23 Ottobre 2024

“Tu sei matto e io non voglio perdere la mia pace per i tuoi capricci”. Il giovane Puccini

Milano, 1880. Un giovane lucchese, dopo gli studi di tastiera dallo zio Magi e di organo presso il seminario della Cattedrale, ascolta la sua vocazione e si catapulta nella città meneghina.

Giacomo, considerato un “garzoncello” dal carattere «per nulla dolce o malleabile», capisce che è il momento di dare una svolta alla sua vita. Nel 1876, assiste all’Aida di Verdi a Pisa e rimane folgorato:

Ne rimasi sbalordito, quasi spaventato. Un uomo poteva scrivere un’opera di quella mole? E con tanto splendore di armonie? E con tale miracolo di potenza? Mi pareva di sognare. Mi parve che non si potesse fare niente di più grande, di più spettacoloso.

Da qui, il bisogno irrefrenabile di scrivere opere. Ma, ovviamente, per scrivere le opere bisogna studiare, e per studiare serve il Conservatorio. E tra tutti, l’unico degno di considerazione risulta essere il Conservatorio di Milano. Puccini sceglie la città meneghina perché è la città di Verdi, che regna incontrastato da via Manzoni, a due passi dalla Scala. Milano è la città più “europea” nell’Italia neo risorgimentale: la città dei grandi maestri, degli editori (come Ricordi e Sonzogno), dei cantanti più celebri. E per un ragazzo dal temperamento inarrestabile come Giacomo, non può che essere Milano il palcoscenico da raggiungere. «Ci vado, sì,» rispondeva allo scetticismo degli amici di Lucca, «perché non dovrei andarci?».

Però, le ristrettezze economiche stravolgono completamente la domanda retorica di Giacomo: «Voglio andarci, certo, ma come faccio?». La difficoltà è evidente: da quattro generazioni, a partire dai primi anni del Settecento, i Puccini vantano musicisti di primissimo ordine, ma la morte prematura del padre Michele, a cinquantun anni, condanna la famiglia ad una condizione di miseria.

Ecco che subentra Albina, la madre del piccolo sognatore, e l’idea è geniale. La famiglia reale vede di buon occhio i giovani volenterosi, specialmente vocati alle arti, e mette a disposizione una serie di borse di studio. Tramite la dama di compagnia, Albina fa avere alla regina Margherita la sua supplica: «Il mio figliolo vorrebbe andare a Milano a studiare musica, e non può perché è povero». Le duecento lire non tardano ad arrivare, insieme alla commozione sincera della Regina e i migliori auguri di Casa Savoia. Il dottor Cerù, prozio di Giacomo, infiocchetta il tutto, accollandosi il resto della retta.

Ovviamente, l’ammissione al Conservatorio è rigidissima, sebbene al candidato non manchi l’ottimismo. Da una lettera scritta alla madre, si legge che «i posti sono molto pochi» ma «ha buone speranze avendo riportato molti punti». E in effetti non si sbaglia: l’esame va benissimo, l’esito è positivo. Il 16 dicembre 1880, Giacomo inizia la sua formazione. Con lui, Pietro Mascagni, futuro compositore di Cavalleria rusticana.

Puccini studia, e fin da subito si immerge nel tessuto milanese. Dopo le «passeggiate in su e in giù in Galleria», rientra nella sua «camerina bellina ripulita». Spesso va da Catalani, suo conterraneo, «che è gentilissimo», mentre di rado, «quando ha le palanche», va al caffè. Una volta, scrive sempre alla madre, «ha bisogno di una cosa, ma ha paura a dirgliela»:

Avrei bisogno di una cosa, ma ho paura a dirgliela perché capisco anch’io, Lei non può spendere. Siccome ho una gran voglia di fagioli (anzi, un giorno me li fecero mangiare, ma non li potrei mangiare a cagione dell’olio che qui è di sesamo o di lino!) dunque, dicevo, avrei bisogno di un po’ d’olio, ma di quello nuovo. La pregherei di mandarmene un popoino. […] una cassettina che costa quattro lire…

Finalmente giunge il 1883, saggio finale del Conservatorio. Qui Puccini compone il suo Capriccio sinfonico. Il successo è a dir poco incredibile. Da semplice prova d’esame diventa un vero e proprio miracolo artistico. Ad Arnaldo Fraccaroli, suo grande amico e magnifico biografo di Puccini, racconterà molti anni dopo di non aver mai capito la fonte di questa creazione: «Scrivevo a casa, per strada, a scuola, all’osteria dell’“Aida” o all’“Excelsior”: […] scrivevo su foglietti, pezzi di carta, margini di giornale.»

Ponchielli, già celebre per la sua Gioconda, è il professore che valuta i saggi finali e rimane sorpreso dal talento di Giacomo, mai visto prima. Lo stesso Ponchielli che disprezza «gli sgorbi» che l’alunno gli fa leggere ogni mattina, quei «pezzi di carta che non ha il coraggio di affrontare». Filippo Filippi, grande critico musicale, apprezza da subito il Puccini sinfonico, e vede nei suoi testi «unità di stile, personalità e carattere».

L’esito formidabile del Capriccio non si limita alla celebrazione del momento. Anzi, è la successiva proposta di Ponchielli ad infiammare l’animo di Giacomo: «Perché non scrivi un’opera?». La risposta è immediata: «Già, maestro, è un’idea, ma il libretto?»

Il Maestro non tentenna, e mette in contatto l’allievo con il poeta Fontana. Caso vuole che in quel periodo la casa editrice Sonzogno bandisca un concorso per una nuova opera e il giovane coglie la palla al balzo. Fontana, Ponchielli e Puccini si incontrano. Le parole del poeta, e futuro librettista, rendono l’idea:

Era l’agosto del 1883. […] Saliti nella stessa vettura ferroviaria con Ponchielli, questi mi parlò dell’intenzione del suo allievo per il concorso Sonzogno, e mi propose di preparargli un libretto. Lì per lì, vivo nella mia memoria il ricordo del successo del suo Capriccio sinfonico, mi parve che per il giovane ci volesse un argomento fantastico, e gli spiegai il canovaccio delle Villi. Accettò. Il libretto fu pronto in un mese e Puccini si mise di furia a musicarlo.

Le aspettative sono altissime, il promettente “maestrino” scalpita e freme. Viaggia da Milano a Lucca per finire l’opera il prima possibile. E a ridosso della scadenza del concorso, consegna il suo spartito. Esito? Bocciatura, secca e spietata. Si pensa che non sia stata nemmeno letta. Zuelli, vincitore del concorso, dopo la morte di Puccini, afferma: «Riconosco lealmente, e ci tengo a dirlo ben forte, che il lavoro di Puccini era di gran lunga superiore al mio».

«Non aver paura, figliolo» scrive Albina al giovane affranto. «Una mamma non sbaglia. Questa tua operina è bella, molto bella. Io ti dico che risorgerà, vedrai. Sovrana fiducia del cuore di mamma». Nessuna profezia fu tanto infallibile. Le Villi, edita poi da Ricordi, ottiene la sua prima rappresentazione al Teatro Dal Verme il 31 maggio 1884. Sfolgorante tripudio. «Puccini alle stelle», scrive Filippi. «Povera la commissione del concorso, che non ha accordato a Puccini nemmeno la menzione onorevole».

Ma la felicità è sempre un sentimento troppo effimero. Il 17 luglio muore la madre, e Giacomo invita la sorella Ramelde «a farsi quel coraggio che ancora lui non ha saputo farsi».

Un commento di Verdi, però, riporta Puccini alla realtà delle cose. In una lettera a Ricordi, editore comune, scrive del giovane: «L’opera è l’opera, la sinfonia è la sinfonia, e non credo sia bello fare uno squarcio sinfonico per il solo piacere di fare ballare l’orchestra». Tutto bello, ci mancherebbe, ma le Villi non è ancora un capolavoro.

Giacomo segue il consiglio di Verdi e rispetta l’accordo con il suo editore. Edgar è il nuovo titolo: un lavoro titanico, una fatica immane, a causa del libretto firmato ancora una volta da Fontana. La storia è tratta dal dramma del grande poeta Alfred de Musset: Edgar fugge con Tigrana, una zingara, e rifiuta l’affetto di Fidelia, per poi unirsi all’esercito fiammingo; disperso e dato per morto, si procede con il funerale; in verità, vestito da frate, Edgar mette alla prova Tigrana, che lo rinnega per soldi; smascheratosi, torna tra le braccia di Fidelia e decide di sposarla; ma si compie la vendetta di Tigrana: la zingara pugnala la promessa sposa, per poi essere catturata e decapitata.

Puccini non è convinto:

Io ho bisogno di musicare passioni vere, passioni umane, amore e dolore, sorrisi e lagrime, e ch’io le senta, che mi commovano, che mi scuotano. Solo così io posso scrivere musica.

E non si sbaglia: da un lato c’è l’euforia e l’entusiasmo di vedere la sua seconda opera rappresentata alla Scala, il 21 aprile 1889; dall’altro, la consapevolezza dell’insoddisfazione. Il Maestro, ormai possiamo definirlo con la maiuscola, viene chiamato più volte al proscenio e omaggiato dal pubblico. Però il testo non entusiasma, tanto che si legge sui giornali: «È stato scritto un gran male libretto», ma «la melodia prorompe con un impeto e un fascino irresistibili».

Accorre la primavera del 1890, e Puccini ormai ha trentadue anni. Si è convinto: deve essere lui a scegliere sia la trama che il librettista. Non può permettersi un altro Edgar. Dopo l’ipotesi di un dramma di Shakespeare, legge Storia di Manon Lescaut e del cavaliere Des Grieux, romanzo dell’abate Prévost, e ne rimane piacevolmente sorpreso. Senza saperlo, sta affrontando un soggetto già musicato da Massenet con il titolo di Manon, rappresentato a Parigi nel 1884. E una volta che viene a conoscenza di tutto questo? Si convince del tutto, e nasce il desiderio di superare il compositore francese.

Inizialmente assolda il commediografo Marco Praga, ma Giacomo non scende a compromessi. «Ciao, ciao, caro,» gli scrive Praga, «tu sei matto, e io non voglio perdere la mia pace per i tuoi capricci». Così Domenico Oliva, il secondo candidato: «Ciao, ciao, caro Puccini, io rinunzio! Lavorare con te non è più una collaborazione, è una galera». Cosa fare, se non rivolgersi direttamente a Ricordi? «Che ne pensa, se chiamassimo Illica? È molto abile» propone l’editore. Risposta di Puccini: «Benissimo, basta che si adatti a fare quello che voglio io». E così Giacomo ha il suo libretto, al quale mette mano liberamente. Inizia a musicarlo con passione, trasporto e naturale compiacimento. Prende forma Manon Lescaut, e insieme a lei il tandem Puccini-Illica.

Davide Chindamo

Gruppo MAGOG