Su pochi poeti della nostra tradizione letteraria il sospetto si è addensato come su Giosuè Carducci, declassato nella comune percezione di natura scolastica a reboante cantore dei fasti della nuova Italia, a turgido esaltatore di una mitologia civile ormai di cartapesta.
Nell’immaginazione di chi il Carducci non lo ha mai letto o ne ha ricavato un’impressione frettolosa dai manuali scolastici egli sarebbe poco più di un trombone teso a celebrare la Regina Margherita o l’epopea agreste del pio bove o le dentate e scintillanti vette di una delle sue odi più immeritatamente famose, Piemonte, espressione della fase calante del poeta e della sua vena più esteriore e retorica. Ad avere la pazienza di percorrere invece per intero l’arco della sua produzione, dagli acerbi Juvenilia sino alle composizioni più umbratili e meno note della sua ultima raccolta, le Rime e Ritmi, il lettore impregiudicato e sciolto dalle convenzioni e dai canoni potrà invece scorgere come la vera sostanza poetica del Carducci sia molto più in profondità di quanto appaia ad uno sguardo superficiale, consistendo in un insistente avvertimento della morte oltre le fanfare celebrative e la visione oleografica della nostra storia civile contrabbandata dalle sue liriche più effimere.
Con quanta preveggenza Domenico Petrini, un valentissimo critico morto giovanissimo nel 1931, nel suo Poesia e poetica carducciana scorse nel Carducci precisi motivi del Decadentismo. Gli aneliti al cupio dissolvi che insistenti come un tarlo si affacciano dalle sue liriche più mature sono un ben definito prodromo di tutta una temperie decadente destinata poi a incanalarsi in mille direzioni fra loro distinte. Altroché il “Poeta della Terza Italia” che l’età umbertina aveva annesso tra i propri cantori e il fascismo tra i propri anticipatori!
A infittire anziché diradare gli equivoci contribuirà poi, in anni di rilettura delle nostre lettere viziata da gravose zavorre ideologiche, la stroncatura che Pasolini fece di Carducci, fondata su motivazioni in larga parte extrapoetiche. La stessa sordità, d’altronde, Pasolini la manifestò anche per D’Annunzio, a suo dire “pessimo poeta” e “pessimo cittadino”.
Le ideologie si sono liquefatte e ora che si può guardare più serenamente e con maggiore distacco alla nostra tradizione non c’è dubbio che se si isolassero i trenta o quaranta componimenti poetici maggiori del Carducci dal corpus della sua opera essi basterebbero (dalle elegie dolentissime di Funere mersit acerbo a Pianto antico, dalla stupefacente visione della morte di Rimembranze di scuola alla celebratissima Davanti San Guido la cui bellezza non è offuscata dall’essere oggetto di inflazione nei manuali di scuola) a farne uno dei maggiori poeti di tutta la nostra letteratura.
Certo, il gusto ancora risorgimentale del Carducci lo fa apparire non poco arretrato rispetto al “frisson nouveau” dei Fleurs du Mal baudelairiani o dei grandi Maledetti francesi, che si aprono alla modernità con una sensibilità ben più moderna. Innegabile. Ma la stessa riserva potrebbe essere agevolmente estesa anche agli altri due rappresentanti del canone scolastico delle ‘Tre Corone’, Pascoli e D’Annunzio, senza che questa riserva relativa al gusto infici però il riconoscimento della loro grandezza.
Ma il Carducci, oltre che come poeta, è destinato a risplendere di prima grandezza anche come strabiliante prosatore (in pochi scrittori italiani la prosa risuona altrettanto viva di richiami e istanze che sono di ordine propriamente poetico, così come in pochi altri il lessico è così mirabilmente variegato e pertinente), come magistrale storico delle nostre lettere e come anticipatore inconsapevole di tutto un approccio neoumanistico alle cose della cultura. Il saggio manifesto di Carlo Bo sulla Letteratura come vita apparirà solo nel 1938 e in anni di così grave offuscamento delle coscienze sarà il vessillo di un rifugio spirituale nel fortilizio della Bellezza. Eppure tutta la tensione di quel saggio e della generazione di studiosi cui esso dette l’impronta non sarebbe stata possibile senza il riannodarsi al “lettore di provincia” Renato Serra e a colui che di Serra fu il Maestro e l’ispiratore, lo stesso Carducci.
Una delle prose più alate e indimenticabili di Serra, apparsa con un titolo all’insegna del più totale understatement, Carducci e Croce, prende prosaicamente l’avvio da un fatto molto pratico e contingente, la nuova collana laterziana degli “Scrittori d’Italia”, per spiccare poi il volo verso le regioni rarefatte della Poesia. Agli occhi di Serra “il Carducci è sempre lo scolaro di Firenze e Pisa, che leggeva i classici per imparare da loro la lunga lezione dell’arte. La poesia è per lui qualche cosa di sostanziale, che ha un valore proprio; è un tesoro, un non so che di divino. In fondo a tutti i suoi movimenti si trova qualche cosa di religioso, che non si può discorrere per ragione. Con tutto questo c’è nel suo modo di intendere e giudicare i testi di quella religione, cioè i libri degli scrittori, un segreto che gli altri non hanno, che il De Sanctis non possiede, per esempio: il segreto degli iniziati. Egli si appropria tutto quello che incontra bello e degno, con una gioia infinita, come cosa sua, di cui amore e natura l’hanno fatto degno. Spesso non sa criticare; ma sa leggere, sempre. Il punto di vista da cui egli muove verso un libro è il più giusto. Poichè non è quello dello storico o del descrittore di inventari o del definitore di giudizi; ma è quello proprio dell’uomo dell’arte. Io penso a quest’uomo come fu in realtà: a questo professore, che ha passato tutta la vita sua in mezzo ai libri e che solo dalle finestre del suo studio ha potuto vedere gli uomini e le donne e l’universo. Ma com’era buona e sana e forte la sua anima! Egli non posava da eroe o da vate, confessava umanamente la sua dolce passione, in cui il culto per le belle parole dette dagli altri si confondeva col bisogno di crearne altre nuove”.
Nelle parole di Serra risuona la consapevolezza del critico-artista, addentro alle ragioni specifiche e intrinseche dell’arte. Quando egli dice che il Carducci non sempre sa giudicare ma sempre leggere sviscera il nodo della questione: i critici di oggi quasi sempre sanno giudicare, quasi mai sanno leggere. Per approcciarsi alla Poesia occorre un’iniziazione, qualcosa di misteriosofico, e nessuna demagogia postsessantottina potrà mai smentire il fatto che l’arte non è per tutti, che la comprensione intima della sua sostanza è sempre stata e sempre sarà di pochi.
Il Carducci, in queste pagine indimenticabili, diviene un sacerdote delle umane lettere, il celebratore di un culto il cui significato si disvelerà pienamente soltanto in seguito e di cui solo la generazione di critici e letterati formatisi all’ombra del già richiamato Letteratura come vita potrà spiccare i frutti. Il confronto che Serra instaurava fra le figure di Carducci e di Croce faceva pendere la bilancia nettamente dalla parte del Carducci, in relazione, ovviamente, all’ approccio alle lettere, integralmente umanistico e scevro da preoccupazioni teoretiche nel non speculativo Carducci, densissimo invece di nodi concettuali in Croce.
L’inizio del XX secolo fu in Italia il momento di trapasso da una concezione all’altra del fatto artistico, da quella carducciana della lettura in qualche modo “interna” del testo (si pensi alla mirabile lettura del Giorno del Parini già precorritrice della critica stilistica!) all’elaborazione di una nuova teoresi, al tentativo di una nuova definizione organica ed essenzialistica dell’Arte. In questo Carducci e Croce non erano conciliabili e uno in qualche modo escludeva l’altro. Il mazzetto di poco più di venti lettere che ora Felicita Audisio ha curato per Aragno in modo ammirevole (Carteggio Croce – Carducci. 1887-1906) viene a ricomporre la cronistoria delle relazioni epistolari fra il poeta e il filosofo ma non esce pressoché mai dall’ ibernazione delle forme e dai convenevoli di rito.
Scambi di informazioni bibliografiche, omaggi di volumi, riferimenti eruditi, reciproci complimenti che non nascondono la distanza generazionale e la diversità di ruoli che i due corrispondenti erano destinati a ricoprire nella nostra cultura. Quando Carducci riceve l’Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale egli ringrazia Croce parlando del libro come di una rivelazione e di una guida e le note ci informano che il poeta lesse la parte teoretica e lasciò invece intonsa la parte storica.
Non ci è dato sapere se gli albori della nuova estetica abbiano toccato nei suoi ultimi anni il Carducci, sempre alieno da qualsiasi forma di speculazione teoretica, ma il nucleo fondamentale di quel momento storico risiede proprio nel trapasso dalla cultura ancora ottocentesca del poeta di Valdicastello allo spalancarsi della disgregazione novecentesca. Carducci rimarrà per Croce una stella polare, persino, nell’espressione di un gusto fortemente conservatore e arroccato in un gusto impenetrabile agli assedi della modernità, “l’ultimo grande Poeta d’Italia”.
Nel Carducci, fra mille sentori di Decadentismo, era rimasto sempre il sogno di una totalità indivisa, di un umanesimo integrale che ricomponesse l’ansia della morte nella luce superiore e trasfigurante della Poesia. Aveva cantato in una delle sue postreme composizioni, Presso una Certosa:
“A me, prima che l’inverno stringa pur l’anima mia
Il tuo riso, o sacra luce, o divina poesia!
Il tuo canto, o padre Omero,
Pria che l’ombra avvolgami!”.
Anche in due anime così diverse mosse da ragioni così differenti si ritrova un comune denominatore. Il Croce testimone del degenerare del Novecento, del sorgere dei totalitarismi, della minaccia del crollo della civiltà e dell’“Anticristo che è in noi” sarà piena espressione di un’angoscia già modernissima, del rispecchiarsi di una individuale colluttazione con la morte in uno scontro più generale e universale, in cui a essere in pericolo erano i fondamenti stessi di quella cristianità che è la base dell’Europa e del mondo occidentale.
Anche nel filosofo napoletano, tuttavia, permaneva l’idea regolativa di quella totalità indivisa, di quel mondo non ancora scisso dello Spirito proteso all’ innalzamento dell’ essere umano mentre la nuova filosofia del Decadentismo si consegnava inerte allo spettro della “Sorge”. Era il combattimento mortale tra una visione della vita ancora protesa, tra mille insidie e mille vacillamenti, all’ideale di una conoscenza e di una cultura “totali” e l’accarezzamento di una pulsione di morte che mirava proprio allo sfarinamento delle categorie e alla scissione dell’anima.
Per quello, ripercorrendo le relazioni fra Carducci e Croce, il fil rouge non sarà tanto l’occasione esterna che informa questo esile carteggio, quanto la comune difesa dell’integrità dello Spirito e dei valori dell’Umanesimo come antidoto ai veleni di una modernità che invece di combattere l’angoscia e il disagio si crogiolerà in esse smarrendo la ragione più vera dell’essere umano.
Alessio Magaddino