo di un non saper cosa chiedere perché impreparati, lontani dalle urgenze dell’anima e più interessati al personaggio… Per fortuna in molti hanno saputo scavare e “rubare” segreti quando il Maestro si apriva alle loro domande e “percepiva” che grazie alle sue risposte avrebbe potuto donare qualcosa di veramente profondo all’interlocutore. Tra questi – ma potrei citarne di più strutturati – il libro-intervista Battiato. Io chi sono? di Daniele Bossari: in quel dialogo si avverte una “sete” da parte dell’intervistatore, tenuta a bada dall’allenata capacità di Battiato di dire abbastanza ma di non dire proprio tutto, come è tipico di chi “maneggia” argomenti esoterici che, in quanto tali, non sono da disseminare a cuor leggero. Altri, invece, infelicemente affezionati a domande leziose sull’orario delle meditazioni mattutine, sul tipo di bevanda preferita, sulla marca di scarpe indossate, sugli yogurt mangiati a tradimento da una “fidanzata” di passaggio, e altri pruriti gossippari. Quant’è inutile sottolineare la “leggerezza del saggio” o la sua umana normalità? Il vero scoop, invece, sarebbe evidenziare l’imprevista profondità di un cretino. Il rischio che dopo una morte – quella di chiunque – circolino solo stupidaggini o aneddoti superficiali è altissimo. Per fortuna esiste parallelamente lo zoccolo duro degli amici di strada, di quelli con cui si è condiviso pane e spirito, musica e silenzio, gavetta e successo, e che più degli artisti da passerella possono testimoniare quell’essenza o perlomeno fornire elementi con cui poterla ricercare in proprio. La ritrosia (mista a imbarazzo) di Battiato nel rispondere a certe domande era palese ai più attenti: a vincere il “premio banalità” di tutti i tempi è stata certamente la sempreverde “Hai poi trovato il tuo centro di gravità permanente?”. Chissà in quanti avevano veramente sentito parlare di Gurdjieff prima di preparare le domande delle loro inutili interviste!
A un anno dalla sua scomparsa possiamo già cominciare ad affermare che l’eredità umana e artistica di Franco Battiato non ha bisogno di “aiutini” per continuare a consolidarsi, non ha bisogno di continue commemorazioni pubbliche o di “rimescolamenti” discografici giusto per battere cassa, perché in chi lo ha interiorizzato sul serio, quell’eredità non ha mai subito cali o rivisitazioni. Chi si accontenta dell’eredità ricevuta sa anche che dallo scorso 18 maggio 2021 sta lentamente imparando a “campare di rendita” con ciò che è riuscito a catturare quando il Maestro era in vita, e a ripercorrere il suo cammino discografico con il disincanto tipico del “discepolo” lasciato da solo a meditare sugli insegnamenti ricevuti. I libri su Battiato, usciti postumi, non aggiungeranno nulla di nuovo a quel che abbiamo appreso con le nostre sole forze di attenti ascoltatori ed estimatori: certo, circoleranno altri aneddoti, ulteriori interpretazioni e ricerche storico-discografiche sulla genesi dei vari album del cantautore siciliano, ma i “segni” lasciati in chi lo ha seguito sono le uniche testimonianze valide del passaggio di un artista originale, inimitabile, storicamente irripetibile. Che non si cerchino pallidi epigoni o blande imitazioni: utilizziamo, tutt’al più, le nostre energie per capire in maniera più approfondita la “fenomenologia di Battiato”, l’irriproducibilità tecnica della sua opera d’arte – parafrasando Benjamin –, la felice intersecazione spazio-temporale tra momenti storici, ispirazioni artistiche acerbe, cadute e risalite, cambi di rotta, occasioni e fortune, incontri con uomini straordinari (e anche con molte donne), genialità musicali e poetiche, che hanno prodotto l’uomo che cantava sul tappeto. Non sarà rianalizzando parola dopo parola, nota dopo nota, capello dopo capello, che impareremo a vivere di rendita come accennato sopra, ma lasciandoci semplicemente trasportare da parole e musiche che – da qui l’elogio dell’archiviazione con cui ho esordito in questo pensiero scritto -, rispetto ai suoni emessi da noi comuni mortali, non tramonteranno mai perché fissate sui supporti tecnologici di un’immortalità discografica che se da un lato ci addolora (l’idea di un futuro orfano di nuovi inediti ci lacera interiormente), dall’altro ci conforta con una sfida infinita al ri-ascolto, al ripercorrere le strade dell’est dell’anima e di un pianeta offeso da nuove guerre e altre scempiaggini anti-ecologiche: “Povera Terra / schiacciata dagli abusi del potere…” avrebbe forse riscritto Battiato, assistendo a tutto ciò che sta accadendo nel mondo; anche se in allerta già dai tempi di Pollution (1973).
Un ri-ascolto sigillato dall’eterna inesorabilità della morte; un ritorno sui passi dell’artista per meglio comprendere, per acciuffare sfumature che nell’assenza diventano tracce imprescindibili da seguire, perché non si può fare altrimenti. Ma allora qual è la funzione dell’estimatore – Ti sei mai chiesto quale funzione hai? – una volta che viene a mancare il proprio artista di riferimento? Nel nostro caso ci resta solo il riascolto o può esserci di più? Bisognerebbe tentare di “trasferire”, ma è una strada ardua e non da tutti percorribile, l’esperienza della ricerca alternativa di Battiato ognuno nel proprio ambito; anche partendo da cose semplici che semplici non sono, come il coltivare letture poco frequentate, scomode dal punto di vista spirituale, quelle meno battute – direbbe Frost – ma che farebbero la differenza… Insomma cercare di non accontentarsi di piccole gioie quotidiane, di puntare in verticale verso obiettivi superiori; non dico essere un’immagine divina di questa realtà ma almeno sfidarsi culturalmente in un mondo che, oggi più di ieri, scivola inesorabilmente verso un’omologazione raccapricciante. Ecco, credo che tentare – nel proprio piccolo – di perseguire una via del genere potrebbe rappresentare il giusto omaggio da fare alla memoria di un intellettuale come Battiato, prima ancora che al cantautore.
Alla domanda legittima “Che cosa resterà di me, del transito terrestre?” siamo noi a dover dare una risposta esaustiva; che cosa resterà del transito umano e artistico di Franco Battiato al di là del suo successo? Abbiamo avuto un anno di tempo per metabolizzare la sua assenza corporea, materiale, “scenografica” oltre che discografica, anche se per molti dei suoi estimatori occorrerà forse ancora di più per “abituarsi” al vuoto terreno. Un Vuoto prezioso, buddistico, che apre a un concerto infinito fatto di musica ma soprattutto di silenzio e di pazienza. Rassegnati al distacco a suon di passacaglia, bisognerà abbeverarsi per forza di cose presso fonti superiori di conoscenza, e non è detto che sia un’alternativa disagevole. D’altronde Battiato non ci ha sempre spinti, nel corso della sua intera carriera musicale, a cercare altri, e alti, segnali di vita, altri stati di coscienza non dipendenti dalla materia? Sarebbe un peccato non cominciare ad applicare questi insegnamenti proprio partendo dalla sua persona non più persona, ma divenuta entità un tempo legata a un involucro umano che tutti chiamavano Franco. Ora che quest’entità non è più “prigioniera” di una catalogazione artistica o meramente spazio-temporale, i testi e la musica di Battiato sono finalmente liberi, più di quanto non lo fossero già prima, di raggiungerci in un’intimità rinnovata dalla morte, dall’assenza che diventa addirittura un'”occasione” per un riascolto non solo nostalgico ma animato da nuove energie.
Michele Nigro