I coniugi Parra, che venivano da San Fabián de Alico, Cile, diedero avvio a una generazione di geni. Il primogenito di Nicanor Parra Alrcón, chitarrista e maestro di scuola, e di Rosa Clarisa Sandoval Navarrete, sarta e contadina, si chiamava, in gemellaggio paterno, Nicanor. Era il più anziano di tutti – classe 1914 – fu il più longevo – è morto nel 2018 –, forse il più talentuoso, non per forza il più noto. Poeta dalla potenza rivoluzionaria, un anti-Neruda, oltre che anti-lirico, celebrato più volte dai cardinali del Nobel, in Sudamerica Nicanor Parra è leggenda. Da noi si è attesa la morte perché un grande editore – Bompiani – lo celebrasse in una grande raccolta antologica – L’ultimo spegne la luce, uscita nel 2019. Il paragrafo con cui il curatore, Matteo Lefèvre, apre il referto introduttivo, dice tutto: “Se c’è un poeta latinoamericano che gode di un credito indiscusso per l’originalità, la qualità e la irriverente costanza del suo impegno letterario, questi è senz’altro Nicanor Parra. E proprio irriverenza e umanità, a sentire Harold Bloom, hanno sempre rappresentato le cifre caratterizzanti di questo straordinario autore cileno”.
Corrosivo, ironico, ‘impegnato’, amico di Ginsberg e di Ferlinghetti, affascinato da Thomas Merton, Nicanor stimolò la forza creativa della sorella, Violeta, più giovane di tre anni. È proprio lei, Violeta, la perla della famiglia Parra, l’icona in gloria, l’agone nella disperazione. A differenza di Nicanor, matematico, iconoclasta lirico, i fratelli – Lautaro, Roberto, Eduardo, Hilda… – si impegnarono nella musica, risvegliando il folclore cileno, studiando. Violeta era spavalda, cruda, crudelmente autentica, “Minuta, vestita con semplicità, senza trucco, i lunghi capelli sul viso segnato dal vaiolo, la testa china sulla chitarra, canta da sola. La sua parola è come lei, diretta e senza fronzoli: ‘Io canto… se ho da dire qualcosa/e non prendo la chitarra/ per ottenere l’applauso/ Io canto la differenza/che c’è tra il vero e il falso/ altrimenti, non canto’” (Adriana Langtry).
Violeta Parra si sposa, poco più che ventenne, ha figli, si separa: la musica la forza a una vita libera, raminga, aliena alla morale comune. Si risposa nel 1949, fa figli, divorzia ancora. Una spirale di lotta e di insoddisfazione la cinge. Quando il fratello Nicanor le mostra il fervore dell’avanguardia poetica, Violeta viaggia: è in Argentina, in Francia, in Russia, in Italia. Canta, prende appunti, registra. Pare una specie di Frida Kahlo della musica: si china sul suo strumento come su un lavatoio; pizzica le corde come a muovere acqua muscosa, grave di destino. Non suona, divina. A volte sorride, quando la guardano; spesso la sua concentrazione rasenta la severità. Ostenta se stessa, con selvaggio pudore, come un simbolo. Il ciclo di dischi El folklore de Chile (1957; 1961) sono una testimonianza eccezionale; il legame con l’antropologo Gilbert Favre, clarinettista, è una svolta. Violeta si nutre della vita, crede a ogni amore, si cede. Gilbert e Violeta lavorano insieme, a Ginevra, si amano, si mollano – quando lei, rientrata in Cile nel 1965, lo va a trovare, in Bolivia, lo scopre felice, solidale, sposato. Per Violeta è l’ennesimo squarcio. Il suo destino è il salto: “Qualcosa mi sfugge… non so cosa sia… lo cerco… certamente non lo troverò mai”, dice, spesso, agli amici, solare di una solitudine sempre più austera, austriaca al Sud.
Violeta cominciò a suonare a 9 anni, a 12 componeva. I genitori ospitavano in casa i vagabondi del circo: i fratelli Parra impararono l’arte dell’equilibrismo, della risata, del prodigio. Si costruivano i vestiti. Un giorno, Violeta vide la tigre e il domatore che la amava fino a venirne ucciso. L’ultimo disco di Violeta, Las últimas composiciones, è giustamente leggendario. Pubblico nel novembre del 1966, raccoglie i suoi pezzi più noti: Gracias a la vida fu interpretata, nei decenni, da Gabriella Ferri, Joan Baez, Laura Pausini, Placido Domingo… Maldigo del alto cielo è una lunga, dolente, rabbiosa maledizione. Tutto soffre e tutto somma, qui, Violeta, il grande sì alla vita e il poema imprecatorio, la vasta macumba. Il 5 febbraio del 1967, poco dopo aver pubblicato il suo disco assoluto, Violeta Parra si ammazza. Si spara in testa. Aveva 49 anni. Ribadendo che l’amore era il suo centro, il suo mondo, scrisse al fratello Nicanor, “Non c’entra l’amore con il suicidio. Lo faccio per l’orgoglio che sgorga dai mediocri”. “Infermità della tristezza”, disse di Pablo Neruda – semplicemente, maneggiò la pistola come una torcia, luce agli inferi. Probabilmente, Violeta non credeva nella Città di Dio né nella resurrezione, ma in un altro mondo dove gli artisti vivono in forma di giaguaro. Azzurro.
*
Maldigo del alto cielo
Maledico del cielo alto
la stella e il suo riflesso
maledico le piastrelle
bagliori nel ruscello
maledico il suolo basso
la pietra e la sua sfera
maledico il fuoco nel forno
perché la mia anima è in lutto
maledico gli statuti
del tempo e la loro ustione
che altera il mio dolore
maledico la cordigliera
delle Ande e della costa
maledico tutta questa angusta
e sottile striscia di terra
in pace come in guerra
il cruento e il volubile
maledico i profumi e i profumieri
perché ogni voglia è morta
maledico la certezza
e la falsità con il dubbio
che mi è dato dal dolore…
maledico l’anca del mare
i porti e i golfi
perché oceanico è il dolore
maledico la luna e il paesaggio
le valli e i deserti
maledico i morti
e i vivi dal re al portaborse
all’uccello regale di piume
maledico a sangue freddo
aure e sacrestie
perché un dolore mi assale
maledico la parola amore
e la sua stregoneria
che mi provoca dolore
maledico perfino il bianco
e il nero e il giallo
vescovi e monaci
ministri e predicatori
li maledico nel canto
il fuggiasco e il prigioniero
che è dolce e chi rabbioso
pongo la mia maledizione
in greco e spagnolo
colpa di un traditore
per cui mi annienta il dolore.
Violeta Parra
*
Riposa in pace
certo – riposa in pace
e l’umidità?
e il muschio?
e il peso della lapide?
e i becchini ubriachi?
e i ladri di vasi di fiori?
e i topi che rosicchiano le bare?
e i maledetti vermi
che si infilano da tutte le parti
rendendoci impossibile la morte
o voi credete che noi
non ci rendiamo conto di niente…
stupendo dire riposa in pace
sapendo che ciò non è possibile
e solo per soddisfare la lingua
sappiate che noi ci rendiamo conto di tutto
i ragni che corrono sulle gambe
come Pedrito Lastra a ca(u)sa sua
non ci lasciano dubbi al riguardo
basta con le sciocchezze
dinanzi alla tomba spalancata
bisogna dire le cose come stanno:
voi al ristorante Scacciapene
e noi nel fondo dell’abisso.
Nicanor Parra