Questa storia è profondamente argentina, cioè improntata al paradosso, alla tenace dedizione verso cose che ci sovrastano, alla trance orfica; racconta di una incompiutezza dinastica, direi sovrumana; dice di un pudore ossessionante, vive la solitudine dell’estasi, della consegna ai posteri, come ci si tuffa nel Niagara. Questa storia è così. Tuffarsi nelle cascate del Niagara. Che qualcuno ci raccolga oppure no fa parte del medesimo miracolo.
Non credo che in molti festeggeranno il centenario di César Augusto Rolando Mermet, nato a Malabrigo, piccolo borgo nella provincia di Santa Fé, l’11 ottobre del 1923. Minuscola stazione ferroviaria, Malabrigo conta, oggi, poco meno di ottomila abitanti: vi si installò, nel tardo Ottocento, una colonia di austriaci e di italiani, per lo più trentini. Pare che César Mermet abbia cominciato a scrivere poesie a diciassette anni: continuò a scrivere per tutta la vita. Il papà era un ingegnere delle ferrovie, ma Mermet sceglie di lavorare con la scrittura. Pratica a Paranà, per una radio locale, si sposta a Rosario, poi a Mendoza; scrive per la tivù e per il teatro. Dal 1956 si trasferisce a Buenos Aires, dove nascono i suoi due figli. Due anni dopo, lavora per la trasmissione televisiva Canal 7; scrive anche per la pubblicità, alla bisogna. La vita interiore di Mermet, nome mesmerico, è un oceano rispetto a quella esteriore, canalizzata, si direbbe, nei canoni del quotidiano spleen.
Tutto, in César Mermet, ha lo stigma dell’ambiguo, del remoto, dell’appena accennato. Un dettaglio, però, lo rivela. Nel 1951 una sua raccolta di versi vince il premio indetto dalla Provincia di Mendoza. I soldi del premio, è implicito, servono affinché il poeta possa pagare la pubblicazione delle proprie poesie. Mermet ha 27 anni e preferisce usare il denaro in altro modo: attraversa il Cile, ci resta per qualche mese.
“Vissuto ai margini dell’ambiente letterario”, César Mermet muore di pancreatite, mentre nell’Argentina piagata dalla dittatura militare si svolgono i Mondiali di calcio. L’Italia arriva quarta, Paolo Rossi segna tre reti; gli eroi dell’Argentina campione del mondo – contro i Paesi Bassi – sono Mario Kempes e Daniel Passarella. In quel delirio di terrore e facile entusiasmo, la morte di César Mermet passa sotto silenzio.
Il custode del segreto di César Mermet, per così dire, si chiamava Félix della Paolera. Stessa età di Mermet, alto, aristocratico, cultore di Rimbaud e della letteratura come stregoneria in labirinti, Félix della Paolera, soprannominato “el Grillo”, era intimo amico di Jorge Luis Borges. Lo aveva conosciuto nel marzo del 1948, con l’ostinazione di chi vuole competere con un miraggio, e comprovarlo – “Lei è Borges?”, gli fa Félix alla stazione di Adrogué, alle 10,15 di mattina; risposta borgesiana, “Non ho scelta”. Per un paio di decenni, tutti i giorni, Félix e Borges fecero felicemente pranzo insieme.
“Borges mi parlava spesso di Félix della Paolera, ‘el Grillo’. Era, a suo dire, una specie di eminenza grigia, un uomo discreto, che discretamente aiutava gli amici, non molti, era riservato ed esigente. Conosceva come nessuno la letteratura inglese e si produceva in raffinati e analitici giudizi sull’opera di Henry James; sapeva inoltrarsi con invidiabile facilità tra i romanzi di William Faulkner”.
Così dice la vedova esoterista, María Kodama. Di certo, Félix della Paolera accompagnò Faulkner a ubriacarsi, durante la visita del Premio Nobel nella capitale argentina; intrattenne un rapido rapporto epistolare con Martin Heidegger. Félix lo andò a trovare a Friburgo, al filosofo piacevano le poesie di Federico García Lorca. “César Mermet diceva che ero il suo unico lettore; forse è vero, anche se per almeno due volte abbiamo allestito una pubblicazione delle sue poesie: rifiutò”, scrive Félix della Paolera introducendo una Antología di testi di Mermet (Editorial Ciudad de Lectores, 2006).
La storia ha il fascino di una liturgia privata. Dal 1965 César Mermet comincia a correggere, emendare, dilatare le sue poesie. Vi lavora, con precisione da pittore di icone e parimenti da iconoclasta, per il resto della vita. Ogni giorno.
“Una settimana dopo la morte di César Mermet, sua moglie, Blanca Martínez, mi inviò alcune voluminose scatole che contenevano la produzione letteraria del mio amico. Erano oltre duemila e cinquecento pagine dattiloscritte, corrette all’infinito, con diverse scritte a mano, tra le righe e sui margini, frecce che indicavano che le varianti procedevano nella pagina seguente, cancellature, parole sovrapposte, versi supposti, punti interrogativi, versioni provvisorie, ma forse definitive, appurate dopo varie stesure”.
Fu Félix della Paolera a far conoscere César Mermet a Borges. Il poeta che correggeva all’infinito i suoi versi, rifiutandosi di pubblicarli, parve a Borges un eroe borgesiano, una specie di Pierre Menard della poesia. Ne fu folgorato. “Preferiva sognare a pubblicare, scrivere e correggere le sue eterne bozze. Ho parlato con lui alcune volte: non mi ha mai detto che era un poeta”, ricorda Borges. Nel breve scritto che introduce la prima raccolta di poesie di Mermet, naturalmente postuma, La lluvia y otros poemas (1980), Borges conia per César una didascalia perfetta:
“Non dirò che fu un grande poeta, perché in questo caso l’epiteto sminuisce il sostantivo. Dirò qualcos’altro, dirò che fu pienamente un poeta”.
Plenamente un poeta. Borges ci frega sempre con le parole. Essere pienamente un poeta significa vivere da poeta: gli altri, quelli che si dicono poeti, pubblicano poesie. Il poeta è pienamente quando si offre ai posteri – anzi, a un lettore soltanto. Per parlare di César Mermet, Borges allude a Emily Dickinson, che ha piantumato poemi nella reclusione; Félix della Paolera, invece, cita Franz Kafka:
“Per un caso fortunato, mi sono trovato a dover ripetere il compito di Max Brod, anche se ho dovuto affrontare scritti ben più indecifrabili e incerti di quelli di Kafka”.
Per parlare di César Mermet i grandi intellettuali argentini scomodano la Dickinson e Kafka. Dopo la morte di Félix della Paolera, nel 2011, Mermet è tornato a rivestirsi con la stola dell’oblio. Nelle biblioteche italiane la sua opera è irreperibile, così come nei comuni canali di vendita libraria. Fa di tutto per nascondersi, vuole essere cercato.
***
In obbedienza a Orfeo
Esiste una razza di cantori obliqui
che hanno urgenza di ascoltare il coro
che li acclama e di ammirare il proprio monumento.
La fede non è l’invisibile matrona che li fissa
nella loro inquieta culla; non sperano, non rinunciano,
in vece della fiducia possiedono l’arguzia dei trucchi,
comprovata certezza nella meccanica e fittizia
cauzione di questo tempo; ciò che per gravità naturale
del canto procura sempre dolci frutti, che ha segregato
la sua onorata perla in una cabala, ha scolpito
il suo diamante nell’ora prolifica dell’insonnia,
che da Orazio apprese la severa temperanza e l’orgogliosa
attesa, nel giorno inevitabile sorgerà perfetto
qualunque sia l’ora, il mese, il secolo
come sulla tavoletta babilonese
scure impronte cuneiformi di uccello leggendario
cammina Gilgamesh, che sovrastò la morte:
qui risuona il nome che ammutolisce
uomo paziente e appassionato, che scava
l’oblio per riconoscersi nei suoi antenati.
Esistono cantori che hanno opportuni rapimenti,
inevitabili, come altri mungono un triste vino;
quelli che amano il prossimo secondo statistica,
in edizioni particolari, con arringa orale o scritta;
certi hanno l’eloquio rapido, ripido, di chi maledice
la mancanza di felicità, l’assenza di giustizia, vocazione discreta
per conquistare l’ardua allegria dell’istante
in vece della generosità della gioia,
del pensiero costante, fermo
di chi ammette il giusto anonimato, tra i ranghi
concessi ai costruttori, non ai distruttori.
Ci sono quelli che recitano con voci da istrione
che procurano effimeri ed ebbri entusiasmi,
l’eccessiva modestia li porta a barattare immediatamente
l’innominato ricordo delle loro canzoni
con la futile memoria del proprio nome.
Solo chi crea crede nella creazione
immanifesta, solo chi parla con se stesso
dialoga davvero, dialogando con gli altri.
Solo chi ama qualcosa e qualcuno, qui e ora,
ama il suo prossimo, congregazioni di solitudini,
alieno alla congiura dei grandi numeri
che i cantori disonesti invocano e suscitano
con effusioni astratte e spettrale carità catechistica.
Non predicare, poeta,
non montare impalcature pubblicitarie di odio rodato
e rovinoso, resta poeta, canta, sii te stesso, anzi tutto,
e la tua voce si stabilirà nell’ordine invisibile
e il peso inerte della terra imperfetta
sarò luce leggera, energica.
Intanto, riverisci Orfeo, o sfidalo, ma ricorda:
ha parlato alle bestie in modo umano, ha consolidato
il verbo, ha udito il canto delle pietre; rocche e animali
non sono moltitudine servile: memorizza
il loro canto, che la tua voce impudica infiamma,
smetti di adulare, comincia a obbedire.
Distilla la tua lentissima perla,
genera un nuovo cerchio nel legno vivo, anno dopo anno,
invecchia il vino, dopo la semina, l’annaffiatura
la vendemmia, dolorosa tonsura del mosto,
segreto oscuro nell’ombra chiusa.
Che la carità arda, senza compiacere,
sia smemorata, efficace:
ascolta le trasparenze di Mozart
quando la tentazione verte verso il lamento furioso.
Che il tuo scabro grammo d’oro,
breve verso,
misterioso e mutilato
sia salvo dal ruggito
delle notizie che incombono.
Dio ti abbandoni perché tu sappia ritrovarti
poeta, fratello, caduto e mio simile:
Incarna nel sangue regale
la tua disincantata necessità di amare
sola verità dell’apocalisse privata
sola predicazione del poeta perduto.
1966
*
Micro aforismi
La conoscenza di chi viaggia in autobus è un sapere precario, microscopico.
Con giornaliera lentezza si apprende tale oracolo urbano,
questo modo variabile in cui si annuncia il previsto, il quotidiano,
per sottile alterazione di numero, pressione, urto, grazia,
combinazione di azzardi allusivi, rivelazioni elusive,
come tutto il poco, quel sapere minimo,
che coincide con la nostra vita,
nel suo tempo e grado precisi.
Ecco alcuni aforismi di viaggio:
*È già un prodigio stare tra i condannati.
Ringrazia. Chi non è nel mezzo del viaggio, non arriva mai.
*Chi pone un piede sopra rapida altura che fugge
e si sostiene con braccio agguerrito, dimostra fede efficace.
Tuttavia, è ancora poco. Però è così che si inizia.
*Non pensare al tuo nome mentre viaggi sull’autobus.
Distrai il cognome.
Impigliati docilmente a un noi interpretato.
Non alimentare eccessiva coscienza, collera, furtiva frustrazione,
orgoglioso pudore, corpuscolare solerzia nella superbia. Scorri.
*Impara che non c’è nulla di personale nell’equo tormento.
Non installarti in alcuna istituzione, non stabilirti nella norma,
resta indifferente, magari rigido. Ignorati. Fluisci.
*Entra nell’autobus semplice e senza pregiudizi,
fiducioso, credulone, ignaro della memoria
del giorno precedente; memoria è ansia;
anonimo e bianco: offerto.
*Con il tuo immediato prossimo
congiungi l’ampiezza, le ossa, le dimensioni.
Ma offriti. Diventa offerta, non contegno, non contenerti.
*Il destino: solo quello importa. Raggiungilo
ragguaglio senza gloria né pena, con semplicità compiuta.
*Quello che sale dopo l’altro
seduto davanti, mostra silenzioso, con discrezione
la meccanica infallibile e antica dell’ampolloso merito.
Il valore elementare della spinta, la virtù della fermezza,
la gradazione fatale del proposito che si agguanta
nella forma arcaica e impersonale:
lanciandosi nel proprio disegno inappellabile, come un proiettile.
*Non così tanto, non così poco. Conosce il ritmo e l’itinerario
della pienezza, del sollievo sostenuto dalla generosità, pazienza
che conferisce eleganza, la saggezza del cedere;
aiuto alla giusta umiliazione dell’avido. Quanto a te: attendi.
*Chi è totalmente di questo mondo resta seduto per tutto il viaggio.
Ma anche il distratto, chi si dimentica,
concentrato a intrattenersi in una intima felicità.
*Se guardi con attenzione, chi penetra per primo
deciso e senza orrore al centro del combattimento
è il primo che emerge, non il testardo e neanche il tiepido.
*Se osservi con cuore retto, la gente concentra
incredibilmente la gravità dello sguardo sul cuore.
Non sguainato, inflitto, brandito, trafitto,
ma discreto, neutro, sfumato.
*È un miracolo raggiungere questo minimo accordo, questo modesto patto:
soffrire insieme, senza dilaniarci
in una comprensione compassionevole, un primordiale micro-amore
nei primi gradi che approssimano all’amore connivente, diciamo.
*Prodigiosa moderazione del forte, ammirabile coraggio del debole,
la lotta del decrepito, l’incomprensibile dolcezza del giovane,
l’accettazione del corpo intero, casto e anonimo, della bellezza,
l’istante della solidarietà consegnata
il fatale flusso di tutto il liquido, modulato, ma magnanimo,
che ci rasserena al tutto e ci porta, come fluttuando,
e vuole, con buona volontà, condurci verso la luminosa uscita.
*Non odiare chi ti lasci alle spalle come stolido ostacolo su un lento fiume:
sarà ancora con te, come socio, complice, obbligato fratello
in altri tratti. Il fantasma non ti abbandona finché non lo annulli accettandolo.
*Non affezionarti troppo ai grandi occhi di passaggio.
Quella bellezza non è né tua e non è del viaggio
gioia di tutti e di nessuno.
L’ambigua promessa del suo sguardo non si compie in questo viaggio;
illumina ovunque, è vero, ma resta effimera,
come un sole miracoloso tra due acquazzoni.
Prima o poi scenderà, svolterà l’angolo,
cesserà di apparentarsi al tuo destino, diluita come cosa a parte
occhi transitivi.
Di tanta bellezza la corona è il transito.
1975
César Mermet
*In copertina: César Mermet (a sinistra) con Félix della Paolera