30 Dicembre 2023

“Resto nell’insipienza, trascendo ogni scienza”. Giovanni della Croce Reloaded

Giovanni della Croce è autore costantemente tradotto. Tradurlo, tuttavia, è entrare nella zona buia del linguaggio: significa riformulare il verbo, per così dire, alla foce di un falò. Fare esperienza dell’insignificante. Colpo di grazia alla lingua aggraziata – grazia, appunto. La traduzione, in questo caso, pretende la complicanza della complicità. In Italia di traduzioni di Giovanni della Croce ne esistono diverse, resta memorabile – per prossimità ritmica – il tentativo di Cristina Campo. In lingua inglese, il prodigio è stato compiuto da Roy Campbell, poeta-centauro, a tratti impossibile, che ha fatto di Giovanni della Croce lo stigma di una vita eccessiva, passata sempre dalla parte sbagliata (ad esempio: sul fronte franchista; salvò alcuni testi di Giovanni della Croce da un carmelo passato a ferro e fuoco dalle milizie comuniste).

Esempi, comunque, di traduttori-poeti vissuti nella piena del Novecento, nel pieno di esperienze clamorose – per dire: i poeti cinesi secondo Ezra Pound; l’Odissea secondo T.E. Lawrence; Hölderlin secondo Pierre Jean Jouve; Virgilio secondo Paul Valéry; i lirici greci secondo Quasimodo… Alle fonti di Giovanni della Croce – cioè: tradurre l’esperienza di chi dice l’intraducibile – c’è però il devoto André de Compans. Nato poco più di un decennio dopo la morte di Giovanni della Croce, nel 1605, a Parigi, fu, per il primo tratto della sua esistenza, agente delle finanze del re: svolse missioni diplomatiche in Oriente per procacciare buoni affari al sovrano. Dopo aver conosciuto il mondo nei suoi aspetti peculiari, di porcile e di pecunia – i soldi, il potere, gli intrighi di corte –, neppure trentenne, nel 1633, entra nel carmelo parigino spogliandosi del nome: da allora fu Cyprien de la Nativité de la Vierge. Specializzatosi in sacra eloquenza, Cyprien passò gli anni a voltare in francese i testi fondamentali dei carmelitani: fu il primo traduttore di Giovanni della Croce in Francia, a cui seguì la sua versione della vita di Teresa d’Avila.

Morì lo stesso giorno in cui era morto Giovanni della Croce, a metà dicembre, nel 1680. Sognò a lungo l’eremitaggio, secondo il modello del “Désert de Marlange”, fondato nel 1619 nelle foreste del Belgio da un padre carmelitano giunto dall’Italia (verrà poi disfatto durante la Rivoluzione). Creò un carmelo per pochi eletti in Normandia, dove coltivò la propria notte spirituale traducendo Juan. La prima versione de Les œuvres spirituelles du B. Père Jean de la Croix è stampata a Parigi nel 1641; Cyprien, per ‘alloggiare’ quel linguaggio nel proprio, interpella antichi compagni di Giovanni della Croce, compie indagini nei meandri di quella miracolosa vita. Fa vuoto di sé non tanto per farsi empire dall’altro, ma per perfezionare il proprio tono, una ritmica propria: perché la parola tintinni dobbiamo creargli il giusto spazio. Parola che si nutre disfacendoci, da dentro. (Parola umana, ma non mortale: da qui la necessità, invece, di fare il vuoto intorno a sé, per evitare ogni intromissione, ogni blaterio che non sia liturgico, e lasciare che la lingua sedimenti nella sedizione).

L’esperienza fu eclatante: Les cantiques spirituels de Saint Jean de la Croix nella versione di padre Cyprien vengono costantemente ristampati; dal 1941 esistono con una partecipe introduzione di Paul Valéry. È curioso il rapporto tra il più importante poeta di Francia e il mistico spagnolo. Valéry legge Giovanni della Croce nella versione di padre Cyprien intorno al 1910, “mi era capitato per caso tra le mani un volume piuttosto grosso, di quelli che non sono abituato a consultare: era una vecchio in-quarto, dal bordo rosso pallido, rivestito in pergamena grigiastra, uno di quei tomi enormi in cui sei pregiudizialmente certo di trovare antiche e morte sentenze che fanno la gioia di pietosi bibliotecari”. Il nome di Giovanni della Croce non intriga Valéry, “disavvezzo alla lettura di opere mistiche, che richiedono una partecipazione ‘esistenziale’ e non la semplice comprensione del testo”. L’esperienza – lirica, dunque spirituale – lo sconcerta. Il poeta ‘cartesiano’, tutto chiarezza d’intelletto, il dio delle astrazioni, prono alla gnosi dell’io, è abbagliato dal mistico che predica il rogo degli abbigliamenti della ragione:

“Il tema prediletto da San Giovanni della Croce è lo stato che chiama ‘Notte oscura’. La fede viene fondata in questa notte, in cui tutte le luci tranne quelle soprannaturali vengono dissipate. È a suo dire importante impegnarsi a preservare questa preziosa oscurità: preservandola, soprattutto, da ogni lume d’intelletto o capacità esplicativa. L’anima ‘deve astenersi da tutto ciò che le conviene ed è naturale, il sensibile e il ragionevole: soltanto a questa condizione può giungere ai vertici della via contemplativa’. Dimorare nella notte scura e mantenerla accesa in sé significa dunque non cedere alla conoscenza ordinaria perché ‘tutto ciò che l’intelletto può comprendere, la fantasia forgiare e il desiderio gustare sono sproporzionati riguardo a Dio’”.

Attratto da quella scrittura, Valéry va all’originale – la lingua spagnola lo urta, manca di equilibri e di virtuosismi ritmici: il sangue concerta ferite, non placche d’angelo; la possanza del linguaggio taurino implica assenza di volpe, cioè di fuga e di eleganza. L’esito della lunga speculazione è – come inneggia il titolo originario del saggio, pubblicato sulla “Revue Des Deux Mondes”, Vol. 63, No. 2, 15 Mai 1941 – la scoperta di “un poeta sconosciuto”, Un Poète Inconnu: Le Père Cyprien:

“A chi ama la nostra lingua e la sua fatale bellezza, suggerisco di considerare Cyprien de la Nativité de la Vierge tra i più perfetti poeti di Francia: è un carmelitano scalzo, fino ad oggi per lo più sconosciuto”.

Di Cyprien, Valéry elogia la schiettezza formale, la capacità di tradurre l’abisso linguistico in armonia:

“Come è possibile che un monaco abbia acquisito una leggerezza tale, il bel fraseggio, la melodia costante? Non esiste nulla di più libero e naturale – e dunque di più dotto – nella poesia francese. Forse lo ritroviamo in La Fontaine o in Verlaine, ma qui il canto è più fluido, mai rattrappito o tarpato da codardia; fugge lieto al silenzio… Ho paura che pochi poeti francesi posseggano la melodia nel modo stupefacente che domina padre Cyprien”.

Non credo che padre Cyprien abbia costellato di candele la notte oscura di Giovanni della Croce. Piuttosto, la frizione di due oscurità provoca bagliori: l’ombra che ti è apparsa un istante, corredata di denti e di coda, forse era la faina, forse era Dio, la cosa che ti divora ad ogni ora.

***

Entro e non so dove entro
resto nell’insipienza
trascendo ogni scienza

Ignoro il luogo in cui entro
ma quando sono stato lì
in ogni cosa insipiente
grandi cose ho inteso:
cose che non posso dire
perché resto nell’insipienza
trascendo ogni scienza.

Pace e bontà
perfetta scienza
nella fosca solitudine –
la diritta via era ben chiara.
Eppure, il cuore è segreto
e arretro nel balbettio
trascendo ogni scienza.

A tal punto sprofondato
fuori di me scatenato
tutti i sensi ho in dote
ma nulla posso sentire.
Lo spirito ricevuto in dono
tutto intende senza intendere
trascende ogni scienza.

Più mi innalzo
meno capisco.
Nube tenebrosa
chiarifica la notte.
Chi viene per conoscerlo
nulla può sapere se non
trascende ogni scienza.

Giungi alla meta
per vederti fallire.
Tutto ciò che conosci
è infinitamente infimo:
resti senza nulla sapere
trascendi ogni scienza.

Sapere che viene dal non sapere
cela una forza così vasta
che le argomentazioni dei filosofi
non la possono scalfire.
La loro sapienza non sfiora
il capire senza capire
l’incontenibile che
trascende ogni scienza.

Cosa così suprema
sovrumana sapienza.

*

Canzone della notte oscura dell’anima

All’ombra dell’oscura notte
d’amore ardente angosciato
una felice sorte mi conduce.
Partii senza alcuna provvista
fermezza che cela la casa nella pace.

All’oscurità, fuori pericolo
per le segrete scale
coperto dai veli, reso straniero
scivolai di nascosto, debordante di me:
destino che conviene a chi lascia la casa nella pace.

Nelle segrete di un nero cappotto
di notte, perché nessuno mi veda
non avevo guida né luce
e nulla potevo vedere:
che la lampada arda soltanto nel mio cuore.

Questa torcia splendente mi ha guidato
più di ogni altra torcia accesa
al mezzodì che mi attendeva
a ciò che avevo architettato: andare
dove nessun vivente fosse sotto i miei occhi.

Notte che porta al centro di tutto
Notte più cara dell’aurora
Notte che congiunge gli sposi
e l’amato all’amata, Notte
dell’amore che muta l’Amato.

Sul mio corpo compaiono fiori
che conservo con cura;
quando si addormenta, con casta
sapienza lo accudisco mentre
il cedro sventaglia, va a festa.

L’Aurora è scortata da dolci zefiri:
dopo che ti ha sparso i capelli
costella di zaffiri le sue mani
lusinga le mie ferite: dolcezza
che annienta l’uso dei sensi.

In silenzio, di me mi sono dimenticato
chinandomi sul viso dell’amato:
tutto è cessato, mi sono abbandonato
rimesso alle sue cure, sepolto
sotto un cespuglio di gigli.

Cyprien de la Nativité de la Vierge

Gruppo MAGOG