16 Novembre 2024

“L’amore che dà gioia e fa soffrire”. Puccini, gli anni del successo: da “Manon Lescaut” a “Bohème”

Torino, 1893. Manon Lescaut, terminata l’anno precedente, va in scena al Teatro Regio. Puccini non ha dubbi sull’esito dell’opera. Perfino il direttore, il coro e i cantanti sono convinti che il pubblico sta per assistere ad un capolavoro straordinario. In effetti, le sensazioni sono giuste e il trionfo è spaventoso: il Maestro raggiunge una notorietà impressionante, la celebrità sognata, e da quel momento la sua caratura è insindacabile.

Giovanni Pozza, critico musicale del Corriere, il giorno dopo scrive che «dall’Edgar a questa Manon il Puccini ha saltato un abisso. […] Manon è l’opera dell’ingegno conscio di sé, padrone dell’arte, creatore e perfezionatore». Libretto e musica sono due ruote ben gonfie che contribuiscono all’equilibrio della bicicletta: in sincronia e collaudate, garantiscono all’opera fruibilità e armonia, senza cigolamenti o imprevisti.

Con l’amico fraterno Arnaldo Fraccaroli, molto tempo dopo, Puccini ripensa alla sua opera come un padre orgoglioso e compiaciuto:

«Manon è la sola opera che non mi abbia mai dato nessun dispiacere. Tutte le altre, anche quelle più fortunate, qualche dispiacere piccolo o grosso me l’hanno dato tutte. Manon mai: gran brava figliola.»

Gli accordi dedicati a Des Grieux e a Manon, i due protagonisti, così come a Geronte, si ripresentano all’interno dell’opera ogni volta che appaiono i personaggi. Questo è un tratto tipicamente pucciniano: la musica del Maestro partecipa attivamente alle avventure e disavventure dei suoi beniamini; in particolare si fa ingombrante quando introduce le eroine, come a volerle accompagnare alla ribalta o supportarle nella rovina.

Non è un caso che, dopo Manon, Puccini si innamori di Mimì, protagonista del romanzo Scènes de la vie de Bohème di Murger. Ma non solo di lei: si innamora perdutamente anche di tutti i personaggi della storia, forse perché rivede se stesso in questi giovani bohèmiens. Lui, ai tempi del Conservatorio milanese, quando a malapena mangiava un piatto di minestra e sgomitava per pagare l’affitto. Ma oltre alle difficoltà concrete, Puccini riconosce nel poeta Rodolfo, nel pittore Marcello, nel musicista Schaunard e nel filosofo Colline gli stessi sogni di gloria che aveva lui. Questo è uno dei motivi per cui Bohème rimane una delle opere più amate in assoluto: è drammaticamente vera, sia da un punto di vista ambientale che spirituale, e per Puccini assume i tratti di un ricordo eterno, tanto doloroso quanto dolce ma indispensabile per la sua crescita artistica.

Sempre Fraccaroli, e sempre molti anni dopo, chiede a Puccini come sia nata l’idea di leggere il romanzo di Murger. «Vuoi sapere la verità vera?» risponde il Maestro.

«È nata in un giorno di pioggia, ch’io non sapevo cosa fare, e mi son messo a leggere un libro che non conoscevo. Si chiamava Scènes de la vie de Bohème, autore Henry Murger. Il libro mi conquistò di colpo. In quell’ambiente fra goliardico e artistico, mi ritrovai subito in famiglia. Io ho bisogno di episodi di sentimenti che parlino al cuore. Allora canto. Nel libro di Murger c’era tutto quello che cerco e che amo: la freschezza, la giovinezza, la passione, la giocondità, le lacrime piante in silenzio, l’amore che dà gioia e fa soffrire. E c’è umanità, c’è sentimento, c’è cuore. E sopra tutto c’è poesia, la divina Poesia. Dissi subito: ecco il soggetto ideale per un’opera.»

Puccini non perde un secondo. Convoca Illica a Milano e condivide con lui il progetto: il librettista, sempre vulcanico e irrequieto, accetta con il solito clamore. Anche l’editore Giulio Ricordi approva ma con minor euforia, una sorta di contraltare per Illica, tanto che suggerisce a Puccini di affiancargli Giuseppe Giacosa, poeta raffinatissimo e mite, pacato uomo di teatro. Il Maestro accetta, e da quel momento Illica e Giacosa saranno il suo «binomio di lusso», anche per Tosca e Madama Butterfly.

Ma gli intoppi non tardano ad arrivare. Se Puccini è ispiratissimo, e potrebbe musicare immediatamente il suo soggetto, i librettisti procrastinano la consegna del testo: lo costringono ad un’attesa per lui intollerabile, tanto che inizia a comporre senza libretto; Puccini improvvisa, inventa dei versi in linea con la trama, ma la pazienza sta per finire. «Correvo da Illica e gli facevo una scenata» ricorda Puccini a Fraccaroli.

«Poi, quando avevo ben bene stancato e spremuto quello lì, passavo da Giuseppe Giacosa alla Casa Rossa, e domandavo versi anche a lui. Ma senza scenate, perché Giacosa mi incuteva soggezione. Talvolta non mi davano niente, né Illica né Giacosa, e allora cercavo di andare innanzi per conto mio, scrivendo musica su versi miei immaginari e fantasiosi. Poi andavo dai librettisti e dicevo: questa è la musica, cercate i versi che si intonino!»

Non è questo lo spazio adatto per trascrivere tutte le richieste di Puccini. Basti sapere che Illica è furibondo, confermando che a stare dietro a Giacomo si diventa matti, mentre Giacosa si avvale di non so che pazienza per accontentarlo. Ricordi gioca il ruolo del paciere: solletica la magnanimità di Giacosa e diluisce le ire di Puccini. Il librettista, fin troppo disponibile, modifica il quarto atto almeno quattro volte, perché la morte di Mimì non soddisfa il musicista: Puccini richiede qualche «espressione più adatta», qualche «piccolo inciso affettuoso» prima del decesso della protagonista, versi che la sua «povera testa non riesce a trovare e neppure a proporre.»

Alla fine Giacosa compie il miracolo, e Puccini può finalmente musicare Bohème. Iniziata a Milano nel 1894, viene terminata a Torre del Lago nel dicembre del 1895 in quella che oggi è Villa Puccini, la casa museo del Maestro. Piccola parentesi. Torre del Lago non è un luogo come tanti. Come afferma lo stesso Puccini, quel «paesino tranquillo, con macchie splendide fino al mare», diventa la sua «turris eburnea»: gli animali che popolano quel «padule», dai cinghiali ai daini fino a fagiani e beccacce, e tanti altri ancora, sono potenziali prede per il Giacomo cacciatore. Il Maestro confessa che non riesce a stare troppo distante da Torre del Lago, al punto da essere «affetto da torrelaghite acuta». Qui i «tramonti sono lussuriosi e straordinari», tanto che lo costringono a trasferirsi definitivamente alla Villa nel 1900, dove tuttora riposa.

Il libretto di Bohème, «dopo due anni», è oggettivamente «un vero gioiello», e Puccini scrive la musica in soli otto mesi, a conferma della quantità di idee che già gli scorreva nelle vene. Nonostante non sia mai stato a Parigi, anche Puccini, come Verdi, «inventa il vero» e crea una Parigi ancora più autentica della Parigi reale. Riprende i movimenti del Capriccio giovanile, sintesi della sua bohème giovanile, e trova l’attacco per l’opera. E nel terminare la partitura, Giacomo subisce un trasporto totale nella sua musica: «Quando mi misi a descrivere la morte di Mimì, e trovai quegli accordi scuri e lenti, e li suonai in mezzo alla sala, solo nel silenzio della notte, mi misi a piangere come un fanciullo. Mi pareva di vedere morire una mia creatura.»

Mimì e Rodolfo sono calati meravigliosamente nella realtà parigina di fine Ottocento. Sono giovani e innamorati, e fronteggiano le difficoltà dell’essere altrettanto poveri: lei, ricamatrice malata di tubercolosi, lui, poeta sognatore, che per quella Gelida manina ritrova la speranza, riempiono la soffitta fredda e buia, illuminata da un lume. Purtroppo, però, Rodolfo allontana Mimì, convinto che quella condizione ne avrebbe peggiorato la salute: ma come si può fronteggiare la lontananza se governa l’amore? Mimì ritorna nella soffitta, riscaldata dal nuovo manicotto comprato con una colletta dagli amici, ma non ci sono speranze; rannicchiata, muore nell’abbraccio di Rodolfo. Ma in verità incarnano tutto il dolore e tutto l’amore del mondo, di ogni epoca e di ogni luogo. E la musica, vestito perfetto per un lessico “accessibile”, non fa che contribuire alla veridicità di questi sentimenti, così vicini ad ognuno di noi da renderli nostri.

Tuttavia, l’ebrezza che vive la quadriga Puccini-Illica-Giacosa-Ricordi non è contagiosa. La prima di Bohème va in scena a Torino, ancora al Teatro Regio, nel febbraio 1896. L’orchestra è perplessa, e gli elettricisti e i macchinisti ancora di più: «La musica è musichetta»; «qui vengono presentate persone vestite come noi, pressappoco, che cantano parole correnti e comuni». Mi esento dal riportare tutti i commenti dei critici, perché confermerebbero la scarsa chiaroveggenza tipica di chi deve giudicare il valore dell’arte. Ne ricordo solo uno, emblematico: «Quest’opera non avrà vita lunga.»

A dirigere l’opera è Toscanini. Nientemeno. Ed è proprio lui a calmare il piccato Puccini: «Non vorrai diventare celebre senza avere qualche piccolo disturbo.» Il Maestro sorride, e chiede a Toscanini se è tranquillo. «Sono più che tranquillo,» risponde, «ho proprio la sensazione che questa sera si possa esserlo».

L’esito? Il pubblico è in visibilio. Invoca spesso il bis, ma considerata la già diffusa avversità di Toscanini per le “repliche” non viene concesso. La critica è glaciale, non si convince, e Puccini incamera nervosismo e rabbia. Ad ogni replica, ancora a Torino, e poi a Roma e a Palermo, gli spettatori sono sempre più innamorati della storia di Rodolfo e Mimì, in quella Parigi così poetica; e più accresce l’apprezzamento della gente, più la critica risulta sterili e scettica. Puccini è malinconico, quasi abbattuto, e non riesce a gioire per tanto successo. La sera della prima di Torino, dietro le quinte si riuniscono tutti: Puccini dice che «questi commenti mettono un freno agli entusiasmi»; il saggio Giacosa ha «le spalle larghe per poter sopportare simili sciocchezze», mentre Illica promette «due buoni pugni per mettere in riga gli imbecilli presuntuosi». Poi arriva Toscanini, e con la sua glaciale sicurezza si rivolge al Maestro: «Asinoni! Lascia stare, Giacomo. L’opera è bella.» E continua:

«Quest’opera qui ti esalterà e ti commuoverà e farà piangere le spettatrici e gli spettatori di tutto il mondo, te lo dico io. Vuoi che te lo firmi? E adesso, coraggio: andiamo a cena, che ce la siamo guadagnata.»

Toscanini ha ragione, ancora una volta. Ma non sa che quattro anni dopo ci sarà un’opera perfino più travolgente, sotto tutti i punti di vista. Non sa che Puccini darà alla luce il suo più grande capolavoro, insieme alla postuma Turandot.Un’opera che non conosce rivali, sia da un punto di vista melodrammatico che musicale, capace di unire letteratura, musica, arte e filosofia. È il trionfo dell’Arte: questo, e molto, molto altro sarà Tosca.

Davide Chindamo

Gruppo MAGOG