29 Novembre 2024

“Mi occorre sentirmi commuovere. Ho bisogno di parole che parlino al cuore”. Sia lode ora a Puccini, il più grande di tutti

Roma, 14 gennaio 1900. Tutto è pronto per Tosca al Teatro dell’Opera, con il solito fermento e il solito scetticismo. Ma prima di sapere l’effetto di Tosca sul mondo, è interessante capirne la genesi, le discussioni tra Puccini e i librettisti, la cifra musicale.

Giacomo vuole musicare Tosca di Victorien Sardou dai tempi di Manon e di Bohème. La vede in scena per la prima volta a Milano, recitata in francese, tanto che non capisce tutte le parole. Ma il dramma che respira, le passioni e le dinamiche che si intrecciano tra i personaggi, sono gli ingredienti perfetti per arrivare al cuore della gente. Eppure, passano gli anni, ma il desiderio di occuparsi di quest’opera non si concretizza.

Ma di cosa tratta Tosca? Il pittore Mario Cavaradossi, sostenitore della «spenta Repubblica romana», stato-satellite di Napoleone, aiuta il fuggiasco Angelotti, anch’egli napoleonico e gli offre riparo nella sua villa. Tosca, cantante e amante di Mario, è convinta che alla villa ci sia andato con la Marchesa Attavanti. Questo sospetto glielo inculca Scarpia, capo della sicurezza del ripristinato Stato della Chiesa, consapevole della gelosia della donna e certo che il pittore sia coinvolto nella fuga di Angelotti. Tosca corre alla villa, ignara di essere seguita dalle guardie di Scarpia: Cavaradossi le spiega tutto, prima che arrivino gli sgherri; e quando questi accorrono non trovano Angelotti, ma arrestano Cavaradossi perché poco collaborativo. Condotto a Palazzo Farnese, nelle stanze di Scarpia, viene torturato, e Tosca, pur di mettere fine a quei lamenti, confessa che Angelotti è nascosto nel pozzo della villa. Cavaradossi è furibondo, ma esulta sentendo che a Marengo abbia vinto Napoleone. Scarpia lo condanna a morte a Castel Sant’Angelo: Tosca, pur di ottenere una fucilazione finta e il lasciapassare per Civitavecchia, è disposta a concedersi a Scarpia; ma quando lui sta per afferrarla, lei lo pugnala a morte. Scarpia non ha dato l’ordine ai militari di sparare a salve, sebbene Tosca sia convinta che l’esecuzione è falsa: dice a Mario di lasciarsi cadere al primo sparo, e gli racconta che sarebbero fuggiti insieme. Colpi di fucile, Cavaradossi cade. Tosca esulta. Ma quando realizza che l’amato è morto davvero, inseguita dagli scagnozzi di Scarpia, si getta dai bastioni di Castel Sant’Angelo.

Questa storiaintriga perfino Verdi, che vuole farla propria, ma volendo cambiare l’ultimo atto, Sardou gli nega il permesso. Alberto Franchetti, altro musicista, convince il romanziere e ingaggia Illica per il libretto. È tutto pronto: Franchetti e Illica vanno da Sardou per fargli leggere il copione, ma quando Puccini scopre che Franchetti intende “rubargli” la tanto corteggiata Tosca, non ci sta. Stranamente, questa volta è Illica che lo rassicura, e gli dice che ci pensa lui a sistemare le cose; poi aggiunge: «Sei straordinario. L’avevi, non ti piaceva. La prende un altro, vuoi portargliela via». Risposta di Giacomo, da paraculo: «Non voglio portarla via a nessuno. Ma mi pare di aver capito, da certi ragionamenti dello stesso Franchetti, che Tosca non lo infiamma più. Se non piace a lui, cerca di farla avere a me, perché a me piace, adesso. Lo farai?» «Non lo meriti,» tuona Illica, «ma lo farò»; e torna dopo qualche giorno: «Franchetti ha ceduto. Tosca è tua».

Come al solito, Giacomo deve cozzare con i librettisti, in particolare con Illica. La celeberrima aria E lucevan le stelle ne è la prova. Il poeta non sta nella pelle: ha scritto un’aria impregnata di arte e filosofia con uno spessore culturale a dir poco notevole.

«Non ti pare una magnifica romanza?» chiede Illica.

Risposta di Giacomo: «Magnifica può essere. Romanza, no. Mi lascia freddo».

«Freddo? Una concezione simile? Ma allora, che cosa ti occorre perché tu possa riscaldarti?»

«Mi occorre sentirmi commuovere. Ho bisogno di parole che parlino al cuore».

«E questa non ti parla, tesoro?»

«Mi parla, tesorone, ma non mi dice niente.»

Le parole oh languide carezze e muoio disperato sono scritte da Puccini. Non c’è verso, non molla. Vuole che quest’aria abbia una sola caratteristica: sprigionare l’attaccamento alla vita di un uomo, non di un cavaliere o di un pittore, che è in procinto di essere fucilato. E non ha tutti i torti. Così come la musica del terzo atto offre quattro motivi differenti, frammentate ma coerenti come le sfumature dell’animo innamorato.

Si arriva al debutto con il solito scoramento di Giacomo, influenzato dalle voci di corridoio: i critici, invidiosi del successo di pubblico di Manon e Bohème, vogliono fargliela pagare. Impossibile. A Roma l’opera è interrotta solo dalle richieste del bis per Recondita armonia, Vissi d’arte, E lucevan le stelle e il duetto d’amore finale del terzo atto (Oh dolci mani). I giornali appaiono sterili: come possono ammettere di essere di fronte ad un compositore secondo solo a Verdi (anche se per me lo eguaglia, e perfino lo supera)? Alla fine, Puccini riceve l’ovazione del pubblico e respira l’umanità che lui stesso intende profondere. Uno scambio reciproco di emozioni vive.

Dopo il trionfo mondiale di Tosca, da Parigi a New York, da Melbourne a Buenos Aires, Puccini è alla ricerca di un nuovo libretto:

«Se non mi sento commuovere, se il libretto non mi tocca il cuore, se non mi fa ridere e non mi fa piangere, se non mi esalta e mi scuota, non c’è niente da fare. Non è cosa per me. Ne verrebbe una falsità, una stonatura».

Fino a quando scrive a Giulio Ricordi: «Le sarei grato, signor Giulio, se mi dicesse che s’è informato a New York per quel tale soggetto americano. Io ci penso sempre». Ovviamente, si tratta di Madama Butterfly.

Dopo un brusco incidente automobilistico, che gli costa la rottura del femore, la sera del 25 febbraio 1903, Puccini può rimettersi al lavoro. Conosce il Giappone vero: si avvicina alla lirica popolare, alle ninnenanne folkloristiche; ai motivi che colorano le vie fiorite dei villaggi; ai rituali che richiedono precisi strumenti; ai canti tradizionali.

Dicembre, 1903. Madama Butterfly è pronta. È la storia della geisha giapponese di quindici anni, che sposa F. B. Pinkerton, tenente della marina militare americana. Una volta convolati a nozze, Pinkerton torna negli Stati Uniti e lascia da sola Butterfly, in dolce attesa. Passano tre anni e il marinaio non torna: il denaro scarseggia, la casa si deteriora, ma lei, integerrima, aspetta suo marito. Pinkerton in effetti torna, ma con la nuova moglie Kate e la volontà di prendere suo figlio e portarlo con sé in America. Disillusa, ingannata e rinnegata, la giovane Butterfly benda il piccolo, destinato ad una vita con usi e costumi occidentali, e si toglie la vita con la tecnica giapponese jigai.

Milano, 17 febbraio 1904. La prima alla Scala è un fiasco. «L’aveva rinnegata il pubblico» confessa Puccini all’amico Fraccaroli, «ma poi fu felice, povera piccolo creatura mia. Io avevo fede». In effetti, il traditore è il pubblico, quello stesso pubblico che smentiva la critica: urla, schiamazzi, fischi, bagarre, come se l’uomo comune godesse nell’uccidere Dio. Giovanni Pozza, critico del Corriere, termina il suo articolo con una previsione: «Credo che l’opera, abbreviata e alleggerita, si riavrà»; il resto dei giornali, però, inneggiava al «Fiasco del Maestro Puccini!», che intanto «si vergognava ad uscire di casa», anche perché «l’insuccesso arrivava del tutto inatteso». Giacomo, però, è convinto: «Ieri sera ho sentito dal palcoscenico imperversare la bufera. Ma io voglio ancora bene a Butterfly. L’ho scritta con tanta emozione!» E aggiunge che è la sua opera «più moderna», «un’opera di suggestione» che in pochi sanno preservare. In effetti, una volta che si infrange la magia, l’opera è irrecuperabile, proprio come alla Scala. Puccini insiste: «Risorgerà rigogliosa, vivrà di vita sua».

E non sbaglia. In tre atti, e non due; diluita, e senza il lungo intermezzo orchestrale tra il primo e il secondo atto; privata della scena dello zio bonzo ubriaco; con una nuova aria per il tenore nel terzo atto, la famosissima Addio fiorito asil: questa è la nuova Madama Butterfly, «viva, vera, sincera». E al Teatro Grande di Brescia, il 28 maggio 1904, il pubblico è incontenibile. Il solito tripudio. Il Maestro viene chiamato al sipario ben dieci volte, come una richiesta di indulgenza dopo la Scala.

Da qui, si susseguono i trionfi della Fanciulla del West (1910), La rondine (1914), del cosiddetto Trittico (Il tabarro, Suor Angelica, Gianni Schicchi) (1918). Dalle Villi al Trittico, Puccini è in tutto il mondo. Purtroppo, però, nel 1906 Giacomo perde un amico: muore il grandissimo Giuseppe Giacosa, e da quel momento tutti i libretti delle suddette opere sono firmati da Renato Adami (tranne La fanciulla del West, di Civinini e Zangarini). Come, del resto, Turandot.

Ottobre 1919. Puccini scrive a Adami: «Sono due anni che non lavoro – bel mio tempo perduto!»; e chiede espressamente a lui e a Simoni, altro librettista, di trovargli uno dei suoi fatidici soggetti. «Non è un incarico che vi do», insiste Puccini, «è una preghiera che faccio a due amici.» Ma questi amici sono lenti: rispondono che «stanno lavorando», ma nessuno sa a cosa. E dopo attese e delusioni, a Simoni viene in mente un nome: Carlo Gozzi, e le sue favole. Scartata la folle idea di condensarle tutte in un’opera sola, Puccini si esprime: «E se pensassimo a Turandot

Puccini riparte da Milano, luogo dell’incontro, verso Viareggio. Prima di salire sul treno, Simoni gli fa avere la sua copia di Turandot rifatta da Schiller e tradotta da Maffei, partendo dalla favola di Gozzi. Giacomo la legge d’un fiato:

«Su questa fiaba voi mi fate un’altra Turandot, piena di fantasia, di poesia, di umanità, io lo musico».

La sola paura del Maestro è di non proporre una Cina simile al Giappone di Butterfly. Timore scampato: l’Oriente di Turandot è totalmente favolistico, leggendario, senza alcuni riferimenti alla realtà, con maschere e nastri di un esotismo nuovo. E Turandot non è Butterfly. È una regina «di gelo» che, dopo aver ucciso decine di contendenti al trono perché incapaci di risolvere i suoi enigmi, si vede costretta a cedere di fronte al Principe Ignoto. Calaf, nome dello «scopritore degli enigmi», supera la prova e scioglie il cuore di Turandot, timorosa di essere vinta dalla passione come una sua antenata.

Il «Tempo delle favole» presenta tutti gli elementi necessari che conducono al pianto, al riso, al pathos. Puccini è effettivamente padrone dello spartito come mai prima d’ora. I ministri del regno Ping, Pong, Pang conferiscono brillantezza e ironia che si addicono alla fiaba. Turandot e Calaf sono i personaggi con una complessa struttura psicologica e caratteriale: la regina è crudele, potente, ma mostra una bellezza magnetica; il Principe Ignoto è intelligente, l’ideal tipo dell’eroe, che a sua volta sfida la Principessa a scoprire il suo nome prima dell’alba e se l’avesse scoperto sarebbe morto. Da qui il Nessun dorma, con la travolgente ascesa fino al Vincerò, che è infuso in ognuno di noi. «Questa notte nessun dorma in Pechino» canta il Popolo cinese, altro protagonista dell’opera; invoca la «faccia pallida» della luna, insieme al boia Pu Tin Pao, lo stesso Popolo che infonde coraggio a Calaf quando sfida Turandot. Emerge il languore di Liù, la schiava di Timur, padre di Calaf, che muore piuttosto che rivelare il nome del Principe Ignoto. Insieme al Popolo, lei è la seconda protagonista, essenza dell’Amore disinteressato, impossibile, veramente nobile sebbene sia una schiava, emblema di purezza.

Ma mentre Puccini lavora alla sua più grande creazione, un tumore accresce nella sua gola. «Questo mio mal di gola mia tormenta» scrive nel 1924. Intanto continua a comporre, ignaro della gravità del malessere che lo perseguita. Il 1° settembre accetta la proposta di concedere la prima di Turandot alla Scala per la primavera del 1925. L’opera è praticamente conclusa, manca soltanto da strumentare il duetto finale tra Calaf e Turandot del terzo atto. Ma Giacomo è ottimista: lui guarirà e potrà terminare il suo strepitoso capolavoro. Invece, all’improvviso quel tumore degenera, ed è costretto a partire per Bruxelles. È toccante questo aneddoto: in fretta e furia, tra i suoi effetti personali, Puccini porta con sé le ultime pagine di Turandot, insieme agli occhiali e alla sua matita, convinto di poter continuare a comporre.

Forse Puccini è il più grande operista di sempre anche per questo. Perché nella musica si condensa la sua stessa vita. Perché è meticoloso nella scelta del soggetto; si sofferma su tutto, dallo svolgimento dell’atto alla singola scena. Nulla sfugge alla sua lente critica, esigente. Ma ciò che lo rende irraggiungibile è il suo senso di umanità. Puccini sente le vibrazioni dello spirito, le contraddizioni dell’essere, e come una sorta di pittore le dipinge sulla tela del palcoscenico. Uomo di immensa cultura, di rarissima sensibilità, nei personaggi pucciniani troviamo sempre un pezzetto di noi. Perché tutti noi abbiamo amato, lottato, sognato; abbiamo riso, pianto e disperato.

Puccini è il più grande di tutti perché sa riflettere sullo spartito i tormenti di un emarginato, i sogni di un innamorato, i progetti di un eroe, che spesso è di una semplicità disarmante. Puccini è il più grande di tutti perché ama

«le anime che hanno un sentimento come il nostro, che sono fatte di speranza e d’illusione, che hanno bagliori di gioia e lagrime di malinconia, che piangono senza urlare, e soffrono con una amarezza tutta intima».

Turandot ovviamente conquista il mondo, come le sue “sorelle”. Alla Scala a dirigere la prima è Toscanini. Giunto a metà del terzo atto, ferma l’orchestra, si gira verso il pubblico e afferma:

«Qui finisce l’opera lasciata incompiuta dal Maestro, perché a questo punto il Maestro è morto».

Il grande Maestro, il più grande di tutti, muore oggi, cento anni fa, in quella clinica di Bruxelles.

Davide Chindamo

Gruppo MAGOG