Nel 1940 la censura sovietica approva la pubblicazione di un libro di Anna Achmatova. È un evento. Il libro s’intitola Iz šestí knig, “Da sei libri”, ed è, appunto, un’antologia da testi precedenti, insieme a diversi inediti, raccolti sotto il titolo Iva, “Il salice”. Anna Achmatova, tra i più noti poeti del secolo sovietico, nota per i capricci, le sfrontatezze aristocratiche, i versi d’amore, che si mandavano a memoria come un’innografia laica, non pubblicava da molti anni, dal 1921, quando il governo aveva arrestato e giustiziato – se è giustizia l’assassinio indiscriminato – il suo ex marito, il poeta Nikolaj Gumilëv. Continuò a scrivere, l’Achmatova: una certa schifiltosità verso i tempi le impediva di pubblicare; si occupò delle opere di Puškin, su cui scrisse pagine celebrate. Aveva capito che qualcosa, poco dopo la Rivoluzione, un mondo di attese e di postulanti coi capelli ritti e i chiodi in mano, di falangi poetiche, era finito per sempre. Anche Marina Cvetaeva, la coscritta alla poesia, percepiva la fine: nel 1920 le era morta, di stenti, la figlia Irina, due anni dopo emigra in Europa.
La pubblicazione del libro fu un evento, certo. Più che altro, un invito alla latitanza. Inchiodata alle sue poesie – antirivoluzionarie, enigmatiche, pregne di sentimentalismo basso borghese, naturalmente mirabili – la Achmatova fu espulsa dal consesso editoriale; donna minata, pericolosa, le sue poesie vennero messe al bando. Su di lei la polizia segreta produsse un dossier di intercettazioni, interrogatori, testimonianze di oltre 900 pagine. A causa dei suoi scritti, “estranei allo spirito del popolo sovietico”, la Achmatova fu cacciata dall’Unione degli scrittori sovietici; l’epiteto con cui la cerchiò Andrej Aleksandrovič Ždanov, vice segretario del Partito, “un incrocio tra una puttana e una suora”, è passato alla storia. Il libro “Da sei libri” andò presto esaurito; si evitò la ristampa.
Che a fare la fila, nel luglio del 1940, “per il libro della Achmatova dalle quattro del mattino”, ci siano anche ‘Mur’ Efron e la madre, Marina Cvetaeva, è lo stigma di un’epoca, il sigillo di un legame tra donne autarchiche, che si riconoscono e proprio per questo non si frequentano, lava in eccesso – un gemellaggio, insomma. Insomma, quella era un’epoca in cui si faceva la coda, dalle quattro del mattino, per comprare un libro di Anna Achmatova – quasi che, che razza di coerenza, un libro sia l’autentica rivoluzione, oggetto di rischio che comporta un cambio di passo, di postura, di tutto. Il gesto in sé, poi, è supremo: Marina Cvetaeva che legge Anna Achmatova, ne è affascinata, benché la sua ricerca lirica sia sideralmente diversa; nel 1921, era il 31 agosto, le aveva scritta, certa che si fosse uccisa, in seguito alla fucilazione del marito, “Cara Anna Andreevna! Tutti questi ultimi giorni sono corse cupe notizie sul Vostro conto, di ora in ora più insistenti e inconfutabili”. Si sarebbe uccisa lei, invece, Marina Cvetaeva – incorporando nel suo anche il destino della Achmatova e di tutte le donne trafitte –, esattamente vent’anni dopo, poco prima che le ammazzassero il marito.
Marina Cvetaeva con Elena Ottobaldovna Voloshina nel 1911
Anche Boris Pasternak – l’arcano amato della Cvetaeva – scrisse ad Anna Achmatova per complimentarsi del suo libro: è ormai un tempo di spettri, di sopravvissuti, di impareggiabili paria, quello. “È come se tutti i suoi versi fossero stati scritti lo stesso giorno”, dice di lui la Achmatova. Lidija Čukovskaja, nel suo repertorio di Incontri con Anna Achmatova, descrive gli strati geologici del dolore di Anna: la poetessa è “Gialla, malata, distesa sul divano sotto una coperta pesante; è in vestaglia, con i capelli in disordine”; e poi:
“È uscita da dietro l’anta dell’armadio con un vestito nuovo di seta, si è spalmata di crema le guance davanti allo specchio, poi si è messa una collana bianca e si è tinta le labbra di un rosso vivace. Era completamente diversa da un’ora prima: elegante, maestosa, perfino la mancanza di alcuni denti non si notava più”.
La Achmatova è sempre in differita da se stessa, indifferente al tempo, è in posa per difendersi dal mondo in ostaggio: al di là del regno dei suoi versi, spazio che esplicita una visione pronta all’eccidio, tutto è ovattato, plumbea nebbia, perdita di tempo. “Le poesie di Pasternak sono state scritte prima ancora del sesto giorno, quando Dio creò l’uomo… Nei suoi versi l’uomo è assente”, dice, ed è vero; ma l’uomo a cui si riferisce la Achmatova nelle sue poesie è un articolato artefatto, figura serale e piena di gioielli, uno specchio infranto.
Proprio Lidija Čukovskaja è il tramite tra Anna Achmatova e Marina Cvetaeva, nel torpore sovietico pieno di torbidi. Sfollata a Čistopol’, Lidija conosce Marina Cvetaeva il 26 agosto 1941, pochi giorni prima della sua morte. Ama le sue poesie, la vede mendica, le offre aiuto. Prima che, senza ragione, braccata da un cupo fato, la Cvetaeva scappi, presso Elabuga, in una tortura da vuoto a vuoto, Lidija abbozza un “Ritratto di Marina Cvetaeva”, che sarà pubblicato molti anni più tardi (in Italia esiste una traduzione curata da Luciana Montagnani per Archinto, edita nel 1992 come Prima della morte). “Una donna magrolina in grigio”. Così la prima impressione, indelebile, di Marina negli occhi di Lidija:
“La donna in grigio mi guardò da sotto in su, il capo leggermente piegato di lato. Il viso dello stesso colore del basco: grigio. Un viso sottile, ma come un po’ gonfio. Guance incavate, e occhi giallo-verdi, che fissano con insistenza. Uno sguardo greve, indagatore”.
Il grigio accomuna Marina e Anna in momenti senza distintivo né volto:
“Ho telefonato ad Anna Andreevna ieri sera e al suo solito: Venite al più presto! Quando mi ha aperto la porta, all’inizio mi sono spaventata: i suoi lineamenti erano così evidentemente alterati, le sue guance erano grigie e il terrore – un terrore paziente, costante, immobile, direi addirittura tranquillo – mi guardava dai suoi occhi”.
A differenza della Achmatova, Marina non godeva del grigiore sopito di un lignaggio, di una ‘corte’, di una discendenza. Il suo ritorno in Russia si rivelò senza ritorno, catabasi in uno stigma.
A un certo punto Marina confessa alla Čukovkaja,
“Se sapeste che figlio ho, che ragazzo capace e dotato è! Ma io non posso aiutarlo in nessun modo. Con me lui sta peggio. Io sono ancor più indifesa di lui”.
Il diario di Mur, in effetti – antologizzato nel volume edito per Pangea / Magog come Grida dai tetti il suo amore per me– è la testimonianza abbagliante di un ragazzino dal talento martoriato, mortificato, imbevuto di cultura francese e cresciuto in vitro dal genio-giogo della Cvetaeva, catapultato nella Russia di Stalin. È uno sguardo sullo stalinismo dalla stanza per gli ospiti, da uno che ha preferito dormire sul terrazzo: confessione frugale e vertiginosa, inedita, inaudita. Oltre allo spiraglio, di lato, sul rapporto con la Achmatova, in questa pagina finora inedita – tradotta da Fabrizia Sabbatini – leggiamo dei rapporti con il padre, per sempre anomalo, nobile, malato, un autentico rebus. Ammantato dal gergo dell’eroe malinconico, Sergej Efron è uomo che conosce i tradimenti e i torbidi delle parole, che nascondono, sempre, avatar e camere della tortura. Figlio di rivoluzionari, ha imparato a fare la spia e a essere il paladino della contraddizione: quale altro marito avrebbe potuto scegliersi la Cvetaeva? Quanto al figlio, è intriso delle intenzioni fraintese del padre, e ne realizza l’esistenza, all’opposto.
Siamo in coda per il libro della Achmatova dalle quattro del mattino. Secondo Kotchetkov cresce l’attesa anche per la pubblicazione di una raccolta di versi di mia madre («Se la Achmatova ha pubblicato un libro, perché non anche la Cvetaeva?»). In molti conoscono e apprezzano le poesie di mia madre. Ma ora tutte le opere poetiche più importanti della mamma sono bloccate alla dogana insieme ai nostri effetti personali, sotto sequestro. Il tutto era stato inviato a nome di mia sorella Alia, che aveva conferito a mamma una procura. Ma poi è stata arrestata e i suoi beni sono stati sequestrati. Mia madre si è rivolta all’NKVD due volte, senza alcun risultato. L’avvocato Barski si è offerto di prendere in carico il caso, sostiene di essere in grado di vincere la causa. L’Unione degli scrittori non farà nulla (hanno paura, che ci piaccia o no: la sorella di mia madre, Assia, è stata deportata nel territorio di Khabarovsk, a mia madre hanno arrestato marito e figlia, così come tutta la famiglia che viveva con noi). Ecco perché non oseranno aiutarci. Per il momento le cose sono al sicuro sotto sequestro; non saranno vendute. Ci sono manoscritti, libri, abiti e vestiti vari.
Oggi sono passato vicino al Narkomindela [Commissariato per gli affari interni], non lontano dal parrucchiere. Fu proprio in questo punto, sotto lo stesso portico, che mio padre ed io aspettammo, nell’agosto-settembre 1939, un uomo dell’NKVD. Questo comparve. Papà fece alcuni passi con lui in via Kuznetsky-Most e poi sotto il ponte, appoggiandosi a un piccolo bastone, mentre io lo aspettavo dal parrucchiere. Poi si separarono e tornammo a Bolshevo. Quando oggi sono passato lì davanti, ho provato dolore e amarezza. Eppure, spero con tutto il cuore nella giustizia da parte dell’NKVD. Non possono condannare un uomo come mio padre! Non riesco a immaginare che sarà condannato alla deportazione. Sono convinto che sarà assolto e rilasciato, come Alia e Mitia, e che i Lvov saranno condannati. La cosa principale, questa è la mia sensazione, è che l’affaire stia volgendo al termine.
La nonna ha ricevuto delle informazioni, mio padre e Pavel Balter sono stati trasferiti da Lefortovo all’NKVD, quindi sono tutti riuniti lì, il che lascia supporre che la fine sia vicina. Mio padre è già in carcere da dieci mesi, Alia e Mitia da più di dieci mesi, i Lvov da otto mesi e Pavel da più di un mese. Pavel è stato arrestato come testimone; non avrebbe potuto essere altrimenti. Penso alla casa di Bolshevo, un ricordo misto di dolceamara tragedia. Mio padre malato di cuore, i nostri andirivieni dall’ufficio postale di Bolshevo, ad aspettare per ore una telefonata. Il caldo asfissiante. Mio padre, incanutito, col suo bastone, in una giacca grigia, il viso nobile, intelligente e gentile. Aristocratico. Era nervoso. Lo piango e lo compiango. Il suo cuore era solito accelerare, spesso era in preda alle convulsioni e Nina Nikolaevna doveva intervenire con una siringa.
Le visite in città con mio padre e l’incontro con l’uomo dell’NKVD. Le visite a Bolshevo di Aliocha – ormai deportato da otto anni, le sue passeggiate con Mitia e le nostre gite in barca, il montaggio degli anelli, e i miei esercizi ginnici ogni mattina sotto la guida di mio padre. Ma no, non vale la pena ricordare i tragici tempi di Bolshevo. Ho pietà di mio padre, provo pena per lui, per essere finito in prigione. Povero papà! Spero che lo assolvano. Provo pena anche per Alia, ma per mio padre di più. Con quale abnegazione ha lavorato in Francia! Quali cose straordinarie ha realizzato laggiù! Non posso credere neanche per un minuto che lo condanneranno e lo deporteranno. No, non ci credo. Verrà rilasciato e assolto, ne sono certo. Ha reso tanti servizi all’URSS quando era in Francia. Tutto deve finire bene, e tutto finirà bene. È necessario. Ne sono convinto nel profondo del mio cuore, e che vadano all’inferno tutti i profeti di sventura!