15 Maggio 2024

Giovanna Marini o della musica popolare italiana che sfugge alla Storia ufficiale

L’undici febbraio 1958, il suo primo incontro con Pier Paolo Pasolini: la giovane Marini “manifesta” qualcosa, attira a sé il magnete, l’amuleto, il segno che avrebbe indirizzato il suo destino verso la cultura popolare italiana. “È scritto nel libro segreto del nostro destino, noi soltanto e nient’altro che noi”… alla radio l’italianissimo Tony Dallara.

Permettete l’ovvio: gli anni di Canzonissima e delle prime edizioni di Sanremo, la musica beat e rock ‘n roll da oltreoceano, l’inglesizzazione di un’Italia del dopoguerra, la nuova Italy, il rinascimento della canzone napoletana, Renato Carosone e l’influenza della canzone jazz e swing americana. C’era effervescenza, era il tempo tra i ’50 e i ’60. L’ascesa del cinema italiano, lo sviluppo del Neorealismo, del Peplum, del Giallo, ci hanno regalato i dischi di Morricone, Piero Umiliani, Piero Piccioni, Stelvio Cipriani, Edda dell’Orso, Armando Trovajoli, Bruno Nicolai, Nino Rota. 

Permettete la biografia. Mio nonno, Mario, fu il primo nel quartiere, in Via Giovan Giovine a Taranto ad avere la TV: un muro, una montagna di gente, vicini, amici, clienti del negozio (la salumeria), figli, amici dei figli incollati alla TV del signor Mario. E nonna, Annunziata-annunziatina-titina, chi si ascoltava? La Ferri, non la Marini, cioè l’altro lato di Roma, la regina non del popolare ma del “pop”. Guerra fredda, Antonio Segni (PPI/DC) Primo Ministro in conferenza alla Sapienza di Roma… disordini proprio in quei giorni, nel febbraio del ’58.

Sarebbe un torto parlare di “folk italiano” quando parliamo di Giovanna Marini. Nessun folk, nessuna DylanMania: solo una giovane Marini, in giro per l’Italia, come Alan Lomax “L’Uomo che registrò il mondo” coi primi registratori portatili (il Soundmirror BK-401 di Brush Development, il Compact Cassette della Philips, il Nagra), a lavoro in qualche paese ancora abitato dalle pecore e dalle genti, sulle montagne abruzzesi o pugliesi.

La magnetica-maieutica è tutta qui, in quell’episodio cantato ne “Il mio primo incontro con Pier Paolo Pasolini”: giovane, con in braccio una chitarra “rigorosamente classica” a casa dell’“intellighenzia romana”, per ore su Bach, davanti alla penna 35enne di Ragazzi di vita, tre anni prima di Accattone. Marini, ancora giovane, senza saperlo, sarebbe stata custode di alcuni capitoli viventi della storia e della cultura popolare italiana.

Il canto popolare oggi è l’eredità di una cultura orale premoderna e pre-globale, che non conosceva la pratica della registrazione, né della post-produzione, che sussisteva proprio in virtù della sua estemporaneità, nell’evento comunitario, e si tramandava come tale, di generazione in generazione. Il canto popolare era a un tempo la memoria e la voce delle comunità, diverso a seconda delle aree geografiche, della stratificazione sociale, delle dominazioni straniere, radicato nelle tradizioni locali e liturgiche, spessissimo intrecciate con usanze invece pre-cristiane.

Di fronte alla vanità degli eventi umani dovremmo ripetere mantrici e vedici che, a onor del vero, “ciò che non diventa cronaca non accade quasi mai; [che] accade quasi tutto, per così dire, nelle retrovie del mondo” (Umano troppo umano). Questa è la domanda che scotta: dove finiscono gli eventi indocumentati, le voci inascoltate, le cose perse o rotte e buttate? È difficile accettare la natura inevitabilmente selettiva della storia, la spietatezza della sua economia (cioè che ogni scelta implica una omissione), come è difficile accettare la sua natura inevitabilmente parziale, cioè la miseria della sua località (che ogni uno implica un due). E qui viene da chiedersi: che ne è del mondo, quello vissuto da dentro, quello di adesso senza che sia testimoniato e documentato, “così come è ora”? Dove va quello che vivo con te, “amor mio”? [Se non ci sopravvive, diventa strumento, se ci sopravvive, diventa motivo].

Vediamo bene che quanto ha varcato la soglia dell’essere ha già prima o intanto varcato quella della sua documentabilità. Il limite della nostra conoscenza e la selettività della nostra memoria – individuale, collettiva – è già il limite dell’essere.

Solo a infrarossi si vede questo vuoto: dentro la storia ufficiale, ovunque, in mezzo ai suoi rovi, nelle buche di scogliera, nelle pieghe di una tenda c’è un grande e abissale silenzio: lapsus, spazio in esaurimento, gente che muore e mantiene segreti, segreti di Stato, associazioni segrete, perdita accidentale di documenti, ma anche sistematica negazione e marginalizzazione di fenomeni o gruppi, mancata storicizzazione di cose accadute (di base crimini)… C’è quindi una memoria ufficiale e una memoria invece vissuta. “Ma le canzoni non si trovano sui libri” risponde Pasolini: e invece sì! dice Giovanna Marini. Ma prima di stare nel libro, non ci stavano, stavano da un’altra parte, dice Pasolini: è la “cultura orale”.

I canti popolari, della tradizione popolare italiana e dei dialetti, agiscono oggi più di ieri come un archivio vivente. Negli anni, da allieva di Andrés Segovia a etnomusicologa, dal Conservatorio di Santa Cecilia alla fondazione della “Scuola popolare di musica di Testaccio”, questa figura media, normale, poco diva, «ha saputo trasformare il modo di percepire e fare musica in Italia» (Gabriella Aiello). Quella di Giovanna Marini è stata una vera esplorazione delle origini, delle funzioni e delle evoluzioni delle forme musicali in Italia; lo studio delle scale, dei ritmi, degli strumenti tradizionali del canto popolare, il recupero vivace dell’atto musicale vis(su)to come atto comunitario (una scuola che forma classi musicali sul modello delle esibizioni di gruppo, fin dai tempi del “Quartetto di Roma” negli anni ’60), quindi la “vision” della musica come pratica collettiva, intergenerazionale, suscettibile di contaminazione.

Ecco, la contaminazione. Non solo la filologia ma la contaminazione. Non amo le categorie antropologiche, per pregiudizio, né pedagogiche, per giudizio: a me interessa di Giovanna Marini l’arbitrio gaio, la “località”, il non aver avuto paura a toccare cose delle origini… Pensiamo ai petali del bouquet di laurea, quelli che ti ha regalato, uno a uno (praticamente li hai contati), i ricordi, la roba, quanta roba finirà buttata quando alcuni cari doloranti e tristi ti lasceranno stare al campo santo, come ognuno prima di noi ha fatto. E invece no. Giovanna Marini è stata un esempio di gaiezza in termini di ricerca e sperimentazione.

Le ricerche sulla polifonia, con voci come Patrizia Nasini, Francesca Breschi, Patrizia Bovi, la scelta di arrangiamenti originali, stratificati, l’uso sfrontato del contrappunto e di modulazioni armoniche stupende e difficili, complesse per il cervello, la ri-attivazione della narrazione cantata, quindi tutto l’insieme di un dialogo dinamico che celebra l’arte del “canto responsoriale”, di voci che si rispondono a vicenda, seguendo dinamiche autonome e congiunte: tutto questo, e anche l’uso del non temperato.

Sono cronache culturali e anche storie orali che vivono nelle aule della “Scuola popolare di musica di Testaccio”, e ora lentamente anche sulle nostre digital platforms (di cui ci droghiamo, io molto) per il lavoro di una vita e di tutte quelle vite prima che, forse inconsapevolmente, hanno custodito molto.

Ci tengo quindi a dire due cose: la musica di e per Giovanna Marini è un atto di comunità e memoria, alla maniera antica, ed è già così un patrimonio accessibile e vitale, cioè rinegoziabile e sempre di nuovo possibile. Qualcosa che sfugge alla Storia ufficiale “umana troppo umana”, quindi al “tu devi”, e che abbraccia l’“io voglio”.

La fondazione della Scuola di Testaccio cade l’anno di morte di Pasolini (’75). Qui alcuni nomi eredi dell’insegnamento di Giovanna Marini: Francesca Ferri, Gabriella Aiello, Antonella Talamonti.

Post Scriptum. Ho conosciuto Gabriella Aiello a marzo di quest’anno, allieva vicinissima di Giovanna Marini, a un workshop sulle colline di Fermo. Trenta persone poco moderne hanno rievocato alcuni canti della tradizione popolare della penisola: un canto arbëreshë del XV-XVI secolo, un canto sardo concepito inizialmente per launeddas, e un canto in grico (Salento: Calimera, Sternatia). C’è ancora molto da cantare, il barbagino sardo, il campidanese sardo, il grecanico della Calabria ionica, il tabarchino dell’Isola di Carlo forte, il friulano, il ladino, l’occitano… 

Sara De Michele

Gruppo MAGOG